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martedì 19 giugno 2018

LEGA E MOVIMENTO 5 STELLE: QUALI IDEE SULL'AGRICOLTURA?



Dopo una lunga gestazione, durata ben ottantotto giorni, fatta di mille peripezie, passi in avanti e passi indietro, nervosismo diplomatico e mercati volubili, è finalmente nato il nuovo governo italiano. Adesso che la fiducia è stata votata sia al Senato che alla Camera, Movimento 5 Stelle e Lega si apprestano a prender la guida della nostra Nazione in uno dei momenti più difficili della sua travagliata storia. Non c'è dubbio, l'Italia ha sicuramente attraversato fasi ben più drammatiche dell'attuale (basti pensare alle due guerre mondiali); eppure mai come adesso ci troviamo di fronte ad un bivio storico. Un svolta che probabilmente determinerà il nostro futuro per molti anni a venire. Qui è in gioco la nostra Sovranità e con essa il fuoco segreto che l'anima: la nostra Identità. Una partita che non si disputa più fra il sangue ed il fango dei campi di battaglia, ma attraverso le delicate leve della diplomazia e le sporche carte della finanza. E forse proprio dall'accordo tra due forze politiche che portano in sé anche i peggiori germi antinazionali – la Lega figlia dell'indipendentismo padano e il M5S con la sua forte componente “girotondista” - potrebbe avere inizio un processo di scardinamento delle logiche socio-economiche oggi imperanti, secondo la nota massima del poeta tedesco Friedrich Hölderlin per cui: “dove c'è pericolo cresce anche ciò che salva”. Ma queste sono mere supposizioni o, se vogliamo, suggestioni generate da chi si trova nella condizione di un naufrago in mezzo alla tempesta, a cui anche il più sparuto pezzo di legno galleggiante sulle acque appare una nave sicura pronta a condurlo in porto. Possiamo vedere il meglio ed il peggio in questa “strana” accoppiata tra Lega e M5S: la speranza o il definitivo tracollo. Ma proprio per questo è necessario lasciar perdere le suggestioni, i voli pindarici e le opinioni, concentrandosi invece su quanto possiamo analizzare sulla carta. Così il nostro Gruppo di Studio ha deciso di sottoporre a confronto i due programmi politici, prestando particolare attenzione sui capitoli riguardanti l'agricoltura, nostro campo d'indagine e di studi.
Partiamo dal famigerato “Contratto per il governo del cambiamento”, in cui sono sintetizzati, punto per punto, le comuni intenzioni dei due gruppi. All'agricoltura è dedicata poco più di una paginetta in cui si fanno le seguenti dichiarazioni in materia:

- maggior protagonismo in sede europea nella discussione dei trattati
- valorizzazione dell'agricoltura non solo quale attività produttiva, ma anche come tutela del paesaggio e degli assetti idrogeologici
- difesa della sovranità alimentare e delle eccellenze made in Italy
- snellimento della burocrazia

Molto più articolato invece il capitolo sull'ambiente – a parer nostro sintomo della predominante visione “ambientalista”, che oramai permea le nostre coscienze, a discapito di quella agraria – dove predominano dichiarazioni a metà strada tra l'utopia e il surrealismo - “..decarbonizzare e defossilizzare produzione e finanza (capiamo la produzione, ma la finanza?)..” oppure “..privilegiare la gestione dei rifiuti a filiera corta, il recupero di materia come il compost per ridurre i fertilizzanti chimici e l'irrigazione (il compost è ricco d'acqua)”. Ma dove al contempo si pone giustamente l'accento sulla necessità di fermare il consumo del suolo e migliorare il nostro sistema d'invasi per le acque, con particolare riferimento al bacino della Pianura Padana. Dunque, come abbiamo dichiarato all'inizio, trattasi di un sunto ridotto all'essenziale che ci ha costretti a verificare separatamente i due programmi proposti da Lega e Cinque Stelle per le elezioni politiche dello scorso marzo, al fine di comprendere meglio la genesi di quanto scritto sul “Contratto”.
Confrontando i due programmi ci è stato fin da subito chiaro da quale sacco provenisse la maggior parte della farina nella composizione del capitolo agricoltura: dal M5S. Infatti il programma della Lega in materia è quanto mai scarso, fermo nel ribadire la necessità di una nuova e più decisa posizione sulle politiche agricole in sede comunitaria, ma che si guarda bene dall'ipotizzare alcun tipo di soluzione tecnica ai problemi dell'agricoltura nazionale. Quello della Lega è un approccio eminentemente politico-diplomatico alle questioni agrarie del Bel Paese¹. Sinceramente ci saremmo aspettati qualcosa in più, in virtù del fatto che una buona parte del bacino elettorale di questo partito affonda le sue radici nel Nord rurale, in regioni come il Veneto e la Lombardia che sono tra le più avanzate e produttive a livello agricolo. Possibile non esser riusciti a far di meglio? Considerando anche che proprio ad un membro di questo partito – Gian Marco Centinaio – è toccato il Ministero delle Politiche Agricole e Forestali. Giudicheremo dall'operato, ci mancherebbe, ma siamo per lo meno un po' perplessi riguardo all'insediamento in tale Ministero di un laureato in scienze politiche² con un curriculum professionale che con l'agricoltura ha poco o niente a che fare. Non vorremmo ritrovarci di fronte all'ennesima operazione di puro marketing, dietro al quale si spalanca il vuoto. Ci auguriamo vivamente di esser smentiti dai fatti e alcune recentissime dichiarazioni del neo ministro, lasciano forse intravedere un piccolo spiraglio di luce³.

