Cerca nel blog

sabato 17 settembre 2016

"Se non ci conoscete..." Intervista a Giacinto Reale

PREMESSA

A distanza di quasi un secolo, perché tornare a parlare di squadrismo? Che senso ha interrogarsi su fatti e personaggi di un'epoca così “lontana”? Quasi nessun altro movimento come il Fascismo continua a far discutere e scatenare dibattiti. Tanto più il fenomeno squadrista, che del Fascismo rappresentò al meglio la sua anima movimentista – secondo una famosa definizione defeliciana, oggi discutibile, ma pur sempre significativa – e che ancora spaventa. Spesso e volentieri lo si sbandiera come nefasto spauracchio ogni qual volta s'infiammano oltre il dovuto i toni polemici o scaturisce un'isolata scintilla di violenza nel piatto scenario della politica odierna. Forse, come recitava la canzone di una storica formazione di rock identitario,


perché lo squadrista rappresenta il simbolo
Di tutto, dico bene tutto, quello che loro non potranno mai essere
Di tutto ciò che non potranno mai avere!
L'arroganza pura e semplice non erudita e falsamente coraggiosa
La comprensione di se stessi e l'accettazione della propria condizione
Il tutto misto alla volontà di inserirsi in modo organico, disinteressato
L'accettazione di un sistema gerarchico e naturale, ma non definitivo ne totale!
Le diverse gerarchie, diverse a seconda delle capacità, il coraggio fisico, fisico
Il coraggio di cercare di trovare lo scontro, il gusto dei pochi contro i tanti!”


E proprio di questo “gusto dei pochi contro i tanti” abbiamo parlato con Giacinto Reale, autore di un libro - “Se non ci conoscete. Racconti squadristi” edito da AGA Editrice in questo 2016 – composto da cinque racconti, che dalle campagne emiliane, attraverso piazza San Sepolcro e Fiume, ci conducono fino ai drammatici giorni della R.S.I. Con Giacinto, infaticabile ricercatore storico del periodo squadrista e repubblicano, abbiamo cercato di ricostruire, in modo articolato e diffuso, quell'atmosfera e quella tensione così ben descritta da quei versi poc'anzi citati. In quest'epoca di lamentele e sproloqui da social network, in cui molti giovani si perdono tra le maglie del virtuale, riscoprire il coraggio e la fiamma ideale che animava i giovani squadristi, i legionari fiumani o i ragazzi di Salò, può aiutarci non solo a riprendere contatto con la realtà, ma a ricordare come, in certi frangenti storici, minoranze determinate e ben preparate possano incidere sul corso della storia. Non è mai detta l'ultima parola. D'altronde anche una piccola scintilla può scatenare un incendio. Nostro intento non è fare nostalgismo spicciolo, ma ridestare la memoria, ultimo baluardo a difesa della nostra Nazione, ispirandoci a coloro che lottarono, patirono e morirono per ciò in cui credevano. Ed erano Italiani tali e quali a noi.
Francesco Preziuso


INTERVISTA A GIACINTO REALE





1) Il suo primo racconto è ambientato nelle campagne emiliane. Il Fascismo nasce sicuramente cittadino, ma si fa grande e cresce nel mondo rurale. Dove possiamo individuare l'origine di questo suo rapido espandersi fra i ceti contadini?


Ci sono vari fattori che vanno considerati: la stanchezza di molti settori del mondo contadino (non solo piccoli proprietari, ma anche semplici rurali non “leghisti”) dopo un biennio di violenze sovversive; la delusione per la sopravvenuta consapevolezza, da un certo punto in poi, dell’incapacità socialista a realizzare la parola d’ordine circolata nelle trincee “La terra a chi la lavora”; la capacità dei primi sindacalisti fascisti (tutti di provata esperienza) e l’efficacia delle loro iniziative (Farinacci realizzò nel Cremonese un “lodo” giudicato più avanzato – a favore dei contadini - delle richieste “rosse”, mentre nel Senese e altrove non mancarono occupazioni “fasciste” di terre lasciate incolte da proprietari irresponsabili); l’esistenza – normalmente sottovalutata - tra le masse delle campagne che avevano costituito il nerbo delle “nobili fanterie” in guerra, anche di un legittimo sentimento di orgoglio, per quanto fatto al fronte, contro l’anti-reducismo socialista (nel Mezzogiorno molte delle prime occupazioni di terre furono fatte da ex combattenti guidati dai loro Ufficiali e dietro il tricolore).
Sono questi: “I fascisti di campagna, solidi, membruti e tarchiati, bronzei in faccia e adusti, dai pugni poderosi, bitorzoluti e callosi, in cima a certe braccia nerborute come piazze d’armi.....nelle loro camicie di cotonina grezza e rozza, con certe morti secche da metter davvero paura” così come con affetto li ricorderà Gallian.


2) Vogliamo ricordare alcuni dei principali attori di questo “squadrismo rurale”?


Protagonisti dello squadrismo “di campagna” furono, come accennato, ex sindacalisti delle Camere del Lavoro anarco-socialiste, con l’appoggio dell’elemento “politico” del fascismo: Grandi, Balbo, Chiurco, Farinacci in particolare. Con essi, però, un gran numero di lavoratori non destinati a passare alla storia: non a caso il primo sindacato fascista nacque il 28 febbraio del ’21 a S Bartolomeo in Bosco ad opera di un contadino, Alfredo Giovanni Volta, del quale poco sappiamo, se non che, con i suoi familiari era stato “boicottato per quattro generazioni di seguito”.



