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giovedì 28 aprile 2016

ECCE HOMO - Ferruccio Bravi

In occasione del Natale di Roma, abbiamo commemorato quella solenne data augurandoci che fosse di nuovo fonte d'ispirazione per una ritrovata Concordia Nazionale sotto il segno unificatore dell'Urbe Eterna. Cosa che non potrà mai essere il 25 aprile, data che individua altresì la profonda spaccatura interna creatasi con la guerra e, una volta definita la sconfitta, la progressiva perdita di sovranità dell'Italia. Perché non dobbiamo dimenticarci, mai, di averla persa la guerra. Ed è proprio da questa mistificazione della sconfitta che sono nati i peggiori mostri della nostra più recente storia.
Episodio tragico e orribile seguente al 25 aprile, è senz'ombra di dubbio la morte di Mussolini. S'illudono coloro che vedono in quell'esecuzione la fine dei massacri, l'ultimo necessario sacrificio che avrebbe placato la sete di vendetta. La fine di Mussolini non fu che uno della lunga serie di omicidi e altrettanto efferati crimini protratti dalle bande partigiane comuniste fino al 1948 inoltrato. Il più eclatante e famoso certo, ma non l'ultimo. E come in tutto il resoconto che fin qui c'è stato proposto da certi storici riguardo la Resistenza, anche intorno alla morte di Mussolini non mancano contraddizioni e lacune. Con uno scritto inedito, ma redatto già alcuni anni orsono, il nostro fondatore Ferruccio Bravi ha cercato di far luce sulla cortina di nebbia formatasi intorno a quei concitati giorni, svelandone incongruenze e manipolazioni. Lo presentiamo qui oggi con l'obbiettivo di ridare la giusta dignità ad un uomo su cui in tanti hanno cercato di scaricare le proprie colpe per ripulirsi la coscienza. Ma il fango gettato in settant'anni, si sta inesorabilmente seccando e mano a mano che si sgretola lascia trasparire la verità, quella verità che prima o poi trova sempre la strada per affermarsi. È giunta l'ora che gli Italiani facciano i conti con una realtà ben diversa da quella che ci hanno presentato e si sveglino dal lungo torpore che li ha avviluppati. In questo 28 aprile 2016, il nostro è un piccolo squillo di tromba che si unisce al coro di quanti ancora credono nell'Italia e ritengono necessario guardare al passato con occhi scevri da pregiudizi, perché solo così potremo ridestare le coscienze e sperare che il nostro futuro sia diverso da quello che si sta amaramente prospettando all'orizzonte.


Sandro Righini




Ecce homo


estratto da:
Le Piaghe d’Italia, bricciche di cronaca (1987 -2016)
Inedito di Ferruccio Bravi


I «CROCIFISSO DUE VOLTE

«Un uomo, no, non si era mai veduto
nei secoli, due volte crocifisso.
…E lui, vinto, sereni
e miti sguardi, non sdegnosi e inquieti
presso a morte volgeva…».
Ezra Pound