Il neo ministro Gian Marco Centinaio

Veniamo allora al programma dei 5 Stelle che, come abbiamo detto poc'anzi, ha guidato la stesura delle parti riguardanti l'agricoltura nel “Contratto di governo”, anche se poi non ha espresso il ministro.
Va detto fin da subito che il programma per l'agricoltura del M5S denota un certo coraggio e una singolarità in tutto il panorama politico italiano. Coraggio perché ha provato a spingere l'immaginazione oltre le soluzioni politiche ai problemi dell'agricoltura, prospettando un piano strutturale di interventi da operare nel settore. Singolarità perché è l'unico programma ad aver dedicato un certo numero di pagine all'agricoltura: ben quaranta nella versione più ampia, dodici in quella sintetica buttata giù in concomitanza del periodo elettorale. Nessun altro partito o movimento ha dedicato così tanto spazio alla questione agraria. Siamo consci del minor valore percentuale dell'agricoltura nel contesto economico italiano (2% del PIL) e del basso numero di occupati nel settore (appena il 3,8%), ma se confrontiamo i dati delle altre nazioni europee, ci accorgiamo della loro strettissima somiglianza ai nostri. Inoltre questo 2% di PIL è la base da cui trae linfa il secondo comparto industriale d'Italia, l'agro-alimentare, il quale contribuisce ad un abbondante 12% della produzione nazionale. Senza considerare che, dal nostro punto di vista, il settore primario rientra a pieno diritto in uno di quei settori strategici in cui uno Stato degno di definirsi tale dovrebbe tornare ad investire in maniera forte e programmatica. Dunque l'aver speso una cospicua fetta del proprio programma sull'agricoltura è sicuramente un merito da ascrivere al Movimento di Grillo. Ma vediamo adesso di prendere in considerazione i suoi vari punti per sviscerare la sostanza di queste pagine.
Innanzitutto, a parer nostro, si parte con un'asserzione errata o quanto meno falsata. Affermare che “l'agricoltura è uno dei settori che maggiormente garantiscono un lavoro è la favola bella che ieri c'illuse, che oggi c'illude, o Movimento! Come ha potuto scrivere Ermanno Comegna: Gli imprenditori agricoli con età inferiore a 35 anni, determinati dall'ultima analisi sulle strutture agrarie del 2013, sono il 5,9% del totale nell'Ue (28 paesi membri) ed in Italia sono il 4,5%. Rispetto al 2010, l'incidenza dei giovani è diminuita (erano il 7,5% nella Ue ed il 5,1% in Italia). Pertanto, non si vede alcun risveglio di interesse, anzi il fenomeno dell'invecchiamento della classe degli agricoltori avanza, piuttosto che retrocedere, a dispetto dei tanti sforzi fatti dalle politiche europee e nazionali. Su questo il programma della Lega è stato più chiaro, mettendo ben in evidenza le stime europee sulla drastica diminuzione di occupati nel settore primario. Non bisogna inoltre dimenticare che il fenomeno di giovani che aprono partite IVA in ambito agricolo spesso nasconde un semplice trucchetto per ottenere contributi e finanziamenti a favore dell'azienda paterna o familiare.
A prescindere da questa asserzione di partenza, ci è sembrata invece positiva e condivisibile l'idea di potenziare l'offerta nazionale per il fabbisogno alimentare; ma resta qualche dubbio sui metodi che si vogliono metter in pratica per effettuarla. Anche perché ci sembra che si tenda a fare un po' di confusione tra sovranità alimentare e difesa delle eccellenze agroalimentari italiane. Di certo la nostra sovranità alimentare passa attraverso una produzione di derrate – cereali – degna di soddisfare i bisogni primari della popolazione e non certo attraverso la promozione e la difesa del Culatello di Zibello o del Prosciutto di Cinta Senese, che con i loro 90€/kg non definiremmo proprio alla portata di tutti. Sacrosanta la loro esistenza e la loro tutela, ma il fabbisogno alimentare di un popolo ha come base il pane, non il companatico.
Ad ogni modo, positive per noi sono anche le intenzioni di ridiscutere i trattati di libero scambio, ponendosi l'obbiettivo di fare in modo che l'Unione Europea li riconsideri come misti, sottoponendoli quindi alla ratifica di tutti gli stati membri e all'esame dei rispettivi parlamenti nazionali secondo le loro procedure. Sarebbe un primo passo verso un de-potenziamento delle competenze esclusive dell'Unione in materia di negoziazione e trattati commerciali. Esclusive che troppo spesso ci hanno danneggiato e continuano a farlo (vedi l'importazione di Riso a dazio zero dal sud-est asiatico). Così come giuste sono alcune osservazioni riguardanti la Politica Agricola Comunitaria, sulla quale predominano le regole del WTO (World Trade Organization). Queste regole del commercio internazionale ormai determinano le linee guida della PAC, che di fatto è svuotata dal peso decisionale degli Stati membri, delegato alla Commissione Europea, come già visto unica detentrice della possibilità di contrattazione. Una vera e propria stortura a cui giustamente si dovrà cercare in tutti i modi di porre rimedio. 