I Selvaggi di Colle Val d'Elsa, tipico esempio di "squadrismo rurale"




3) Con il secondo racconto facciamo un passo indietro, precisamente al 23 marzo del 1919, data di fondazione del primo Fascio di Combattimento. Il movimento nasce per mano di una minoranza composita di reduci, arditi, sindacalisti-rivoluzionari. Lo sbilanciamento numerico rispetto all'avversario socialista era più che evidente. Eppure le vittorie sul campo si susseguono a ritmo vertiginoso. Dove stava la superiorità degli squadristi?


Il motivo del successo fascista in “pochi contro molti” sul terreno dell’azione di piazza va ricercato innanzitutto nella diversa caratura dei protagonisti: i primi squadristi erano, infatti, in gran parte ex Arditi o valorosi combattenti (si parlò di “Partito delle medaglie d’oro”), con i quali entrarono in gara di emulazione i giovanissimi, che spesso la guerra non avevano fatto.
Né va sottovalutato lo spirito che li animava, con punte di “misticismo eroico”, come fu detto, sconosciuto all’altra parte, più volgarmente materialista. Si aggiunga l’adozione di tecniche di azione (velocità, sorpresa, spostamenti rapidi, capacità di realizzare grossi concentramenti ove necessario) nuove nel campo della lotta politica, ma che anch’esse rappresentavano un retaggio della guerra “specialissima” condotta dai Reparti d’Assalto.


4) Col terzo racconto veniamo catapultati nell'impresa di Fiume. Impresa che suscitò entusiasmo nella base squadrista, di contro all'atteggiamento più tiepido ed attendista di Mussolini e dei quadri dirigenti del giovane movimento. Questa discrepanza inficiò forse il contributo del fascismo all'impresa fiumana?


In realtà, Mussolini, che era politico di finissimo intuito ed intelligenza, aveva capito che, aldilà del pur importante significato simbolico, l’esperienza fiumana non avrebbe potuto, in quel momento, portare a frutti concreti. Non credo, però che il suo appoggio sia stato “tiepido”: durante l’occupazione della città promosse raccolte di fondi, partenza di uomini, manifestazioni di sostegno e quant’altro: a Natale del ’20 fu proprio il suo realismo politico a fargli capire che bisognava accontentarsi di quanto ottenuto a Rapallo e rimandare al dopo (come infatti fece) il successivo passo dell’annessione.





5) Da Fiume si passa poi alla R.S.I., capo e coda del fascismo. Come mai non ha ambientato uno dei suoi racconti negli anni del regime vincente? Per una sorta di “romanticismo letterario” in cui gli scontri impari del principio e la lotta disperata di fronte alla certezza della sconfitta donavano miglior materiale di scrittura? Oppure perché ritiene che con l'avvento del fascismo al potere lo spirito squadrista andò lentamente spegnendosi?


Direi per ambedue i motivi: è indubbio che l’esperienza della vigilia e quella dell’epilogo –pur diverse tra loro- sono più funzionali alla scrittura di un racconto, per quel tanto di “avventuroso” che contengono. La differenza sostanziale è che la prima si svolse all’insegna dell’ottimismo e della speranza di vittoria, distinguendosi per una violenza che spesso sconfinava nella burla (“quasi goliardica” ha detto qualcuno), mentre all’epoca della RSI dominò un senso di triste tramonto, perché nessuno si illudeva veramente su un capovolgimento delle sorti della guerra, e la violenza dovette spesso adeguarsi alle forme estreme imposte da un nemico crudele e spietato.


6) Attori delle origini furono i figli della Grande Guerra; quelli della R.S.I i giovani cresciuti sotto l'egida del fascismo. Potrebbe individuare somiglianze e differenze tra i due protagonisti?


In effetti, sono più le somiglianze che le differenze: i primi erano cresciuti in un clima fatto di ricordi risorgimentali e con l’aspirazione di completare l’opera di Mazzini e Garibaldi; i secondi, educati all’idea di una ritrovata grandezza dell’Italia e di una nuova razza di Italiani, ritennero di correre al combattimento per dimostrare quanto fondate fossero le aspirazioni fasciste (nei fatti, però, piegate dalla dura legge dell’ “oro contro il sangue”) e quanto valesse quel nuovo tipo di Italiano, fedele alla parola data all’Alleato e pronto a morire per la sua idea.


7) I suoi racconti si svolgono tutti nel nord Italia. Ma c'è stato, seppure in minor misura, anche uno squadrismo meridionale. Viste le sue origini pugliesi, può raccontarci qualcosa delle camice nere nel sud Italia?


Certamente. Vi fu uno squadrismo meridionale, i cui esponenti di spicco furono Padovani in Campania e Caradonna in Puglia (senza dimenticare Starace, che era leccese, e, se pur fuori zona, fu uno dei protagonisti di quella stagione). Non mancarono gli episodi cruenti (nel Foggiano principalmente) e le prove di forza (l’attacco alla Camera del Lavoro di Bari), contro un avversario che era guidato da uomini del calibro di Di Vittorio e Di Vagno. Voglio ricordare, infine, che in Sicilia, un giovane squadrista, Mariano De Caro, il quale si era opposto alla mafia di Misilmeri, venne ucciso a colpi di lupara, sì che possiamo definirlo la prima vittima politica di questo fenomeno delinquenziale.