oggi è una mesta ricorrenza per l’Italia, precipitata da cinquant’anni in un abisso da dove non c’è modo di risalire. Ogni italiano che dalla disfatta del ’45 non abbia ricavato miserabile profitto maledice quel giorno. Anche a non provare nostalgia di tutto ciò che allora allietava la nostra giovinezza, anche ad essere spietati nella condanna del Capro Espiatorio di errori non tutti suoi e forse inevitabili, questo è un giorno di lutto per la Patria comune.
Per rendersene conto – e soprattutto a disinganno della gioventù disinformata – può bastare una riflessione obiettiva sul tramonto del diffamato Ventennio. Il 25 luglio aveva rivelato i limiti e le tare del primo Fascismo che dopo un avvento atipico ebbe un consenso di popolo unico nella nostra storia. Un consenso motivato non soltanto dal buon governo, da grandiose opere pubbliche e opere assistenziali sane ed efficienti, ma anche dall’ignavia della massa che finché tutto va bene trova giusto e comodo rinunciare all'esercizio di un ruolo politico e alla cosiddetta (illusoria) par-tecipazione. Come in ogni sistema in ascesa, gli opportunisti avevano invaso in breve ampi spazi dell’area di Regime, soverchiando ed emarginando i fedelissimi che approvavano acriticamente quanto diceva e faceva «il Duce che ha sempre ragion1.
L'ingenuità e l'inesperienza impedivano a questi fideisti di giudicare obiettivamente la situazione e opporsi ai maneggi degli infidi che spadroneggiavano, Duce tollerante, ai vertici di governo e di partito: vani fanatici che si fecero parte diligente nello sconsiderato intervento del 1940, ma quando la guerra volse al peggio rovesciarono Mussolini e si arrogarono il diritto di decidere sul futuro dell'Italia.
Fra costoro che per eccesso di zelo determinarono la crisi che ad un tempo travolse Fascismo e Italia emergono il ministro degli esteri Ciano il quale – malgrado riserve e remore del suocero Mussolini – aveva firmato il Patto d'Acciaio con Hitler, Grandi che manteneva stretti i vincoli fra Palazzo Venezia e Quirinale, Bottai mistico integralista che aveva imposto l'insegnamento della Dottrina del Fascismo nelle scuole. Questi ed altri congiurati di mediocre livello – per quanto ben al disopra della classe politica antifascista per intelletto e capacità – avevano sbagliato tutto.
Se lo scopo del colpo di stato del 25 luglio era quello di predisporre l'uscita dell'Italia dal conflitto col minor danno possibile, fu madornale errore l'aver estromesso Mussolini, l'unico qualificato a chiedere e ottenere da Hitler la libertà d'azione necessaria per trattare una pace separata, l'unico nostro rappresentante di statura internazionale che avrebbe potuto condurre trattative con gli Alleati. Nella circostanza i congiurati fascisti furono comunque così malaccorti da farsi spiazzare da un mediocre generale e da un monarca di statura esigua – non solo fisica, ma soprattutto morale – che a loro volta gestirono nel modo peggiore l'uscita dell'Italia dalla guerra.
Al 25 luglio seguì l’8 settembre e a questa vergognosa data la frattura materiale e morale dell’Italia alla mercé di nemici vecchi e nuovi. Tralasciando la breve stagione della Repubblica Sociale Italiana e del Regno del Sud governato da Badoglio per mandato dei liberatori, si arriva al sacro macello delle radiose giornate” partigiane, che hanno diviso in due l’Italia, e allo scempio di Piazzale Loreto.
Dice il Pound: Mai si era veduto nei secoli un Uomo due volte crocifisso”. Due volte sole? Mi pare che da cinquant’anni in qua il Colpevole sia crocifisso tutti i giorni, come il Cristo da certi cristiani (i quali, tuttavia, del loro Cristo dicono bene, perché perdona tutto e tutti, perfino le loro malefatte e loro stessi che non la perdonano a nessuno).
Di Mussolini ogni atto scompare sotto valanghe di menzogne. I fascisti reagiscono con l’affermare che è retaggio regale di chi è onesto e compie azioni eccellenti, essere vittima di calunnia infame. Diciamo pure, generalizzando, che il linciaggio morale non risparmia nessuno, a cominciare dai migliori.
Vedi Garibaldi. La calunnia guelfa lo ha sommerso in una favolistica infame QUANTO quella anti-mussoliniana. A sentire i clericali l’Eroe dei Due Mondi, che pure non disdegnava l’amicizia di onesti frati, «voleva appiccare l’ultimo re con le budella dell’ultimo pret. Similmente il giovane Mussolini avrebbe lasciato il segno nel mio Trentino non solo con le puntate de L’amante del Cardinale – romanzo che narra i documentati sollazzi di un illustre principe vescovo tridentino – ma con plateali attacchi alla religione cattolica e al clero che fanno ancora fremere i precordi dei miei timorati compaesani 2.
La favolistica anti-garibaldina trova riscontri in quella anti-mussoliniana anche nella pretesa fuga dell’eroe nizzardo da Milano. Il clero propalò la diceria dun tesoro che egli, lasciando Roma nel ’49, aveva portato con sé e nascosto non lontano dalla fattoria alle Mandriole dove si era rifugiato con Anita moribonda 3. La fandonia del Tesoro del Duce non è altrettanto semplice e lineare, è anzi molteplice e variegata, come del resto le cangianti versioni della sua fuga, tali che, raccolte in volume, ne risulterebbe un matto-ne più corposo e indigesto di un’annata di atti parlamentari 4. Inversamente proporzionata alla mole è la smentita, asciutta e concisa. Se è vero – come è manifesto alla luce del sole – che Mussolini disprezzò sempre il danaro è assurdo parlare di Tesoro del Duce; se invece per oziosa ipotesi fosse esistito, il tesoro avrebbe avuto ugual sorte del Tesoro di Dongo. La verità riposa in fondo a un mare di bugie ed è nota solo a certi guerriglieri rossi ricchi e quartati.
Quanto gli antifascisti da allora in poi hanno riferito sulla fine di Mussolini sprofonda nella contraddizione e nell’assurdo.
Il castello di falsità ha cominciato a sgretolarsi già nel '55 quando furono pubblicate le memorie di un agente dei servizi segreti germanici addetto alla persona del Duce 5.
L’agente avrebbe assolto il delicato compito – non si sa bene se di proteggerlo o piuttosto di spiarne i movimenti, passo per passo e ora per ora – con teutonica meticolosità dall'autunno '43 al momento della cattura. Nelle sue memorie riferisce che, accingendosi il comando della colonna che risaliva la Valtellina a consegnare i fascisti della colonna stessa ai partigiani, Mussolini respinse recisamente ogni sotterfugio suggerito dal suo protettore: «Resterò qui sull'autoblinda fino all'ultimo. Non mi arrenderò mai ai partigiani. Sarebbe una soluzione indegna di me. Mi vergognerei sempre di dire che sono sfuggito ai partigiani travestendomi da tedesco. Preferisco combattere». Parole testuali, inequivocabili, che già da sole rivelano un clima ben diverso da quello mefitico artefatto dai logografi marxisti, a cominciare proprio dai molteplici assurdi travestimenti 6.
Fra le versioni non infamanti, più o meno coerenti ma lacunose, l’unica per ora interamente accettabile è quella ricostruita al vaglio degli elementi attendibili da Luigi Imperatore nel modo che segue.
Mussolini lasciando Milano per la Valtellina, sciolse i suoi dal giuramento. La "bella morte" sarebbe stata scelta per libera decisione individuale.
Prese la via di Como non per riparare in Svizzera: Como era prescelta come pre-campo e d’altronde la strada di Lecco stava per essere tagliata dalle unità nemiche avanzanti da sud-est. La colonna italiana era inserita in quella tedesca in ritirata. Mussolini «fu esplicitamente arrestato dai tedeschi alle ore 15 circa del 27 aprile 1945 fra Musso e Dongo per essere consegnato ai comandi partigiani»: un tradimento perpetrato da Wolff in combutta con Himmler per i loro loschi fini 7.
Tramite i partigiani, Mussolini doveva essere consegnato agli "Alleati" quale quale merce di scambio. «Il Duce era ancora una grossa carta da giocare nella ribollente situazione italiana ed europea ed è logico che gli "Alleati" volessero catturarlo prima che altri potessero strumentalizzarl. 8
Il Reichsführer delle SS Wolff e Himmler cooperarono alla cattura: a Morbegno emissari tedeschi, "alleati" e partigiani avrebbero concertato la consegna a Dongo, di comune accordo.
Tutti erano interessati all'eliminazione di Mussolini: un regolare processo contro un imputato in condizione di ritorcere le accuse contro i suoi accusatori avrebbe avuto effetti clamorosi; quanti in Italia e fuori avevano approvata e fiancheggiata fino al 25 luglio del '43, o almeno fino al 10 giugno del '40, la politica di Mussolini avrebbero perduto la faccia.
Primo fra i tanti: Churchill 9. «I comunisti italiani vollero precedere tutti nell'uccidere Mussolini, temendo più degli altri l'effetto d'una sua sopravvivenza. Essi furono in questo modo solo il crudele strument dei moltissimi che a loro discarico volevano eliminarlo; anche gli americani che apparentemente non avevano interesse. Si afferma anzi che volessero salvare il Duce e sottoporlo ad un processo che avesse almeno una parvenza di legalità, ma l'affermazione è puramente gratuita: conosciamo bene i ‘liberatori' dalla forca facile (da Norimberga all’assassinio di Osama Bin La-den) i quali finché possono scaricano sui luridi complici stranieri il compito di assassinare gli avversari. (i quindici partigiani che straziarono Mussolini, Claretta 10 e altri diciassette in tutto indossavano l’uniforme americana con ottimo equipaggiamento. 11 I sinistri personaggi in maschera entrati nella storia patria col grimaldello comunista, altro non furono che vili esecutori materiali di un sottile cinico disegno, tipicamente Made in Usa: uccidendo Mussolini i comunisti si assumevano la responsabilità del delitto e gli yankees (già in clima di guerra fredda) potevano «speculare sull'anti-comunismo dei fascisti italiani che, allora, erano accreditati dun grande peso, anche numeric.
Pertini, Longo e altri scellerati non furono i veri mandanti del crimine ma, da squallidi e ignari fantocci manovrati dall'occupante, ne trassero occasione per soddisfare la loro brama di protagonismo e per accanirsi vigliaccamente su un avversario inerme 12.
In questa ricostruzione plausibile per dati non controversi correttamente utilizzati più d’un'illazione colma i vuoti. Essa non è ancora la verità, ma alla verità molto si avvicina. Per intanto è l'unica accettabile, sia pure con molte riserve; ma dobbiamo accontentarci, perché la manipolazione e la distruzione delle prove precludono ogni certezza assoluta su ciò che accadde realmente dalla mattina del 27 aprile all'alba livida e sanguigna del giorno dopo 13.

1. L'epiclesi Duce fu coniata dal socialista Olindo Vernotti dieci anni prima della marcia su Roma.

2. È Sacra Scrittura, per i fedelini della mia valle, la sfida del compagno Benito al Padreterno ad ogni apertura di comizio: da truculento tribuno socialista, Mussolini concedeva all’Onnipotente dieci minuti per fulminarlo con un colpo apoplettico. Scaduto il tempo – narrano i santocchi – quel sacrilego estraeva dal panciotto el pataclón (il cipollone alla catena) e fra le risa sguaiate della piazza annunciava: «I dieci minuti son passati, il Padreterno non s’è fatto vivo, segno è che non esiste. E adesso parliamo di cose serie». E riprendeva a tuonare contro i capitalisti e la Curia che era dalla parte degli sfruttatori e si arricchiva alle spalle dei poveri contadini.
O quantum mutatus ab illo, il personaggio, una ventina d’anni dopo nel concetto della Chiesa! Definito dal Pontefice Uomo della Provvidenza, benedetto dal clero che esaltava ogni sua impresa di guerra come una crociata, lapidi nelle chiese che non vi dico. Cito appena l’epigrafe apposta nel Duomo di Milano dal fascistissimo cardinale Schuster: «Gesù Re dei Popoli, dona lunghi anni all’Italia e al Duce…». La preghiera del beatificando presule non è stata esaudita da un Padreterno che nella circostanza, tardivo ma inesorabile come lo Jahvè giudaico, parve vendicarsi dell’antica offesa. L’inopportuna lapide è stata rimossa dallo stesso Schuster che dopo l’assassinio di Mussolini l’ha sostituita con un'altra in cui si inneggia alla «liberazione dai tiranni in fug. I fascisti restati cattolici si consolano comunque, di questa e d’altre maramalderie clericali, con la conversione del loro Duce, germogliata in trincea dopo Caporetto e maturata negli ultimi mesi della RSI secondo la sospetta testimonianza di Padre Eusebio. In argomento: v. il capitolo seguente.
3. Tanto fu radicata la calunnia, che fin verso la fine del secolo i contadini delle paludi di Comacchio continuarono a cercare il «tesoro di Garibald. Fra le tante, si raccontava pure che Garibaldi nel Sud America rubava cavalli e per punizione gli mozzarono le orecchie; e da allora, si asseriva, portò i capelli lunghi per nascondere l'umiliante mutilazione.