La politica agricola comune è realmente al servizio degli Stati membri?

 
Ottima pure l'idea di redigere dei Piani Strategici Nazionali per vari settori del comparto primario, quali: olivicolo, cerealicolo, allevamenti, lattiero caseario, vitivinicolo, ittico, acquacoltura, frutta in guscio, aree forestali e selvicoltura, piano proteico. Senza voler entrare nel merito dei vari piani, ci fa piace evidenziare come questi piani vengano pensati per “consentire la programmazione delle misure volte ad incentivare la produzione: attraverso la razionalizzazione degli impianti esistenti, lo studio di nuovi sistemi colturali e la tutela ambientale. Misure che permettano l'adozione di strategie produttive e commerciali tutelanti nel breve, medio e lungo periodo”. E su questo, niente da eccepire. Sono da diversi anni che il nostro comparto agricolo avrebbe bisogno di un seria programmazione, di una strategia considerante anche il medio e lungo termine, invece di brancolare nel buio del hic et nunc.
Da segnalare tra le proposte positive, anche il potenziamento delle attività di controllo, monitoraggio e studio delle specie invasive che negli ultimi anni hanno visto fare dell'Italia il loro palcoscenico prediletto (seppure il M5S non abbia brillato in zelo ed attenzione quando in Puglia si è presentata in tutta la sua gravità l'emergenza Xylella).
Fin qui tutto bene, verrebbe da dire. Ma veniamo ora alle note “dolenti”.
In primis, ed è dal nostro punto di vista l'handicap più grave, il rifiuto aprioristico verso qualsiasi forma di sperimentazione nel campo delle biotecnologie. Non solo continuare a vietare la coltivazione degli OGM e la loro ricerca in campo aperto, ma anche un NO secco alle nuove frontiere delle biotecnologie agrarie quali “cisgenesi” e “genome editing”. Se possiamo comprendere il rifiuto verso gli OGM “convenzionali”, oramai saldamente nelle mani di alcuni gruppi multinazionali, poco comprendiamo il netto rifiuto verso le nuove tecniche della cisgenesi e del genome editing. Oltre ad essere forme più precise d'intervento genetico, le quali non comportano né l'inserimento di altro materiale genetico nella piante né uno stravolgimento del loro genoma, sono tecniche attualmente molto meno costose di quelle fin qui utilizzate. Potrebbero divenire un notevole volano di sviluppo per i nostri centri di ricerca e per le nostre ditte sementiere, capaci forse di colmare il ventennale distacco che ci separa da tutte quelle nazioni che hanno puntato sulla ricerca in campo genetico. D'altronde dovrebbe importare a noi, visto che ci si dichiara per la Sovranità alimentare, incentivare lo studio e la ricerca in materia di biotecnologie agrarie, facendo in modo che questi metodi, per adesso ancora liberi per la ricerca pubblica, non s'inabissino nel classico ginepraio burocratico. Ma se andremo in Europa a urlare forte il nostro NO, ad erigere paletti, a rendere difficoltoso anche soltanto l'inizio un processo di sperimentazione e ricerca, non faremo altro che servire un assist d'oro alle multinazionali che apparentemente si dice di voler combattere. Cosa importa alla Monsanto di turno se in Italia si vieta la coltivazione dei sui mais geneticamente modificati? Ci sono sterminati e sterminati ettari di paesi in via di sviluppo pronti a seminarli e con i quali fare migliori e più lauti affari. Che poi la questione non dovrebbe nemmeno porsi come uno scontro frontale tra noi e le multinazionali. Basterebbe parlare chiaro e porre alcune semplici regole da far rispettare. Se le si accetta, bene, siete i benvenuti in casa nostra e possiamo procedere di comune accordo; altrimenti fuori e avanti un altro! In questa delicata fase, in cui il nuovo governo sta cercando di muovere i primi passi verso un cambiamento, sarà sicuramente necessaria una forma di stretta collaborazione tra pubblico e privato, come in alcuni casi è anche già successo con effetti positivi. Starà poi a noi fare in modo che non si tratti solo di episodi sporadici, ma di una volontà costante e ben indirizzata.  