8) Se immaginiamo il fascismo come un cerchio in cui il punto di partenza – squadrismo – e la fine – volontarismo repubblichino – vengono a coincidere, emerge l'immagine di un percorso concluso. Lei che ha vissuto in prima linea gli anni '60, ha percepito una continuità ideale tra il vecchio e il nuovo o c'è stata la percezione di una frattura?


La mia passione per quel momento della storia del fascismo che fu lo squadrismo nasce, in effetti, dalla convinzione che atmosfere e comportamenti della vigilia si riproposero –scendendo di livello, evidentemente- nel periodo che va dalla vigilia del ’68 alla metà degli anni settanta, che ho vissuto con tanti miei coetanei: l’orgoglio di essere pochi contro molti, isolati a scuola e tra gli amici (e, spesso, anche in famiglia), la nascita di una “controsocietà” fatta di vita in comune spesso h24 e di vincoli camerateschi che non di rado ancora perdurano, ad oltre 50 anni di distanza.
Tutto cominciò, tanti anni fa, con la lettura dell’Introduzione di Pavolini al libro di Frullini “Squadrismo fiorentino”: “Certi giorni di marciapiede e di attesa, di gita e di rissa, i quali, nonostante il loro aspetto secondario e svagato furono tra quelli che più hanno contato nella nostra vita, più a fondo ci si sono impressi dentro”. Ecco, a me, 50 anni dopo, era capitato lo stesso


9) Cosa pensa e spera che possa donare il suo prezioso lavoro di rivisitazione delle origini del fascismo alle future generazioni?


Spero che la lettura dei racconti, nei quali, sia pure con una narrazione di fantasia, ho curato nei minimi dettagli l’aderenza alla realtà storica dei tempi, incuriosisca i lettori fino ad avviare un percorso di ricerca che consenta lo svelamento delle tante bugie che su quel periodo storico (fondamentale, perché non solo –come scrisse De Felice- “il vero fascismo è lo squadrismo”, ma perché senza di esso non ci sarebbe stato tutto il resto) si continuano a dire.
Per citarne solo una: non è vero che l’azione squadrista provocò, per la sua efferatezza e crudeltà (cui avrebbe corrisposto la inoffensiva mitezza degli avversari), un numero enorme di vittime. Per quanto riguarda i sovversivi, se, in assenza di dati statistici ufficiali, prendiamo per buoni quelli verificati da Salvemini, possiamo parlare di 428 morti, mentre, quelli di parte fascista furono stimati, alla fine del 1923, in una relazione delle Autorità di PS al Governo, in 433.
Quindi, qualcuno di più in questa macabra contabilità; il dato e ancora più rilevante se si considerano i numeri “di partenza” (4.000 voti fascisti a Milano contro 1.835.000 socialisti in tutta Italia), Credo, quindi, non sia azzardato affermare che il maggiore tributo di sangue fu pagato, allora - come nei “totali” riferiti alla RSI -, dai mussoliniani.


10) Un'ultima domanda, che è poi una nostra curiosità. Sarebbe possibile, secondo lei, una trasposizione cinematografica dei suoi racconti? Pensa che un giorno sarà fattibile un esperimento del genere?


Mi pare che i racconti si prestino, per la loro stessa struttura e “ritmo” ad una trasposizione cinematografica... che, però non avranno. Le cronache ci parlano delle fortissime difficoltà incontrate da registi che provano a fare film sulla storia delle foibe o su aspetti controversi della storia resistenziale. Gli alti costi e le necessarie competenze tecniche rendono per ora questo settore impermeabile ad ogni tentativo di ricerca della verità, più dell’editoria, dove, invece, le iniziative “non conformi” sono molte, e spesso di ottimo spessore.







mercoledì 7 settembre 2016

Rivoluzione Sociale. Intervista sul Corporativismo a Francesco Carlesi

Premessa

« Il fascismo fu una delle più italiane creazioni politiche che ci siano state. » Così si espresse Giuseppe Prezzolini nel capitoletto intitolato “Necrologio onesto del Fascismo” posto nelle ultime pagine del suo Manifesto dei Conservatori pubblicato nel 1972 alla veneranda età di novant'anni. Colui che attraverso le proprie riviste (Leonardo e soprattutto La Voce) preparò l'humus culturale da cui sorsero tanto il Fascismo che l'Antifascismo, gettando il suo caratteristico sguardo scettico e disincantato su quei fulminei vent'anni, non poté far altro che ammetterne l'intrinseco carattere Nazionale ed annoverare il Fascismo tra le poche originali forme di Stato elaborate in Italia. Chiunque, oggi, voglia rilanciare l'importanza del concetto di Patria in opposizione al confuso magma dell'Unione Europea, in Italia dovrà fare i conti, nel bene e nel male, con il movimento fascista e le sue elaborazioni politiche, sociali ed economiche, rappresentate all'unisono dalla loro sintesi più ardita rispondente al nome di Corporativismo. Cosa abbia rappresentato, da dove provenga, chi ne sia stato regista ed attore, quanto possa ancora insegnarci, di questo ed altro abbiamo parlato con Francesco Carlesi, autore di un importante volume intitolato Rivoluzione Sociale. “Critica Fascista” e il Corporativismo edito da AGA Editrice nel 2015. Francesco, giovane scrittore ed articolista presso i quotidiani in rete L'Intellettuale Dissidente e Il Primato Nazionale, con stile limpido e armonioso ci ha regalato una lunga intervista da leggere con profonda attenzione, volti alla riscoperta delle radici culturali (italiane, mediterranee, dinamiche, metamorfiche, parafrasando l'articolo di Valerio Benedetti in chiusura del libro) che sole potranno segnare un nuovo cammino di sovranità e grandezza per la nostra Italia.