4. “I giorni dell'odio” di autore obiettivo e documentato che ricostruisce gli ultimi tre giorni di vita del Dittatore, riferisce la dichiarazione d’un brigadiere dei Carabinieri secondo il quale nel "bottino di Mussolini" «c'era qualcosa come undici miliardi di lire di allora» e «diversi sacchetti pieni di sterline d'oro» veduti da lui stesso. Si vociferava anche di un commissario di P. S. sparito nel nulla quando era sulle tracce del Tesoro del Duce e del Tesoro di Dongo. Fra i quotidiani d’epoca che si scapricciavano in argomento la sparò più grossa di tutti "la Voce" del 1° maggio ’45: «Al momento della cattura Mussolini indossava l'uniforme della milizia e le sue tasche erano gonfie di lingotti d'oro e di sterline inglesi». Notare che questo foglio marxista di Napoli, non essendo ancora propalata l'impostura del cappotto tedesco, afferma che «Mussolini indossava l'uniforme della milizia». Il particolare dei lingotti è un hapax suggerito dalla tradizione di Cola di Rienzo in fuga, carico di preziosi e finito anche lui appeso per i piedi. L'articolista ci deve tuttora una spiegazione: dato il peso specifico dell'oro, come si fa a scappare con le «tasche gonfie di lingotti»? – Imperatore Luigi, “I giorni dell'odio - Italia 1945”, Roma (Ciarrapico) 1975.
Quanto alla pletora di fantasiose versioni giornalistiche sulla fuga del Dittatore attingo alcuni dati dall’opera precitata. Salto a pié pari, per brevità, le storiellerie de "l'Unità" da allora ad oggi da essa stessa contraddette (servizio del 29 aprile 1945 e successivi di Audisio 28 novembre 1945 e 11 dicembre 1945). Il giornale del PCI si stampava allora – per compiacente concessione dei padrini pescecani che finanziavano la resistenza – nella stessa sede del "Corriere della Sera", per cui, a proteggerne la primogenitura, il servizio fu composto in segreto. Altri quotidiani si scapricciarono con notizie, di cui «non si sa se stigmatizzare la gratuità dell'invenzione o la bestiale leggerezza dei giudizi». Così Imperatore nel pubblicarne un campionario: «Mussolini è stato catturato a Pallanza sulla riva occidentale del lago di Como. [...] Al momento del suo arresto, operato come è noto dalla Guardia di Finanza, l'ex duce avrebbe improvvisato un tentativo di negare le proprie generalità; ma il gesto puerile appoggiato dalla esibizione di un passaporto falso, dice la levatura morale e lo smarrimento dell'uomo». ("Risorgimento", 27-28 IV '45). «Mussolini lascia Milano a bordo d'una macchina rossa che si allontana dalla città sparando sulla folla» (notizia de "l’Avanti!" del 28 IV '45, ripresa da "il Giornale").
Uno stralcio dell'analisi storica di Imperatore è stato pubblicato da "l'Ultima Crociata", xlvi/4 (Rimini, aprile 1996), 5-8.

5. Le Memorie dell’agente, Otto Kisnatt del Reichssicherheits Zentralamt, furono pubblicate a puntate da "Epoca" (20 XI-4 XII '55).

6. Secondo i 'testimoni oculari', al momento della cattura, Mussolini era coricato o in piedi, indossava un soprabito nocciola o grigio o di pelle color ruggine, un impermeabile marrone, una mantellina di colore imprecisato, un pastrano tedesco dell'esercito o dell'aviazione, un berretto della GNR, un elmetto della Wehrmacht, o un casco da lavoratore. In ogni versione vi sono particolari differenti, osserva Imperatore (cit., passim) il quale per deduzione sostiene, che Mussolini da Milano fino al momento della cattura ha sempre indossato l'uniforme di caporale d'onore della Milizia, un cappotto di pelle marrone, una bustina con visiera mobile e osserva che l'occasione di fotografare il preteso travestimento di Mussolini «nessuno se lo sarebbe fatto sfuggire»; e che nella macabra scena di Piazzale Loreto sul corpo martoriato gettarono di tutto (gagliardetti, simboli e indumenti fascisti stracciati, insanguinati e infangati) ma a nessuno venne a mente di gettargli addosso un cappotto e un elmetto della Wehrmacht come sarebbe stato logico da parte di chi sapeva del 'travestimento', ghiotto dettaglio da dare in pasto alla folla imbestialita.
Nondimeno un certo ten. Birzer (altro angelo custode del Duce), in un tardivo rapporto steso nel '50 a richiesta dell’infame comandante delle SS, Wolff (viscido badogliardo tedesco in combutta coi partigiani, per cui vedi nota seguente), afferma che Mussolini mise l'elmetto tedesco e lasciò il berretto nell'autoblinda di Pavolini; mentre sta di fatto che Mussolini a Dongo aveva ancora in testa il berretto che non avrebbe potuto recuperare dall'autoblinda frattanto colpita e abbandonata sul ciglio della strada. – Imperatore, cit.

7. Himmler aveva fatto aggregare alla colonna tedesca un contingente di finti genieri al comando di un non meglio identificato Fallmeyer allo scopo di reprimere una possibile reazione dei fascisti all'arresto del Duce. E in effetti il tentativo di opposizione dei fascisti (poco più di una ventina, soverchiati da centinaia di tedeschi) fu subito stroncato, stando alla testimonianza di Kisnatt. Vi fu una sparatoria, Pavolini restò ferito, la sua autoblinda fu colpita e rovesciata sul margine della strada. – Ibidem.

8. Alla consegna si era impegnato il CLN, obbligato alle decisioni degli "Al-leati" che lo finanziavano con ben 160 milioni al mese in lire di allora. – Mario Bordogna: “Junio Valerio Borghese e la X Flottiglia Mas. Dall'8 settembre 1943 al 26 aprile 1945”, Milano (Mursia) 1995, 208-209.

9. De Felice (intervistato di Pasquale Chessa, in “Rosso e nero”, Milano, Baldini & Castoldi, 1995) avanza l'ipotesi, abbastanza logica e credibile, secondo la quale il Duce fu soppresso, in quanto scomodo testimone, da un agente dei servizi segreti britannici che si sarebbe impadronito del compromettente carteggio Mussolini-Churchill. Da Annibale a Ceausescu (il secondo pure assassinato in circostanze non chiarite e diffamato dopo morto) la storia è piena di personaggi scomodi eliminati senza processo.

10. Claretta non si trovava con Benito – il quale da diverso tempo la evitava, non proprio per riguardo alla sua Rachele che non meritava tanta infedeltà, ma per l’aperta supina adesione di lei al nazismo – bensì col fratello a Cadenabbia nella Villa "Buona Ventura" e raggiunse, con lui, la colonna dopo Como. Mussolini venne a saperlo solo dopo la partenza da Menaggio. Dopo essere stata prelevata dall'albergo di Dongo in cui era trattenuta fu portata sul luogo dell'esecuzione e uccisa con il Duce per simulare un tentativo di fuga. Di qui la romantica versione accolta anche dai fascisti: «Volle seguirlo fino in fondo, rimanendo fedele al suo fianco quale gesto supremo di amore. E quando il capo della RSI fu crivellato di colpi essa stessa colpita a morte si abbatté riversa ai suoi piedi». – Imperatore, cit.