Se vogliamo cercare una nuova strada per l'agricoltura italiana, dovremo fare in modo che sappia coniugare il rispetto per la nostra storia con la ricerca e lo sviluppo, mantenendo aperte le porte alla cooperazione e allo scambio di conoscenze con chiunque voglia dare il proprio contributo. Altrimenti è inutile ipotizzare dei Piani Strategici Nazionali, per esempio quello cerealicolo, con l'obbiettivo di “assumere iniziative mirate ad assicurare, all'industria di trasformazione, determinati volumi di prodotto” - dando l'idea di avere una giusta cognizione della necessaria interdipendenza tra agricoltura ed industria – e poi propugnare la “diffusione dell'agricoltura biologica e biodinamica”. Qui siamo di fronte ad una contraddizione in termini, ad un vero e proprio paradosso. Vogliamo produrre di più, per garantire alla nostra industria molitoria grano di qualità ed in abbondanza e poi non solo ci vogliamo privare dell'apporto della genetica, ma ci auguriamo pure che agricoltura biologica e biodinamica si diffondano sempre più sul territorio. Passi per l'agricoltura biologica – che comunque significa una riduzione produttiva – ma sull'agricoltura biodinamica, con tutte le scusanti e le giustificazioni che possiamo trovare, non ci sentiremmo proprio di ascriverla tra le leve trainanti di un Piano Strategico Nazionale. Nessuno vuole asserire che i pilastri del modello agronomico occidentale – chimica, meccanica e genetica - non possano esser criticati, anche aspramente, ma bisogna avere almeno il buon senso di riconoscere che la loro sinergia ha fatto crescere le nostre produzioni agrarie come non mai nella storia dell'umanità, garantendo un'abbondanza alimentare mai raggiunta prima. Dunque è giusto criticare, è d'obbligo rivedere, riconsiderare, ma voler negare, voler recidere quasi di sana pianta la nostra scienza agronomica non ci sembra né un atteggiamento ponderato, né una prospettiva Sovranista per il futuro. 

Il famigerato corno letame, "attivatore dei processi vitali della terra" secondo le pratiche dell'agricoltura biodinamica