Sandro Righini





Intervista a
FRANCESCO CARLESI

1) Partirei con una domanda all'apparenza scontata, ma che serve a mettere subito in chiaro i concetti di cui parleremo nell'intervista. Potresti dare una definizione sintetica e pregnante di corporazione e corporativismo così come furono intesi durante il Fascismo?

La parola corporativismo indica l’impostazione economica e sociale del fascismo, imperniata sui concetti di collaborazione di classe, partecipazione organica dei lavoratori alla vita della Patria, primato dello Stato in nome dell’interesse nazionale. Una terza via che ambiva a porsi “oltre” il comunismo, basato sulla lotta di classe, e il liberismo, fondato sull’individualismo e sul mercato, dottrine entrambe materialiste (ed “egualitariste”, direbbe Giogio Locchi). Questo in nome dello Stato, dell’anti-individualismo e di una rivoluzione in primo luogo spirituale, pensiamo ad esempio al mito dell’«uomo nuovo». La proprietà privata non veniva annullata, ma rivestita di una funzione sociale, poiché tutto era concepito in un quadro comunitario. La corporazione era l’organo all’interno del quale sarebbe dovuta avvenire la collaborazione, poiché questo istituto statale comprendeva rappresentanze sia dei lavoratori (nel sindacato unico fascista) che dei datori, oltre che del Partito Nazionale Fascista. A loro spettava il compito di discutere le materie riguardanti la produzione e il mondo del lavoro. Le corporazioni nacquero effettivamente nel 1934, e rappresentarono tutti i rami della vita economica del paese (abbigliamento, siderurgia, chimica, ecc…), dando vita ad un esperimento politico molto dibattuto quanto originale. La “fase corporativa” era iniziata già nel 1926 con la legge n.563, grazie alla quale il sindacato fascista veniva riconosciuto quale organo di diritto pubblico, per trattare alla pari con i datori di lavoro nella stipula dei Contratti Collettivi, che avevano forza di legge. Diversamente dall’oggi, dove i sindacati divisi esercitano le loro rivendicazioni egoistiche fuori dal controllo pubblico e spesso senza coscienza comunitaria e globale, si voleva inquadrare tutto all’interno dello Stato: «occorre, dopo il partito unico, lo Stato totalitario, cioè lo Stato che assorba in sé, per trasformarla e potenziarla, tutta l’energia, tutti gli interessi, tutta la speranza di un popolo», disse Mussolini nel 1933 all’Assemblea generale del Consiglio Nazionale delle Corporazioni. Per molti fascisti, nella redazione di «Critica» in primis, la meta fu quella di fare del lavoro il soggetto dell’economia e non una merce.

2) Emerge più d'una volta nelle citazioni di «Critica Fascista» poste sul tuo libro non solo il richiamo alla Rivoluzione Francese, ma anche la dichiarazione di un sincero intento democratico del Fascismo stesso. Può suonare strano tanto a chi di storia conosce solo la versione scolastica, quanto ad un neo-fascismo cresciuto sotto l'egida del pensiero tradizionalista. Puoi spiegarci meglio in che modo e in quale senso nella rivista di Bottai si affrontavano queste tematiche?