11. «Se si collega questo fatto con il famoso lasciapassare firmato dall'agente del FBI Daddario, si incrina decisamente l'opinion testé accennata. – Imperatore, cit.

12. Il 25 aprile '45 Pertini e compagni avevano costituito un "Comitato insurrezionale" comunista a tutti gli effetti e, secondo Italo Pietra comandante partigiano dell'Oltrepò pavese, avevano deciso di fucilare Mussolini senza processo. Tale comitato «non avendo alcun "potere costituito" contro il quale insorgere in armi, indicò come "nemico", primario quanto generico, i "fascisti" che dovevano essere tutti ammazzati senza processo perché..."fuori legge"». – Borghese p. Bordogna, cit., 208-209.
Anche Graziani doveva essere immediatamente fucilato per ordine di Pertini il quale, sul periodico "Rinascita" del PCI (aprile 1955), si rammaricò che fosse sfuggito al plotone d'esecuzione.

13. Sulle ultime ore di Mussolini l'autore de “I giorni dell'odio” dà la seguente versione: «Disceso dal camion fu accompagnato al Municipio di Dongo. Fra le ore 16.30 e le 18.30 Mussolini rimase rinchiuso nel Municipio, da dove fu trasferito nella casermetta della Guardia di Finanza di Germàsino, poiché l'accordo fra tedeschi e clnai prevedeva appunto che fosse la Guardia di Finanza a tenere prigioniero Mussolini. Alle 19 del 27 aprile Mussolini, a cui era stata concessa la compagnia di Porta federale di Como, giunse a Germàsino dove fu accolto dal brig. Giorgio Buffelli con grande ostentazione di cortesia. Gli fu preparata una branda nell'unica cella della piccola caserma: Mussolini rimase in assoluto silenzio prigioniero in questa caserma fino all'una del giorno 28 cioè praticamente per sei ore. All'una, inaspettatamente,"Pedro" e Moretti rilevano Mussolini da Germàsino con l'intenzione di ucciderlo nel giro di pochi minuti: il tempo di ritornare a Dongo, prelevare la Petacci dall'albergo in cui era trattenuta, raggiungere la periferia del paese e massacrare il Duce e Claretta simulando un loro tentativo di fuga».
Il crollo del Comunismo ha indotto i Rossi a un radicale mutamento di posizioni, metodi e mezzi. Gli epigoni del vecchio PCI, che con la grancassa antifascista non poteva andare oltre il consociativismo, possono fare a meno di quella grancassa, unica risorsa che, compiacenti i democristiani, poteva salvarli dall’isolamento. Alle loro favole sono rimasti in pochi a credere e in non molti a far finta di credere; ora, più realisticamente, seguendo un dettame stalinista, puntano sugli "utili idioti"che hanno spalancato loro tutte le porte, fino a conseguire il potere sia pur condiviso con quel che resta della balena bianca.
Voltata pagina, ora danno in pasto ai lettori de "l'Unità"una versione della fine di Mussolini rifatta da cima a fondo: smentendo tutte le precedenti contraddittorie e infamanti, asseriscono che il Duce fu catturato e assassinato da un tale Aldo Lampredi e altri in concorso. Anche le congetture sulla sparizione della famosa borsa di documenti appaiono verosimili e non distanti da quelle degli storici seri. L’articolista, al contrario dei precedenti, tratta Mussolini con rispetto attribuendogli, dopo la cattura, un contegno freddo e dignitoso, anziché vile e bambinesco. – Quotidiano comunista "l'Unità", 25 I '96.


IILA «CONVERSIONE»


Parole sue: «Combatteremo tutto ciò che deprime, mortifica l’individuo. Due religioni si contendono oggi il dominio degli spiriti e del mondo: la nera e la rossa. Da due Vaticani partono, oggi, le encicliche: da quello di Roma e da quello di Mosca. Noi siamo gli eretici di queste due religioni. […] Il mondo d’oggi ha strane analogie con quello di Giuliano l’Apostata. Il “Galileo dalle rosse chiome” vincerà ancora una volta? O vincerà il Galileo mongolo del Cremlino? Riuscirà ad attuarsi il “capovolgimento” di tutti i valori, così come avvenne nel crepuscolo di Roma? Gli interrogativi pesano sullo spirito inquieto dei contemporanei; ma intanto “navigare necesse”. Anche contro corrente. Anche contro il gregge. Anche se il naufragio attende i portatori solitari e orgogliosi della nostra eresia».
Così la pensava il futuro Duce, tre anni prima del suo avvento al potere, sui due massimi flagelli dell’umanità 1. Il suo giudizio negativo sul Cristianesimo è secco e senza appello, non lascia adito a ripensamenti. La distinzione fra credenti e creduloni è netta: una volta convinti che una determinata Fede è maliziosa costruzione umana e corrotta, non si torna indietro 2.
Men che meno sarebbe tornato indietro nella sua convinzione un uomo tutt’altro che ondivago quale fu Mussolini; eppure, gli si attribuisce con insistenza una «progressiva e reale conversione religiosa». Il testuale è del citato Innocenti, autorevole esponente della pubblicistica cattolica 3, che ri-costruisce il percorso del ‘ravvedimento’, un percorso sbalorditivo che va da un estremo all’altro: dall’ateismo blasfemo del tribuno socialista – che tale restò nei fatti anche dopo il ripudio del partito degenerato – all’effusiva lettera inviata alla vigilia dello scempio di Piazzale Loreto alla sua Rachele cui giurava affetto «davanti a Dio», dal prendere «a calci ridendo il Rabbi vile dalle chiome rosse e i suoi rabbini più vili dalle sottane nere» al toccante e teologicamente ineccepibile giudizio su Cristo riprodotto a cura di P. Eusebio sui santini datati “Natale 1944” 3.
La ricostruzione è ricca di particolari e testimonianze attinte in prevalenza dall’ambiente cattolico.
Il tutto, in specie il santino dal tono di omelia e stilisticamente lontano dalla incisiva prosa mussoliniana, sa di mistificazione pretesca.
Fa venire a mente la conversione di Machiavelli prima di morire, attestata da un autografo risultato poi artefatto da certi frati.
Son propenso a condividere, e mi rincresce, l’aspro scetticismo d’un prete scostante e bilioso, antifascista e «tutto miele verso i massoni». 4, il quale – pur senza contestare l’apertura del Duce al Cristianesimo per opportunità politica, in quanto chi governa in Italia deve scendere a patti col Vaticano e pagarlo salato per esercitare la sua autorità – afferma perentorio che il Dittatore «non si lasciò mai penetrare dalla fede cristiana» e che «in sede di bilancio conclusivo bisogna arguire dai documenti addotti che Mussolini non trovò la fede in Cristo» 5.
«Unicuique suum»: per quanto inaccettabile sia la tesi del prete in discorso, bisogna riconoscergli una obiettività storica che contrasta con il voltafaccia antifascista del Vaticano e della predace propaggine laica di esso infiltrata nel potere politico. Vale la pena di riferire alcuni severi giudizi sull’antifascismo opportunistico, specialmente di parte cattolica:
«Finita la guerra il fascismo fu demonizzato e la figura (come la salma) del capo che l’impersonava fu avvilita oltre l’obbrobrio di Piazzale Loreto e perfino la di lui prole sopravvissuta fu spinta nel marcio dell’umiliazione».
[…] «L’intera classe intellettuale italiana che aveva aderito al fascismo (sui 1200 professori universitari sollecitati, soltanto dodici avevano rifiutato l’adesione) accettò la demonizzazione.
Non meno stranamente i cattolici italiani, che si erano tanto impegnati per cattolicizzare il fascismo (anche ai vertici dell’Azione Cattolica, naturalmente, checché ora meschinamente si dica) subirono l’imposta demonizzazione a beneficio di coloro che, lungimiranti, esigevano a loro vantaggio, l’unità antifascista. Ma – sebbene tardivamente – la verità storica sta riemergendo non solo riguardo all’econo mia e alle leggi sociali del ventennio mussoliniano, non solo riguardo all’opera svolta dall’Italia in Africa e per la salvezza della Spagna, non solo per la missione diplomatica di pace fin quasi alla vigilia della guerra, ma anche riguardo al profilo politico e personale di Mussolini.
Sotto questo punto di vista, non piccoli meriti ha acquisito davanti all’opinione pubblica – quali che siano i suoi segreti intenti – uno storico laicista di razza ebraica, antifascista di militanza socialista: Renzo De Felice.
Nulla, però, i cattolici italiani hanno imparato da tale esempio e pertanto continuano a disinteressarsi dell’avvenuta demonizzazione» […].
«Non intendo“assolvere” politicamente Mussolini, ma constato che è difficilissimo – da un punto di vista morale – condannare una coscienza che deve prendere decisioni comunque discutibili in situazioni così“singolari”. Se s’è avuto comprensione per i democristiani che, in una situazione giudicata di“necessità”, hanno firmato la legge dell’assassinio di massa, forse è equo rimettere a Dio anche il giudizio sulla coscienza di Mussolini che nel settembre 1943 depose l’idea e del suicidio e del“ritiro”, mettendosi “obtorto collo” per una via non di vantaggi ma d’ulteriore probabile sconfitta». 6

