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venerdì 7 aprile 2017

IL CASO DEL POMODORO DA INDUSTRIA


Mentre l'opinione pubblica nazionale era impegnata a disquisire sulle dinamiche interne al Partito Democratico o a discutere per ore ed ore su sterili scandali scaturiti all'interno degli sciatti programmi della “televisione pubblica”, il 7 marzo veniva stilato, nel silenzio dei più, l'accordo sul prezzo del pomodoro da industria del Nord Italia per l'anno corrente. Un prezzo che, nell'arco di un anno, è calato del 15% passando dai 92,00 € a tonnellata agli odierni 79,75 €/ton. Alla stipula dell'accordo hanno provveduto le Organizzazioni dei Produttori (una nuova forma di aggregazione di aziende agricole in forma cooperativa o associativa) e i rappresentanti delle Industrie conserviere. Un accordo che però, visti i forti risentimenti dei coltivatori, non deve esser maturato a parità di peso tra le due parti in causa. O le Organizzazioni dei Produttori non sono state capaci di fare gli interesse dei propri soci oppure, e sarebbe cosa ben peggiore, dietro tutto c'è qualche giochino sporco. Non a caso nel Resto del Carlino ( leggi QUI, parte finale) si è evidenziato come ai vertici amministrativi delle OP, spesso e volentieri, siano piazzati uomini graditi alle cosiddette associazioni di categoria (Cia, Coldiretti, Confagricoltura), le quali sono sempre pronte a fare le barricate - si ma di parole - mentre nei fatti cucinano queste magnifiche frittate, facendo poi rumore per ripulirsi la coscienza. Ci azzardiamo allora a pensare che questi vertici non solo siano graditi ai sindacati agricoli, ma forse anche alla controparte industriale. Sono nostre personali riflessioni, ma il sospetto c'è. Inoltre, guarda caso, le OP risultano molto gradite all'Unione Europea, la quale definisce queste organizzazioni “strutture di democrazia economia”, puntando molto sul loro incremento non solo nel comparto orto-frutticolo, ma anche negli altri settori agricoli. Lo scopo sarebbe quello di permettere al mondo della produzione di affrontare il mercato con maggiore forza contrattuale, non solo nei confronti della grande distribuzione e dell'industria di trasformazione, ma anche nell'ottica di creare ed aprire nuovi canali di distribuzione e vendita (filiera corta, punti vendita diretti etc etc). E per incentivare la loro creazione e il loro sviluppo l'UE garantisce finanziamenti. Per le OP orto-frutticole, come nel caso del pomodoro da industria, sono previsti contributi a fondo perduto pari al 4,1% del fatturato, a cui è possibile sommare un ulteriore contributo dello 0,5% sullo stesso fatturato in caso di situazioni critiche del mercato. Queste percentuali, però, devono essere pari al 50% delle spese sostenute. Ovvero sia, una OP che fattura 3.000.000 di euro ha diritto a 123.000 € di contributi a fondo perduto, ma solo a fronte di una spesa superiore di almeno il doppio del contributo stesso, quindi 246.000 €. Tante belle parole, tanti bei propositi, ma nei fatti dov'è questa forza contrattuale? Dov'è questa capacità di permettere un evolversi ed un espandersi delle aziende agricole? Dov'è la reale partecipazione alle scelte gestionali e strategiche delle OP da parte dei soci-agricoltori? A noi sembra invece uno degli ennesimi sistemi tesi a drogare il mercato e ad attirare profittatori d'ogni risma, che all'interno di queste strutture crescono e proliferano sulle spalle dei produttori. Un sistema che strangola, ma al contempo blandisce, rendendo le vittime complici della propria stessa lenta ed inesorabile fine. Certamente, ritornando sul prezzo del pomodoro, bisogna tener conto del fatto che l'eccessiva produzione dell'anno precedente e una considerevole rimanenza di prodotto nei magazzini, uniti agli andamenti dei mercati internazionali, hanno sicuramente influito sulla determinazione di questo prezzo al ribasso. Ma resta il fatto che ancora una volta gli agricoltori siano costretti a tirare la cinghia e a pagare le conseguenze peggiori. E qui stiamo parlando di un comparto produttivo che investe, soltanto in