Il pensiero tradizionalista ha spesso contribuito a mettere in secondo piano alcuni aspetti del fascismo che sono invece parte integrante del suo spirito rivoluzionario. Penso all’Evola del Fascismo visto dalla Destra che critica il corporativismo e alcune sue spinte troppo “sociali”. Leggendo «Critica Fascista» si comprende bene come molti intellettuali e pensatori dell’epoca non avessero nulla a che a fare con qualsivoglia destra, tanto da mettere in primo piano la questione delle riforme sociali e dell’integrazione delle masse nello Stato. «La Rivoluzione non va né a destra né a sinistra. Va per la sua via ridendosi di tutte le terminologie. Essa ha di fronte un punto cardinale: lo Stato corporativo. Diciamo: di fronte. Né a sinistra, né a destra. Ma a destra mai!», scrisse Bottai. Lo stesso gerarca chiarì i rapporti con la Rivoluzione Francese (studiati a fondo da uno dei migliori storici del fascismo, Emilio Gentile) commentando la promulgazione della Carta del Lavoro, il documento che voleva essere il simbolo della civiltà fascista: «Oggi il fascismo afferma i diritti del lavoro e la supremazia assoluta della Nazione sui cittadini. Né l’uno né l’altro concetto sono in antitesi con la Rivoluzione Francese, in quanto né alcuna parità dei cittadini quali lavoratori, potrebbe esistere se non si riconoscesse come cosa ovvia l’uguaglianza dei cittadini quali uomini, né potrebbe esistere supremazia di Nazione dove esisteva supremazia di caste. Perciò la Carta del Lavoro, nel suo concetto egualitario e nell’affermazione dei diritti del lavoro, non è un’antitesi ma un superamento dei Diritti dell’uomo». Concetti chiariti e inquadrati storicamente in una conferenza tenuta a Pisa nel 1930 dal titolo Corporativismo e principi dell’Ottantanove, dove veniva spiegato come il regime rifiutasse le premesse della democrazia parlamentare in nome di un concetto diverso (e moderno) di partecipazione e libertà. Come ha scritto Valerio Benedetti, «la grande ambizione del corporativismo fu di rispondere alla sfida dell’irruzione delle masse nella storia immettendole nello Stato. E di conciliarne la volontà con quella dello Stato attraverso l’istituto delle corporazioni, ossia attraverso il lavoro organizzato». Una lettura che arriverà fino ai momenti tragici della Repubblica Sociale, dove il giornalista Enzo Pezzato annotò che se nell’Ottantanove vi fu «la lotta del terzo stato contro i privilegi feudali, oggi è la lotta del lavoro contro i privilegi capitalistici». Dalla sua penna arrivarono anche queste parole: «Il Duce ha chiamato la repubblica “sociale” non per gioco; i nostri programmi sono decisamente rivoluzionari, le nostre idee appartengono a quelle che in regime democratico si chiamerebbero “di sinistra”, il nostro ideale è lo stato del lavoro…noi siamo i proletari in lotta per la vita e la morte contro il capitalismo». A proposito dell’idea di democrazia, Gentile si espresse così in merito: «Lo Stato fascista è stato popolare per eccellenza. Il rapporto tra lo Stato e non questo o quel cittadino, ma ogni cittadino, che abbia diritto di sentirsi tale, è così intimo che lo Stato esiste in quanto e per quanto la fa esistere il cittadino». E ancora: «Lo Stato corporativo mira ad approssimarsi a quella immanenza dello Stato nell’individuo che è la condizione della forza, e cioè dell’essenza stessa dello Stato e della libertà dell’individuo».

3) Dove possiamo rintracciare le origini del pensiero corporativo prima del ventennio?

Con tutti i dovuti ed evidenti distinguo, “tracce” di corporativismo si trovano sin dall’esperienza dell’antica Roma fino alla Carta del Carnaro della Fiume dannunziana (1920), passando per alcune encicliche cattoliche come al Rerum Novarum (1891). Sul tema rimando al saggio L’Ideale Corporativo di Valerio Benedetti, che ha il merito di analizzare anche le parole di Mussolini, Spirito, Volpicelli e Gentile sul tema, troppo spesso trascurate dalla storiografia, oltre che alla voce Corporativismo del Dizionario di Politica del PNF, redatta da Carlo Costamagna. Come precursori di spessore indico due nomi: in primo luogo Mazzini (uno dei «profeti del Risorgimento» di Gentile) e le sue idee di collaborazione di classe unite a un forte patriottismo e spiritualismo, avverso a qualsiasi forma di materialismo. Non è un caso che alcuni personaggi cardine dell’esperienza risorgimentale divennero dei riferimenti importanti della cosiddetta “sinistra fascista”, quel variegato mondo di sindacalisti, intellettuali e giovani impegnato a “spingere fino in fondo” la rivoluzione e descritto con precisione nei lavori di Giuseppe Parlato. In seconda battuta indico il sindacalismo rivoluzionario, che giocò un ruolo importante contribuendo alla sostituzione del concetto di classe con quello di nazione, tanto da influenzare Mussolini in maniera decisiva in occasione del primo conflitto mondiale. Corridoni è un nome che torna spesso nella pagine di «Critica Fascista». Alcuni sindacalisti rivoluzionari approdarono all’antifascismo, mentre altri, come Sergio Panunzio, furono protagonisti nel Ventennio arricchendo il dibattito a proposito del ruolo del sindacato e dello sviluppo economico della Nazione.

4) A proposito di sindacato; che ruolo svolgeva all'interno della concezione politico-economica del corporativismo?

Il sindacato fascista era un organo di diritto pubblico inserito organicamente nell’edificio corporativo: «è nella corporazione che il sindacalismo fascista trova la sua meta», disse Mussolini. Dalla mediazione sindacale con la controparte sarebbero scaturiti i Contratti Collettivi, oltre che pareri e decisioni riguardanti il mondo del lavoro. Intento di molti teorici fascisti e funzionari sindacali era quello di contribuire all’elevazione tecnica e spirituale dei lavoratori, così da farne elemento responsabile e consapevole del processo produttivo e della vita della Nazione. Nelle memorie di molti sindacalisti, come Mario Gradi e Francesco Grossi, emerge chiaramente lo sforzo continuo per discutere ogni problematica sociale e approdare a una collaborazione consapevole. Ovviamente tra teoria e pratica ci fu distanza, e soprattutto nei primi anni del regime gli industriali si distinsero spesso per egoismo e scarso spirito comunitario, mentre le difficoltà salariali erano all’ordine del giorno. Ma il sindacato produsse costantemente molte eccellenze che saranno l’architrave della classe dirigente fascista, dagli anni Trenta in particolare: pensiamo a Pietro Capoferri (vicesegretario del Partito allo scoppio della Guerra), Tullio Cianetti (ultimo ministro delle Corporazioni) o Giovanni Spinelli (ministro del Lavoro della RSI), tutti autori di proposte (come quella della partecipazione agli utili dei lavoratori) degne di nota. Sabino Cassese ha notato che all’epoca «il dirigente sindacale assunse uno status di funzionario semi-pubblico, che consentiva una notevole mobilità, sia verticale che orizzontale». Ancor più significativo il fatto che «in nessun periodo precedente della storia unitaria era stata aperta una strada così larga all’accesso di sindacalisti al governo».