1. Il testuale che precede è dall’articolo“Navigare necesse”, ne «il Popolo d’Italia» del 1° gennaio 1920. «Navigare – nota Ennio Innocenti nella sua Disputa sulla conversione di B. Mussolini, Roma (edizione dell’autore) 1943, 17 – significa chiaramente battagliare. Premesso che navigare stava diventando un dovere ineludibile, B. M. azzardava: “non la croce vorremmo vedere sullo stemma nazionale, ma un’ancora o una vela”».

2. Così è per tutti, per i grandi come per i piccoli uomini. Ho una esperienza personale: contraddizione e scandalo d’una Chiesa che nella nostra Storia si manifesta aperta ad ogni compromesso con il Male e ad ogni scellerato patto con gli empi, incoerente in tutto eccetto nel costante rapporto con il Danaro, tutto questo mi sospinse fuori della professione re-ligiosa in cui ero cresciuto. Mi restò un'unica certezza: il dio noto non esiste e il Dio esistente non è noto, ma celato nella Creazione, unico manifesto Miracolo. Soltanto in questo convincimento mi trovai dinanzi al Vero, concreto e imperscrutabile.

3. Su padre Eusebio (al secolo Sigfrido Zappaterreni *Monte Celio di Guidonia,*1913) e sul santino natalizio distribuito ai reparti in armi della RSI: Angelo Scarpellini, “La RSI nelle lettere dei suoi caduti”, Roma 1963, 62 sgg.

4. Op. cit., pg. 18. – Il prete in discorso è Ennio Innocenti che insegna dottrina sociale della Chiesa al Centro di Teologia per Laici del Vicariato di Roma.

5. Innocenti, cit., pg. 51.

6. Op. cit., pgg. 49 e 43.




VERITAS FILIA TEMPORIS, NON AVCTORITATIS
La verità è generata dal tempo non da chi comanda.

F. Bacone.



IIILA «VALIGIA»

Mussolini: «l’uomo che ha pacificato il Paese restituendogli dignità e ruolo di grande potenza mentre tutti tramavano per condurlo verso il bolscevismo o verso il capitalismo massonico e clericale, il capo del Governo, ossequioso delle leggi e dello Statuto che riconosce nel re il capo dello Stato, che lo informa e ne riceve il consenso, che è rispettoso delle istituzioni e della religione, di quello stesso re e di quelle stesse istituzioni che invece lo tradiranno, lo metteranno in galera, faranno trattative segrete con i nemici della patria…». Fin qui ce n’è abbastanza da spellare vivo l’apologeta, in ossequio alla morale democratica per la quale stendere morto un fascista non è reato. Andiamoci piano, ché l’incauto, subito dopo, tampona l’incandescente concetto con una sgargiante pezza conformistica: «Mussolini, il capo della Repubblica Sociale Italiana, ultimo baluardo contro il comunismo a difesa dei grandi valori nazionali, ora fugge verso la Svizzera, solo, con un fascio di do-cumenti sotto il braccio».
Il testuale chiude uno studio di Gaetano Contini 1 che in prosa agile e seducente cerca di interpretare il giallo della valigia che Mussolini aveva con se al momento dell’arresto; ma l’acredine antifascista e il sudicio dazio pagato alla fable convenue screditano lo studio che sarebbe stato preziosa fonte in argomento. Già il sottotitolo – i documenti segreti sull'ultima (?!?) fuga del duce – e il brano sopra riferito che chiude la ricostruzione obliterano la verità che emerge dalle carte d’archivio. Per quanto parziale e strumentalizzata la documentazione, avulsa dal contesto, è tale che l’antifascismo ne esce svergognato e malconcio, privo di valori e insipiente, codardo e criminale allo stato puro.
Nondimeno il sopravvento della favola ci riporta al capolinea col riproporre la fandonia del Dittatore fuggiasco, sotto il cappottaccio della Wehrmacht, occhiali neri, inseparabile valigetta a fianco, e altre bufale alle quali non crede più nessuno. Si può essere antifascisti e, al tempo stesso, storiografi equilibrati. De Felice pare averlo dimostrato, Contini no ed è imperdonabile.
Imperdonabile, sì, per inosservanza della norma deontologica impostagli dall’incarico di Sovrintendente nell’Archivio Centrale dello Stato. Mi è lecito affermarlo con il briciolo d’autorità che mi deriva dall’essere stato reggente e poi direttore dell’Archivio di Stato di Bolzano dal 1951 al 1970. Non vanto meriti, ma posso dichiarare che nei lavori strettamente archivistici ho tenuto a bada per quanto possibile la bestia nera della passionalità. 2
Di passata accenno qui, inserendo un ricordo giovanile, che nell’immediato dopoguerra l’Archivio Centrale dello Stato era precariamente ospitato nell’ala sud-est del vecchio palazzaccio di San Michele, sul Lungotevere dirimpetto all’Aventino, condiviso con il carcere minorile. Il personale addettovi consisteva in due sole unità: io – tornato di recente alquanto ammaccato dalla guerra alla vita civile nell’infimo grado di aiutante aggiunto, e un attempato custode in attesa di collocamento a riposo, in compagnia di due gattoni forastici e di un imprecisato numero di roditori. Un alto funzionario ministeriale venuto ad ispezionare la sede nel ’47 sospirò desolato: «Eccolo qua l’istituto archivistico più importante d’Italia: chiuso in una sordida topaia alla mercé di uno studentello fuori corso e di un inserviente che casca a pezzi».
Alcuni anni dopo l’Archivio Centrale fu condecentemente sistemato nell’attuale prestigiosa sede, uno dei più imponenti e razionali edifici della fascistica E 42, e dotato di personale numeroso e specializzato. Trasferito all’Archivio di Stato di Bolzano non ebbi modo di visitarlo, ma immaginavo che fosse diretto da una cima. Senonché, aperta la Valigia del sovrintendente Contini, alla prima scorsa sono stato io ad esclamare a mia volta: «Ecco qua, in che mani è andato a finire l’istituto archivistico più importante d’Italia!».