 
Sempre al riguardo, nel programma si delinea un intero capitolo sulla stretta ai pesticidi, dove viene enunciato il sano principio di “regolamentare l'uso della chimica in agricoltura”. Giusto. Chi non sarebbe d'accordo? Il fatto è che l'utilizzo degli agrofarmaci in agricoltura è di per sé già molto, molto regolamentato in Italia. Fatta la legge trovato l'inganno, siamo d'accordo; ma l'attuale Piano di Azione Nazionale (il famigerato PAN), che di nazionale ha ben poco e di confuso molto, ha già imposto una dura stretta per gli agricoltori. Per un'azienda agricola è oggi assai difficile sfuggire alla tracciabilità nell'acquisto dei prodotti, alla registrazione dei trattamenti sul registro di campagna, alla revisione delle botti irroratrici, ai vari controlli degli enti preposti. Però, paradosso dei paradossi, è ancora possibile vendere – con la semplice presentazione di un codice fiscale – molti degli stessi prodotti usati da un professionista ad un comune privato, il quale viene inserito su un registro di carico e scarico, ma non è assolutamente passibile di qualsivoglia controllo, a meno che non vi sia una denuncia nei suoi confronti. Oppure, per fare un altro esempio, si fa un gran parlare oggi del danno che provocano nei confronti delle api diversi insetticidi utilizzati in agricoltura. Ebbene poco si parla di quanti danni facciano alle nostre solerti impollinatrici anche i più comuni insetticidi per uso civile. Per esempio i prodotti per la lotta alle zanzare, di libera vendita perché registrati come presidio medico chirurgico e irrorati su siepi, giardini, aree verdi e residenziali, sono insetticidi scarsamente selettivi: ovvero uccidono tutto ciò con cui arrivano a contatto. Ed il cittadino privato non bada tanto a trattare se ci sono fioriture o meno in giro - cosa che l'agricoltore invece è tenuto a fare - perché quando la zanzara punge, non ci sono biodiversità o impollinazioni che reggano. Quello che vogliamo dire è che si rischia, come troppo spesso accade, di colpevolizzare le aziende agricole, già di per sé tartassate da miriadi di adempimenti, anche assurdi, per poi permettere simili cose. Prima di scaricare colpe ed anatemi sul nostro sistema agricolo, sarebbe meglio fare delle valutazioni più mirate. Dichiarare poisanzioni per la mancata osservanza del PAN” significa o non conoscere l'esistenza di un cospicuo regime sanzionatorio, già presente nel piano, o voler inasprire ulteriormente la consistenza di queste sanzioni. Siamo sicuri di volere questo? Non si rischia così di esasperare ancor di più gli animi? Sarebbe invece necessario fare in modo che si acceleri questa netta separazione tra i prodotti professionali e quelli per uso amatoriale, dando un taglio netto all'enorme confusione generata. Poi riscrivere finalmente, in carattere chiaro e davvero nazionale, il PAN – sottoposto oggi alle mille interpretazioni delle varie ASL locali - e di lì partire con una campagna di incentivazione, offrendo anche servizi di consulenza tecnica e di aiuto creditizio, affinché le aziende possano intraprendere nel miglior modo possibile gli adempimenti richiesti.
Dichiarare poi di voler interrompere le autorizzazioni eccezionali dei prodotti fitosanitari, sembra più una dichiarazione di principio che altro. In base a quale criterio e per quali contesti colturali si fanno simili asserzioni? Non sarebbe buona cosa, prima di minacciare l'uso della mano dura, soppesare e valutare meglio certe dichiarazioni? Esistono contesti colturali in cui al momento non è possibile fare a meno di determinati prodotti se si vuole mantenere un'adeguata produzione. In questi casi sarà necessaria una certa gradualità. Se riteniamo giusto sostituire metodi e prodotti obsoleti, alla lunga dannosi per salute e ambiente, bisognerà però anche dare il giusto tempo per lo studio di nuove soluzioni e fare in modo che le aziende agricole possano metterle in pratica, arrivando via via alla sostituzione di un metodo con un altro senza che si perda di troppo la capacità produttiva.
Dulcis in fundo, ciliegina sulla torta che in parte vi avevamo già anticipato, arriva quando ci si augura che “siano sostenute tutte le forme produttive agricole fondate sull'uso responsabile delle risorse naturali (agricoltura biologica, biodinamica, agro-ecologia)” o quando nel programma più ampio, a pag. 28, si dichiara quanto segue: “il modello contadino a cui intendiamo riferirci è l'azienda di ridotte dimensioni economiche ed estensive che produce con alta intensità di lavoro e bassa capitalizzazione, con vendita diretta e prevalentemente nel territorio limitrofo, che pratica la diversificazione colturale, tecniche agronomiche conservative a basso o nullo impatto ambientale come la permacultura, la riproduzione e la conservazione delle sementi e delle razze autoctone”. E qui forse crolla un po' tutta l'impalcatura, privando di senso i punti positivi che avevamo individuato nel programma. Ovvero questo “modello contadino” a cui si dichiara d'ispirarsi è qualcosa che non esiste! Oppure è talmente microscopico e talmente distante dalla realtà dell'agricoltura italiana che è quanto mai assurdo erigerlo a modello ideale. Questi sono i classici feticci post sessantottini, residui dell'ambientalismo più radicale, che oggi vanno tanto di moda nei salotti buoni delle borghesia agiata e progressista; quella che si esalta di fronte alla decrescita felice e alla riscoperta dei cibi genuini e tipici, prodotti secondo i cicli biologici di Madre Natura. Quanto di più distante da quello che per noi dovrebbe essere un approccio Sovranista al tema dell'agricoltura. Questi sono metodi di coltivazione che possono andar bene in piccole realtà, negli orti domestici o in produzioni di nicchia. Noi dobbiamo invece pensare non solo a come soddisfare il fabbisogno alimentare di oltre 60 milioni di italiani, ma anche alle richieste di un mercato estero sul quale la produzione agricola italiana è ancora sinonimo di garanzia e qualità. Sovranità non significa autarchia nel senso più retrivo del termine, ma libertà nella scelta delle proprie politiche, interne ed esterne, nel quadro delle relazioni internazionali. E per rivendicare questa libertà in campo agricolo dobbiamo utilizzare tutti gli strumenti a nostra disposizione. Strumenti diplomatici: l'apertura di nuovi rapporti politico-commerciali con partner strategici, la difesa delle nostre produzioni, l'incentivazione alla formazione e alla ricerca. E strumenti agronomici: chimica, meccanica, genetica ed oggi anche l'elettronica digitale, coordinate da una volontà politica ben programmata e dal nostro Genio, potrebbero ridisegnare un panorama diverso per l'agricoltura italiana.