5) Torniamo a «Critica Fascista»: chi furono i suoi principali collaboratori?

Il periodico di Bottai si avvalse delle migliori firme del tempo, dando vita ad alcuni dibattiti di alto livello. Sergio Panunzio e Augusto De Marsanich furono protagonisti di alcune pagine significative a proposito del ruolo del sindacato, così come un giurista quale Costamagna. La rivista ospitò le polemiche tra liberali e corporativisti a proposti della «nuova scienza economica» fascista, fino agli articoli di Ugo Spirito, uno dei filosofi più noti e controversi dell’epoca. Altri nomi degni di menzione sono Camillo Pellizzi, Ugo Manunta, Agostino Nasti, Gherardo Casini. Un posto speciale occupò Berto Ricci, una delle intelligenze più vitali e anticonformiste del regime («Affogare nel ridicolo chi vede nella discussione il diavolo; chi non capisce la funzione dell’eresia; chi confonde unità e uniformità. Muoversi, saper sbagliare. Sapere interessare il popolo all’intelligenza [...] libertà da conquistare, da guadagnare, da sudare [...] una libertà come valore eterno, incancellabile, fondamentale»), ferocemente antiborghese, capace di criticare i ritardi del regime, discutere con rigore il concetto di Impero e soprattutto di corporazione quale organo di selezione delle classe dirigente e accorciamento delle distanze sociali. La sua coerenza e la sua passione anticapitalista erano tali da trovarlo sempre in prima fila quando c’era da combattere, tanto da trovare la morte in Africa nel secondo conflitto mondiale. Un esempio non solo culturale, ma anche di vita, in contrasto con i molti che dopo averlo seguito abbandonarono la causa nel momento della crisi del fascismo e della Nazione, come Indro Montanelli.

6) Da più parti il Fascismo viene presentato come un regime dittatoriale in cui la discussione e il dibattito sono banditi dalla vita politica e culturale della Nazione. Il tuo lavoro sta qui a smentire questa tesi. Quali furono su Critica Fascista i confronti più accesi intorno all'elaborazione delle teorie corporative?

Giovanni Belardelli studiando il fascismo ha parlato di «Ventennio degli Intellettuali» e «Ventennio delle Riviste», e basterebbe questo per capire che all’epoca non mancarono studi rigorosi e confronti dialettici. «Critica Fascista» è uno degli esempi più lampanti in questo senso, seppur alcuni elementi (come la fedeltà al Duce) non venissero mai messi in discussione. Nei primi anni del regime non mancò la confusione teorica a proposito delle impostazione economiche del fascismo, e la rivista diede spazio alle più diverse posizioni in merito, fino a quelle più conservatrici espresse da Volt. I sindacalisti spingevano per massimizzare il coinvolgimento della loro organizzazione nell’architettura sociale dello Stato, mentre altri si battevano per il “primato” del Partito, quale garante e custode dei principi rivoluzionari. Una tensione che andò avanti per anni, con lo “sbloccamento” (1928) quale peggiore bastonata che colpì il sindacato stesso. Ogni passaggio ufficiale (come la creazione del ministero delle Corporazioni) veniva analizzato e commentato dai redattori, mentre si scatenavano polemiche con socialisti (come Rigola) e liberali (come Einaudi) in nome della rivoluzione corporativa, che ambiva a mettere in discussione i presupposti stessi della scienza economica classica e concetti come l’homo oeconomicus. Grande risalto fu dato al Congresso di Ferrara (1932) e alla teoria della «corporazione proprietaria» di Spirito, contestata da Bottai senza negare l’importanza di tesi e fermenti che “smuovessero le acque”. Nel corso degli anni Trenta possiamo trovare inoltre dettagliate analisi riguardo ai casi esteri messi a confronto con il corporativismo, fino al sogno di un nuovo ordine europeo impostato proprio sui principi sociali della terza via.

7) Su Critica Fascista venne aperto anche un confronto con l'Unione Sovietica, che destò non poche critiche negli ambienti più conservatori del regime. Quali i punti di contatto e quali le differenze tra le due esperienze?