1. G. Contini, “La valigia di Mussolini”, Milano (Mondadori) 1982, pg. 176.

2. Presumo che la mia viscerale antipatia per il Bonaparte, di cui del resto riconosco il genio militare e l’abilità politica, e ancor più la istintiva repulsione per l’oste guerrigliero di Passiria, Andreas Hofer, non abbiano inquinato il mio sudato studio su “I documenti hoferiani” della Collezione Steiner, documenti che d’altronde, per quanto riguarda l’epopea partigiana degl’insorti antibavaresi del 1809, l’affogano nel ridicolo senza pretestuosi appiccagnoli e orchestrazioni ideologiche.
Le scritture hoferiane trattate (un’ottantina, più una miscellanea di 18 autografi e varia sulla rivolta del 1809) sono pubblicate in regesto e in parte integralmente in “Archivio per l’Alto Adige”, a. LIV (1960) e in appendice ad “Andreas Hofer, un eroe tradito”, di A. Ragazzoni, Bolzano (CSA) 1984, pgg. 41 sgg.



IL CALCIO DELL'ASINO

«L’Uomo per il quale tanti vorrebbero volentieri morire, [...] l’Uomo che aveva formato il pensiero di un’epoca nuova», [...] solo che attraversasse un viottolo, quel viottolo «aveva ormai una storia: vi era passato il Duce». Quando appariva in pubblico «gli Italiani avrebbero ricordato tutta la vita quei minuti, tramandando di generazione in generazione la memoria che si sarebbe velata a poco a poco della mistica luce dei miti, poiché di queste cose si facevano un tempo le leggende e le grandi canzoni».
Queste ruffianaggini, evidenziate nel testo, e molte altre furono pubblicate durante il Ventennio fascista da Luigi Barzini iunior, lo stesso che dopo lo scempio di Piazzale Loreto, vilipese la memoria di Mussolini vestendolo da pagliaccio che nel circo agita le braccia e le gambe «come fa un lottatore perché i vestiti gli si adattino meglio» , [...] cercando di «celare la sua irresolutezza e la paura dietro la maschera del condottiero pronto a tutto».



Ferruccio Bravi

sabato 23 aprile 2016

LO STATO NEL RISORGIMENTO - Maria Cipriano

Quando sente parlare di Stato, la prima cosa che salta in mente all'italiano odierno sono le tasse. Infatti, per la stragrande maggioranza dei cittadini, Stato è sinonimo d'imposte e poco più. La fiducia degli italiani nelle istituzioni governative, nonostante ciò che dicono giornali e televisione, è ridotta ai minimi storici. Ci ritroviamo in una situazione che paradossalmente non è tanto distante da quella che l'Italia visse nei secoli prima della sua agognata riunificazione. Eppure non è sempre stato così. Torna a ricordarcelo, con il suo stile lucido e tagliente, la nostra Maria Cipriano. Dalla sua nascita, fino alla conclusione della seconda guerra mondiale, tra alti e bassi, l'Italia ha cercato di tracciare il suo destino di nazione sovrana lungo i sentieri della storia. E lo ha fatto di contro ad un'Europa che l'ha sempre guardata con sospetto, osteggiandola e denigrandola. E' bene ricordarlo una volta di più, questa piccola penisola, questo lembo di terra incastonato nel cuore del mediterraneo, nonostante tutti gli ostacoli, in pochissimi anni è stata capace di balzi in avanti sbalorditivi, fino ad assurgere a vera e propria potenza su scala mondiale. E questo fu possibile soltanto grazie ad uno Stato degno di definirsi tale, unito e coeso, che promosse ed indirizzò il Genio Italico in maniera congrua e costante. Un processo che a piccole tappe stava costruendo la nostra via di grandezza e civiltà. Percorso - ahimè - bruscamente interrotto da una guerra che ci ha spezzati e divisi, consegnandoci nelle mani di potenze che fanno il loro gioco, difficilmente in linea coi nostri interessi (basti pensare, in merito, cosa è successo quelle poche volte che nel dopo guerra abbiamo provato ad alzare la testa). Lo scritto della Cipriano c'invita allora a riflettere e a considerare che anche in questi tempi bui è pur sempre possibile scorgere la luce della riscossa. Possiamo e dobbiamo meritarci uno Stato migliore, ma dovremmo esser noi a volerlo davvero.


Sandro Righini


LO STATO NEL RISORGIMENTO


L'aula del primo parlamento del Regno d'Italia a Palazzo Carignano a Torino.