Tirando le somme, cosa possiamo dire? Di certo che si tratta di un programma con spunti interessanti, ma molto confuso, dove vengono a mescolarsi istanze antitetiche tra loro – sovranità alimentare e biodinamico; piani strategici nazionali e no assoluto alla ricerca in campo genetico – e che lascia la sensazione si tratti di una sorta di copia ed incolla non ben riuscito. È vero che ogni iniziativa, in qualsiasi comparto economico nazionale, dovrà prima passare attraverso alcuni necessari cambiamenti a livello generale, senza i quali forse sarà vano ipotizzare l'attuazione di qualsivoglia programma. Per esempio, la sacrosanta lotta al caporalato non potrà mai attuarsi se prima non si troverà una soluzione congrua al problema migratorio e alle varie mafie che sopra vi lucrano. Così come sarà vano prospettare investimenti strutturali per l'agricoltura se resteremo ingabbiati nei vincoli di bilancio e non potremo operare in deficit. Ma è altrettanto vero che dobbiamo preparaci a dare delle risposte, quanto più concrete, a tutte le domande che si porranno di fronte a noi; anche soltanto per ampliare la gamma di possibilità con le quali armare l'arco teso verso il nostro futuro.
In conclusione non possiamo che augurare a questo nuovo governo di riuscire nel difficile compito che lo attende, aggiustando il tiro sul programma agricolo laddove per adesso abbiamo individuato carenze ed incertezze e lasciando perdere alcuni assurdi propositi, dettati più da un'impostazione ideologica che da una valutazione scientifica. La partita è aperta.

Gruppo di Studio AVSER

NOTE
7 - “Dal 2007 ad oggi è stato fatto un grande sforzo d'investimento, con un aumento della capacità produttiva degli zuccherifici di oltre il 40%. Anche Coprob ha lavorato per raggiungere l'obiettivo. Questo percorso ha stimolato tutti, tecnici e bieticoltori, ad adottare le nuove tecnologie per accrescere nel più breve tempo possibile la produttività di zucchero per ettaro.
Ecco tre aspetti su cui Coprob ha lavorato: i Ctb-Club territoriali della bietola, con il compito di stimolare lo sviluppo della produttività delle bietole con l’ausilio di consulenti specializzati, l'accordo con Timac Agro Italia per l’incremento delle performance produttive e qualitative della barbabietola da zucchero e della sua trasformazione industriale, e la partnership con Enel, per la conversione dell'impianto di Finale Emilia (Mo) ed il percorso finalizzato alla produzione di biogas a Ostellato (Fe).” - "Che fine ha fatto la Barbabietola italiana?"