«Roma e Mosca o la vecchia Europa?» fu il titolo di un articolo che sintetizza alla perfezione un dibattito apertosi sulle pagine della rivista. Bruno Spampanato aprì la polemica descrivendo il bolscevismo come una sorta di «preludio al fascismo», che si sarebbe gradualmente avvicinato alle concezioni italiane liberandosi dal materialismo. Al regime di Mosca veniva riconosciuto il valore di essersi opposto al decadente modello di Stato liberale e alle «plutocrazie borghesi» allora dominanti. Non a caso, proprio in quel periodo Mussolini aveva detto: «Contro il fascismo si è schierata la Vandea reazionaria di tutta Europa, che si sente battuta in breccia dall’implacabile procedere vittorioso di un regime saturo di giovinezza e di vita, maestro di energia, assertore di sincerità e forza. L’Italia e la Russia sono i due soli (per quanto antitetici) principi di rinnovamento del mondo moderno. O con Mussolini o con Lenin: non c’è altro scampo per la società borghese che ci odia, ma deve ammirarci e soprattutto temerci». Accanto a Spampanato, Riccardo Fiorini fu tra i più accesi sostenitori delle somiglianze tra le due rivoluzioni prevedendo «futuri incontri», in una discussione che, nel corso degli anni, interessò un grande numero di personaggi e posizioni diverse, tanto che quasi per porre un freno alla cosiddetta “moscofilia”, nel 1933 il PNF promosse una pubblicazione di spiccata impostazione antisovietica: Fascismo e Bolscevismo, ad opera di Pietro Sessa. L’opposizione al capitalismo per molti giovani e intellettuali fu sempre di gran lunga più forte rispetto a quella al comunismo. Se lo sforzo antiliberale e totalitario può lasciar pensare a qualche somiglianza, però, le differenze rimasero insanabili: lo spirito “egualitario”, livellatore, burocratico e materialista del comunismo rimaneva radicalmente opposto ai principi fascisti. In ogni caso le analisi sui piani quinquennali della Russia sovietica effettuate da Ettore Lo Gatto, le traduzioni promosse da Bottai, la figura di Bombacci restano quali esempi della capacità di un’Italia dalla forte identità di studiare con passione e competenza il quadro internazionale senza pregiudizi. Una vitalità che attirò l’interesse di molti socialisti e comunisti in Europa, come testimonia il famoso «Appello ai fratelli in camicia nera», firmato anche da Togliatti. Suggestioni destinate a spegnersi nel sangue della guerra di Spagna e infine della catastrofe del secondo conflitto mondiale, ma che restano, ancora una volta, quale testimonianza del lascito culturale di una «rivoluzione sociale» autenticamente italiana.

8) E' oramai assodato dalla storiografia, anche se non sempre messo in giusta evidenza, che gli Stati Uniti d'America prestarono somma attenzione verso il fenomeno fascista e le sue risposte alla crisi del '29. Cosa nel New Deal si richiama direttamente alle elaborazioni socio-economiche del Fascismo?

Professori e tecnici del New Deal si recarono in Italia per studiare le riforme corporative, in un momento storico in cui la Nazione era al centro dell’attenzione di tutto il mondo per i suoi principi rivoluzionari. D’altro canto, praticamente in ogni paese d’Europa e del mondo sorsero movimenti che si rifacevano apertamente al fascismo, con il corporativismo visto come elemento di primario interesse. Economisti e intellettuali spesso si avvicinarono a questo ideale proprio perché aveva tentato di offrire soluzioni innovative e credibili alla crisi del sistema capitalistico. In America gli studi sul corporativismo furono ben più numerosi rispetto a quelli italiani a proposito del New Deal, elemento non poco sorprendente. Bottai fu invitato a esprimere le sue posizioni sulla prestigiosa rivista Foreign Affairs. L’istituzionalizzazione del sindacato, la promulgazione di codici per la concorrenza leale e la massiccia presenza dello Stato sono passaggi molto vicini alle elaborazione socio-economiche delle camicie nere, in stridente contrasto con il retaggio liberale del paese. Proprio per questo la Corte Suprema dichiarò anticostituzionali alcune parti del New Deal, contribuendo a rallentare la strada intrapresa. Alla fine gli Usa usciranno veramente dalla crisi solo con la seconda guerra mondiale.

9) Quanto venne realizzato e quanto rimase soltanto sulla carta del programma corporativo?

In questi ultimi tempi diversi autori stanno cominciando a descrivere il corporativismo e i suoi risultati per quelli che furono i reali contorni, sebbene rimanendo all’interno di un giudizio negativo. Non potrebbe essere altrimenti, visto che Santomassimo (La terza via fascista), Gagliardi (Il corporativismo fascista) e Cassese (Lo Stato fascista), hanno un’impostazione culturale di fondo che cozza irrimediabilmente con la tensione spirituale che animò uomini come Ricci e Gentile e il tentativo di costruzione di Stato etico, armonico collettivo e partecipazione corporativa. In ogni caso, Gagliardi in particolare ha dimostrato come le corporazioni non furono vuoti organi burocratici ma luoghi di discussione e collaborazione: «le istituzioni corporative non risultarono affatto ininfluenti, perché costituirono la sede in cui vennero discussi provvedimenti relativi alla politica economica e industriale e ai temi del lavoro e dell’assistenza». Per quanto indirizzati dalla politica, i lavoratori trovarono un canale di espressione e confronto, e il sindacato svolse un ruolo autonomo e originale. Le rappresentanze corporative arrivarono fino al parlamento con la creazione della Camera dei Fasci e delle Corporazioni (1939). Proprio questo humus culturale diede vita alla socializzazione delle imprese della RSI (1944), nient’altro che un «momento del corporativismo» che permise ai lavoratori l’ingresso nella gestione dell’azienda estromettendo il capitale puramente speculativo. A rimanere solo sulla carta ovviamente fu molto, come riconobbero molti redattori di «Critica Fascista» negli ultimi anni del regime, facendo un’onesta e a volte pesante autocritica. La continua tensione sociale e i compromessi della classe dirigente con forze conservatrici come la Corona e l’alta industria sono stati descritti tra gli altri da Anthony G. Landi in Mussolini e la Rivoluzione sociale. Lo stesso Bottai fu uno dei più lucidi commentatori a proposito degli errori delle riforme fasciste, rivendicando però allo stesso tempo la bontà di un esperimento che aveva dato tanto all’Italia, divenuta esempio a livello internazionale. Di lì a poco il gerarca farà però una scelta totalmente opposta a quelle che furono le sue parole e i suoi convincimenti per più di vent’anni.