Che l’unità, la compattezza, la solidità e la forza di uno Stato influiscano sulla nazione, sulla sua autostima, sulla sua maggiore o minore capacità di farsi largo nel mondo, di reagire ai soprusi, alle invadenze e alle soperchierie altrui, e siano determinanti per favorire lo sviluppo non solo economico ma anche morale, civile e culturale della nazione, penso non ci sarebbe bisogno di dimostrarlo se, oggi, non fossero tornate in auge spinte centrifughe secessioniste, indipendentiste, comunque disgregatrici, manovrate dall’esterno e puntualmente eseguite all'interno, le quali, per quanto possano attirare gli scontenti, gli arrabbiati e i delusi, rappresentano una pericolosa strada senza uscita per l’Italia, che la porterebbe a divenire un frammento disperso della Storia. E’ piuttosto la strada esattamente contraria che bisogna battere, giacchè è precisamente la debolezza dello Stato e la sua latitanza ai doveri fondamentali a creare tutti i problemi che ci angustiano.
Per secoli l’Italia, principalmente per colpa del Papato che si era inventato la “donazione di Costantino” come base territoriale del suo dispotico potere, fu una nazione senza uno Stato unico, divisa e dunque debole, esposta alle continue mire e invasioni straniere, che, per quante sanguinose rivolte, guerre e insurrezioni si opponessero, non furono scongiurate fino a quando non si concepì l’assoluta urgenza di uno Stato unico, di un Esercito unico, di identiche leggi e di un Governo centrale, come ben fu messo in luce da Mazzini, e, prima di lui, dall'intellettuale piacentino Melchiorre Gioia (poi arrestato dagli austriaci assieme a Pellico e Maroncelli), il quale già nel 1796 scriveva: “tutto ci invita a unirci con la massima possibile strettezza nel seno di una repubblica indivisibile.” Proprio in quel periodo, favoriti dalla rivoluzione francese che tentava di espandersi in Europa e che nel 1796, con la prima discesa di Napoleone in Italia (allora era un semplice generale del Direttorio), portò alla nascita di piccole repubbliche giacobine -la più importante delle quali fu la repubblica partenopea-, poterono balzare fuori allo scoperto tutte le idee ferocemente represse sull'unità e indipendenza della penisola a lungo covate, che l'importante occasione storica della rivoluzione francese permetteva per la prima volta di esternare liberamente in pubblico. Nacque così ufficialmente la grande corrente unitaria italiana, che in Milano e Napoli ebbe i sui centri maggiori, rappresentata dai più svariati esponenti nel campo letterario, scientifico e intellettuale, dal Foscolo al Manzoni, dall'Alfieri al Monti, preceduta dall'unione degli scienziati italiani già costituitisi in associazione ancor prima della rivoluzione francese, per iniziativa dell'ingegnere della Serenissima Antonio Maria Lorgna. Tra i tanti scampati alla spietata repressione attuata nel Regno di Napoli, vi fu l'illustre studioso Matteo Angelo Galdi, fondatore del “Giornale dei patrioti d'Italia” che uscì con ben 143 numeri nel 1797 a Milano, e autore del libro “Sulla necessità di stabilire una repubblica in Italia”.
Ma fu soprattutto Francesco Lomonaco, l'intellettuale lucano nato a Montalbano Jonico in provincia di Matera nel 1772, anche lui sfuggito per miracolo alla cruenta repressione appoggiata dagli Inglesi di Ferdinando I e di Maria Carolina, uno dei maggiori precursori del Risorgimento Italiano, oltrechè genio precocissimo in svariate discipline: il più famoso dei tre Francesco Lomonaco lucani, nativi tutti e tre di Montalbano e appartenenti allo stesso casato, che, con uno scarto di pochi anni, presero parte in vesti diverse al Risorgimento nazionale. Uno dei tre morì in prigione a Potenza nel 1823 come carbonaro. Un altro fu sindaco di Montalbano Jonico con il Regno d'Italia.
Il Francesco Lo Monaco intellettuale, filosofo e politico, morto suicida nel 1810 perchè perseguitato dalle autorità francesi napoleoniche a causa delle sue idee d'indipendenza dell'Italia da ogni straniero, è considerato con ragione uno dei più illustri antesignani del nostro Risorgimento, in quanto affermò che la nazione senza uno Stato indipendente, anche se coesa su basi geografiche, etniche, storiche, linguistiche e spirituali, corre gravi rischi di sopravvivenza ed è perennemente in pericolo. Peggio: è destinata a inevitabili divisioni localistiche, apportatrici di rivalità, diffidenze e chiusure reciproche com'era appunto l'Italia del suo tempo, da lui deprecata. E proprio a una nuova Italia rinnovata nell'unità, il grande pensatore lucano rivolse costantemente i suoi pensieri, i suoi auspici, le sue più ardenti speranze.
Nella giungla della Storia, perciò, lo Stato è lo scudo necessario, è la casa condivisa presso cui trovare tutela, sicurezza, leggi comuni e omogeneità d’intenti. La prova eclatante di ciò l’abbiamo sotto gli occhi oggi, dove, con l’esautorazione dello Stato che è garante supremo della sovranità, dell’unità e dell’indipendenza della nazione, e l’abbattersi delle sue alte prerogative, l’Italia è diventata una barca allo sbando il cui timone viene mantenuto solo per garantire certi introiti finanziari, ridotta a una pedina in mani altrui, la cui mente dirigente non è più a Roma. Il che ha pesanti ripercussioni in tutti i campi, non solo in quello politico ed economico, ma in quello morale, culturale, psicologico, scientifico e militare.
Se i nostri antenati che hanno fatto il Risorgimento vedessero come, grazie alle forze anti-Risorgimentali rientrate in pista trionfanti dopo la sconfitta bellica del ‘45, l’Italia sia finita sull’orlo di una situazione pre-unitaria, costretta a ubbidire a un padrone straniero e chinare il capo al primo rimbrotto d’oltreconfine, fremerebbero di rabbia e di livore e farebbero un secondo Risorgimento. Né la globalizzazione può giustificare tutto questo, dal momento che le nazioni che si mantengono protette da un vero Stato, cercano di sfruttare il mercato globale solo per i vantaggi che può comportare, e sono in grado di far sentire normalmente la propria voce nei casi di vertenze reciproche, in cui invece lo Stato italiano, come insegna la vicenda dei due marò non ancora conclusa dopo quattro anni, ha dimostrato di non avere nessuna voce in capitolo.
Proprio l'attuale opera di sistematico infangamento del Risorgimento, portata pervicacemente avanti da gruppi i più disparati ed eterogenei, ma tutti compatti nella denigrazione di quel grandioso avvenimento, non è chi non veda si associ pienamente a questa congiura contro l'Italia unita che è anche congiura contro lo Stato, inteso come forza superiore, come scudo incoercibile della nazione. Non a caso, molte delle pretestuose polemiche e recriminazioni lanciate avverso il Regno d'Italia nato dal Risorgimento si appuntano sulla centralizzazione piemontese e il mancato decentramento amministrativo che avrebbero condannato le regioni, in particolare quelle meridionali, a un'unione forzata, nell'assorbimento di leggi estranee ed inique, e nella rinuncia a benevole e benefiche consuetudini, usi e normative precedenti che il Regno d'Italia avrebbe brutalmente abolito. Considerato che la coscrizione obbligatoria (da cui per ovvi motivi erano esclusi i siciliani in quanto l'avrebbero usata per immediatamente ribellarsi ai Borboni) e la tassa sul macinato preesistevano all'arrivo degli “invasori piemontesi”, i protestanti anti-risorgimentali non hanno ancora redatto un elenco serio e convincente né delle famigerate leggi “piemontesi” fatte ingoiare a forza ai meridionali (e a tutti gli altri Italiani), né delle tanto declamate leggi, usi e consuetudini pre-unitarie che Torino avrebbe cassato con un colpo di spugna onde soggiogare tutta l'Italia sotto il suo protervo tallone, consuetudini fra le quali vi era quella, assai comune nel mezzogiorno, della monacazione forzata, del baciamani, e della fustigazione del contadino disobbediente, poi scomparse -guarda caso- con il Regno d'Italia e ancor prima con Garibaldi.
Il deputato Giuseppe Ferrari, che nel Parlamento del nuovo Regno sedeva tra i banchi della Sinistra, dunque in un'ala piuttosto critica verso il Governo, narrò in aula con raccapriccio di aver veduto per strada a Napoli (ovviamente prima della riunificazione) un vetturino frustato con veemenza in volto da un nobile, e che, pur col viso tutto insanguinato, non osava assolutamente reagire. Riguardo al Codice Penale piemontese, per esempio, esso non fu esteso alla Toscana che si tenne il proprio, né fu esteso “tout-court” neanche all'ex Regno delle Due Sicilie, anzi venne integrato da alcune disposizioni di questo laddove esse erano più innovative giacchè di derivazione napoleonica-murattiana, senza contare che il Codice Penale piemontese del 1859 aveva già abolito i reati contro la religione, ancora operanti invece nella legislazione meridionale. Entrambe, poi, contemplavano ancora il suicidio come reato: un'aberrazione inconcepibile, finalmente abolita dal Regno d'Italia con il nuovo Codice Penale Zanardelli, promulgato nel 1889, ma già, di fatto, caduta in disuso nel Regno di Sardegna.