Italia, tra pianura padana, maremma toscana e laziale e vaste aree del meridione, una cifra che si aggira attorno ai 60-70.000 ettari all'anno e vale alcuni miliardi di euro di fatturato. Stiamo parlando di aziende agricole altamente specializzate e tecnologizzate, che nel corso del tempo hanno investito molto su innovazione e ricerca, rappresentando oggi un fiore all'occhiello della nostra agricoltura. Stiamo parlando di una coltivazione a cui è legato un comparto industriale di trasformazione capace da solo, di produrre più del 50% delle passate, dei pelati, dei concentrati di tutta Europa e di garantire lavoro a migliaia e migliaia di addetti. Senza considerare che di pomodoro da industria, udite udite, siamo i secondi produttori mondiali, superati soltanto dagli Stati Uniti che in California ne producono più di 11 milioni di tonnellate di contro ai nostri 5,2 milioni, e superiori, seppur di poco, all'immensa Cina, dalla quale però continuiamo ad importare circa 70 milioni di chili di concentrato per l'industria conserviera. L'ennesima assurdità del sistema italiano che, anche quando è ai massimi livelli produttivi su scala mondiale, continua ad importare un prodotto di scarsa qualità e di scarsa sicurezza (ricordiamo a tutti che il gigante asiatico detiene il primato mondiale per numero di notifiche su prodotti alimentari irregolari), con la scusa di lavorarlo ed esportarlo all'estero – principalmente sul mercato africano, incapace di sostenere i prezzi dell'alta eccellenza italiana. Ma forse lor signori non si rendono conto di recare così un inestimabile danno alla nostra produzione? Forse sono ignari che questi giochetti commerciali alla lunga andranno a discapito anche di loro stessi e che tirando ognuno l'acqua al proprio mulino, finisce sempre che a qualcuno poi questa mancherà? Inceppatasi una macina, a catena ne seguiranno altre ed altre ancora. E le prime a seguire i coltivatori saranno proprio quelle industrie conserviere che sono nate, cresciute e si sono fatte grandi sui nostri territori, attorno ai nostri campi, a fianco dei nostri contadini. Anche se, ad onor del vero, l'industria può sempre trovare la scappatoia della delocalizzazione, mentre l'agricoltore no. Tutto questo mentre non solo viene fissato un prezzo a dir poco ridicolo, ma si determina pure un tetto produttivo – per il Nord Italia non superiore a 1,7 milioni di tonnellate – superato il quale scatteranno multe di 20 € per tonnellata in più prodotta. Invece d'imporre dazi sulle importazioni, si confezionano multe per chi produce. Lo stesso destino che è toccato anche al nostro riso, surclassato dalle importazioni asiatiche, le quali, grazie alle agevolazioni sui dazi doganali, hanno distrutto il mercato nazionale costringendo i risicoltori italiani ad adeguarsi a prezzi insostenibili. Altro comparto agricolo in cui siamo i primi produttori a livello europeo e che stiamo lasciando scivolare nel baratro, senza un grido, senza nemmeno un fioco lamento.
Ma ci chiediamo noi oggi, di tutta questa eccellenza, di tutti questi primati, che ai politicanti di professione fa tanto comodo sbandierare a destra e a manca, cosa ne vogliamo fare? Mentre noi lasciamo che l'Europa, prona ai diktat delle grandi multinazionali dell'alimentare e degli importatori, assopisca la nostra agricoltura e la fagociti un boccone per volta, ci sono stati come Israele in cui agricoltura fa veramente rima con ricerca ed innovazione; dove nascono centri agricoli nel bel mezzo del deserto i quali, con il supporto di Università e tecnici specializzati, coltivano ortaggi laddove, fino a vent'anni fa, sarebbe stato impensabile farlo. E sapete dove esportano la loro produzione? Proprio in quella Russia a cui abbiamo imposto le nostre ipocrite, meschine e sottomesse sanzioni “umanitarie”. Non serve aggiungere altro. Solo ribadire una volta di più come la costante ricerca di una via sovrana e nazionale sia l'ultima speranza, l'ultimo spiraglio aperto per riprendere un cammino malamente interrotto.

Gruppo di Studio AVSER

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