10) Forse, oltreché la fortuna, fu il tempo a mancare, ma diversi storici sostengono che il corporativismo era destinato a fallire a causa della sua intrinseca nebulosità d'idee e programmi. Alla luce dei tuoi accurati studi sulla materia, qual è la tua opinione in merito?

Pensare che programmi “intrinsecamente nebulosi” possano aver dato vita alla Carta del Lavoro, alle Corporazioni, alla Camera dei Fasci e delle Corporazioni, al Codice Civile (con la Carta quale premessa) e infine alla socializzazione delle imprese nell’arco di appena vent’anni mi riesce difficile. La volontà di cambiamento era perseguita con indubbia coerenza e andò avanti fino all’ultimo giorno del fascismo di Salò, dove non mancarono innovazioni, dibattiti e progetti di Costituzione. La storiografia vorrebbe dimostrare che comprensibili incertezze teoriche e difficoltà dettate dagli eventi siano invece fallimentare inconsistenza. Onestà intellettuale dovrebbe far ricordare che qualsiasi sistema politico genera differenze tra teoria e pratica, pensiamo a concetti come democrazia o Unione Europea, cosa “vorrebbero essere” e cosa realmente sono. Di fronte a questi esempi, l’esperimento corporativo spicca invece per ricchezza e velocità d’esecuzione, pur con tutti gli errori del caso.




11) Hai partecipato anche ad un lavoro collettivo intitolato “Corporativismo del III millennio”, edito sempre per AGA Editrice. Cosa possono insegnarci oggi le elaborazioni e l'esperienza del corporativismo? Sei realmente convinto della loro profonda attualità?

Il corporativismo fu il momento centrale dell’insubordinazione fondante italiana, per usare una categoria coniata da Marcelo Gullo, attraverso la quale la Nazione si emancipò dalla teorie economiche e dai condizionamenti delle potenze egemoni per segnare una via autonoma allo sviluppo. L’insegnamento in questione è chiaro: abbiamo nel nostro patrimonio culturale la forza per ritrovare la sovranità e una socialità diversa da quella proposta dai modelli anglosassoni. L’attualità di quelle teorie è confermata dalla storia: lo Stato sociale, il sistema pubblico-privato ideato da Beneduce, l’IRI furono elementi fondamentali del boom economico e del rilancio del nostro paese dopo la guerra, grazie anche alla tempra di quella gioventù cresciuta nelle palestre del regime con l’ONB, l’OND e i GUF. Questi cardini rimasero in piedi fino agli anni Novanta, quando sono crollati sotto i colpi delle privatizzazioni e della globalizzazione. Venuto meno il contraltare comunista (per quanto poco “reale”), il liberismo di marca americana ha avuto la strada spianata. Ma gli esempi non finiscono: nel modello sociale di Olivetti (si legga ad esempio Ai lavoratori o Democrazia senza partiti), nell’esperienza dell’ENI di Mattei, nell’opera di Fanfani (professore di diritto corporativo nel Ventennio) si possono trovare molti spunti “corporativi” che avrebbero ancor oggi qualcosa da dirci. Merito del libro Corporativismo del III millennio è proprio quello di far tesoro di tutto questo per rilanciare uno spirito comunitario nel quadro della società liquida e “precaria” di questa tempi, con tutte le difficoltà del caso. Il volume rappresenta una perla rara e uno spunto di riflessione non banale nel panorama odierno, pur essendo passato sotto silenzio nei grandi circoli culturali. Sullo stesso piano colloco La nobile impresa il libro di un giovane sindacalista, Gianluca Passera, che ha portato avanti uno dei tentativi più maturi di attualizzare i principi del corporativismo e della socializzazione. Nella convinzione che «la solidarietà tra i fattori produttivi, è storicamente dimostrato, non si crea dall’esterno con la contrapposizione, si crea dall’interno con la partecipazione, che non vuol dire sottomettersi al concetto di capitale, vuol dire affiancare in maniera matura la gestione aziendale, per limare le occasioni di disuguaglianza con proposte reali e non demagogiche o interessate». Per chiudere cito il Professor Gaetano Rasi, autore di contributi fondamentali sul tema, che dopo aver retto l’Istituto di Studi Corporativi (legato all’MSI) per vent’anni, porta ancora oggi avanti la battaglia per i temi della partecipazione e della rappresentanza delle competenze attraverso il CESI, una memoria storica vivente che a più di novant’anni non smette di essere esempio per rigore e passione.