Fu dunque davvero il Regno d'Italia la “piovra piemontese” che di tutto si appropriò e tutto “piemontesizzò”, oppure esso fu la provvida risultante dei contributi di tutti gli Italiani che fin dall'inizio, addirittura prima ancora che il Regno d'Italia fosse proclamato, già sedevano sui banchi del Parlamento di Torino? Non era forse Torino la città che li aveva generosamente accolti, quando, braccati, condannati, inseguiti, là avevano trovato un tetto, un lavoro e i salotti e le case che si aprivano?
Eppure oggi si parla di questa “piemontesizzazione” come fosse un'infamia, senza pensare che fu grazie ad essa che il neonato Regno approvò da subito spese ingentissime soprattutto per il mezzogiorno, senza avere nemmeno la copertura finanziaria. Tra un accesso di febbre e l'altra, negli ultimi giorni della sua vita, il conte di Cavour si preoccupava delle cose urgenti da fare, in particolare del prestito di 500 milioni che aveva richiesto, e di altre mille incombenze alle quali, nella dura lotta contro il male che l'avrebbe portato da lì a poco alla tomba, insisteva a interessarsi, gridando a chi lo implorava di desistere: “Ho l'Italia sulle braccia!”.
I detrattori odierni, che non presentano nulla di nuovo rispetto ai detrattori che li hanno preceduti ma ripetono ossessivamente le loro invettive, non hanno mai spiegato, fra gli innumerevoli indici economici dell'indubbia crescita e progresso del Regno d'Italia che si possono citare, come mai aumentarono i consumi, diminuì la mortalità, decrebbe l'analfabetismo, aumentò la statura fisica degli italiani, ci fu un'impennata demografica del 30%, crollò la mortalità da vaiolo dopo l'introduzione della vaccinazione obbligatoria nel 1888, vaccinazione che negli Stati pre-unitari era fluttuata tra mille incerti (il Papa l'aveva esplicitamente condannata come cosa del demonio assieme all'illuminazione a gas e al telegrafo) e che solo lo Stato unitario impose a tutta la penisola con la sua autorità. Dati che possono sembrare marginali e invece sono significativi, comprovano un eccezionale sviluppo in pochi anni: l'ammontare dei vaglia telegrafici, per esempio, quale mezzo rapido e sicuro di trasferimento dei valori, aumentò vertiginosamente: da 44 milioni nel 1861, a 68 milioni nel '62, a 139 milioni nel '63, a 160 milioni nel '64. Anche la rete telegrafica, strumento indispensabile della nuova epoca, fu estesa in pochi anni a tutto il territorio nazionale. Così gli uffici dell'Anagrafe, base certa dello stato civile e simbolo dell'era moderna, in breve volgere di anni furono posti in tutti i Comuni. Quattro compagnie marittime nazionali sussidiate dallo Stato, di cui una meridionale, già nel 1866 coprivano ben 24 linee marittime di collegamento fra i vari porti continentali e insulari, arrivando fino in Grecia e in Egitto. E si potrebbe andare avanti di questo passo per molto ancora.
Analogamente le leggi per la tutela del lavoro minorile, una piaga sociale endemica diffusa ovunque (lo è tuttora), ma particolarmente virulenta nell'ex “paradiso” borbonico ove gli inglesi godevano di enclavi privilegiate, e dove donne e bambini di ogni età venivano sfruttati senza scrupoli dall'alba al tramonto in opifici malsani e insicuri (proprio quelli che l'anti-Risorgimento decanta) e nelle famose zolfare siciliane (nelle quali venivano impiegati anche bambini di 4 anni), trovarono una graduale applicazione e portarono a una lenta progressiva remissione di quella disastrosa piaga con le numerose leggi varate dal Regno d'Italia a partire dal 1869, leggi che furono osteggiate in particolare proprio al Sud ov'era assai difficile per le autorità statali convincere i genitori a mandare i figli negli asili e a scuola, e che ciò nonostante indussero pian piano un irreversibile cambiamento (poi ulteriormente progredito col Fascismo), corredate da altre leggi quali l'istruzione elementare obbligatoria e gratuita, l'assicurazione contro gli infortuni sul lavoro, l'abolizione del maggiorasco (cioè della trasmissione al primogenito dell'intero patrimonio, che cominciò a colpire il latifondo), l'abolizione dei lavori forzati nel 1889 (si tenga presente che negli Stati uniti i lavori forzati erano in piena applicazione ancora negli anni trenta del XX° secolo), l'abolizione della pena di morte nel 1889 (ma di fatto non era stata più applicata fin dal 1877), la nascita nel 1885 della S.A.I., società degli agricoltori italiani, ai quali si attribuiva per la prima volta un ruolo soggettivo nel piano generale nazionale di modernizzazione dell'agricoltura, molto arretrata in tutti gli stati pre-unitari, dove era normale per un contadino andare scalzo: leggi alle quali, in un paese pieno di così gravi problematiche, sarebbe maggiormente giovata una dittatura illuminata come quella auspicata da Garibaldi o una democrazia popolare come quella auspicata da Mazzini per risolvere i problemi in modo più efficace, rapido e radicale, ma che pure ottenne indubbi e sorprendenti progressi, altrimenti inattuabili in un contesto europeo che esigeva l'omologazione dell'Italia ai suoi parametri.
La legge per il risanamento della città di Napoli, immersa in disastrose condizioni igienico-sanitarie -la cosiddetta legge “Napoli”del 1885- che prevedeva ampi lavori di bonifica, ristrutturazione e abbellimento per un costo che partiva da un fondo di 100 milioni di lire e per la prima volta fece ricorso all'esproprio per pubblica utilità, non si rese più procrastinabile di fronte all'ennesima epidemia di colera che tornò a colpire la città nel 1884, in un contesto sovraffollato, cresciuto disordinatamente, dove i malanni si erano sedimentati l'uno sull'altro nei secoli, dove al tempo della riunificazione stazionavano dai 25.000 ai 40.000 mendicanti -detti “lazzari”- senza dimora, abituati ad arrangiarsi a vivere d'espedienti, e dove la camorra, nata durante il malgoverno del vicereame spagnolo durato oltre due secoli, si era comodamente insediata, più o meno tollerata dai Borboni e dalla popolazione che non ci faceva quasi caso, come fosse una manifestazione folckloristica della città. Il Regno d'Italia, pur con molta fatica, riuscì a far entrare pian piano il principio di legalità, il rispetto delle leggi e dell'autorità e i primi concetti di educazione civica e di civile convivenza, come dimostra il maxiprocesso di Viterbo (il cosiddetto processo Cuocolo) contro la camorra, che fece epoca e rappresentò uno vero e proprio spartiacque, con l'adozione di un'energica squadra di Carabinieri creata apposta, e si concluse nel 1912 praticamente con la decimazione di quella consorteria criminale che viveva di estorsioni, la quale, dopo aver subito un altro definitivo colpo durante il Ventennio, ritornò in auge dopo la seconda guerra mondiale, in particolare dal 1970 in poi, e adesso, con la definitiva abdicazione dello Stato divenuto europeista e immigrazionista, sembra sia entrata addirittura nel PIL.
Ma un ulteriore grave ostacolo veniva a intralciare, fra i tanti, il novello Regno d'Italia: l'isolamento internazionale. Una volta placati gli entusiasmi popolari dell'opinione pubblica straniera che aveva spontaneamente sostenuto il Risorgimento italiano con generose collette e donazioni in danaro e in natura, l'Italia si trovava circondata dalla gelosia della Francia, dalla guardinga vigilanza dell'Inghilterra appollaiata sull'arcipelago di Malta che era sempre appartenuto all'Italia e dove i disordini e le proteste dei maltesi che si sentivano italiani venivano soffocati con la forza e la lingua inglese imposta per legge, dall'ansia di vendetta dell'Austria, dal sussiego della Russia, dall'ambiguità tedesca, nonchè dal più duro ostracismo del Papa e della Chiesa che faceva di tutto per ostacolare le riforme della pubblica istruzione e qualsiasi altro passo in direzione della laicizzazione e modernizzazione dello società, intromettendosi continuamente nelle opere e intenzioni del legislatore e del Governo, usando del ricatto della religione, e premendo perfino sulla figlia di Vittorio Emanuele II, la principessa Maria Clotilde, notoriamente religiosissima. Non si contano le infami lettere anonime che S.M. Il Re ricevette nel corso del Risorgimento e dopo, in cui gli si minacciava l'inferno e la dannazione eterna (a lui e a tutti i ministri), il crollo della dinastia, l'ira divina, e ogni sorta di disgrazia. Poco dopo la morte di Cavour, il giorno 28 giugno 1861, il giornale “Civiltà cattolica” usciva con questo infelice commento: “Se vi è morte che porti seco chiarissimamente l'impronta di un verdetto celeste, questa è la morte del Conte di Cavour.”. Ma, paradossalmente, proprio a smentire tale asserzione, il celebre e rigoroso fondatore della rivista gesuita “Civiltà cattolica”, il napoletano Carlo Maria Curci, sempre pervicacemente schierato con la sua rivista contro il Risorgimento per la difesa del Trono e dell'Altare, nel giro di pochi anni si convertì radicalmente alle idee nuove, all'Unità d'Italia che tanto aveva osteggiato e all'abolizione del potere temporale dei papi che tanto aveva difeso, abbandonando la rivista, uscendo dall'Ordine e scrivendo in sostegno delle nuove idee libri come “Il Vaticano regio, tarlo superstite della Chiesa cattolica”, propugnando una conciliazione tra modernismo e fede per un rinnovamento del cristianesimo e della società. Perciò fu sospeso a divinis, vessato, emarginato, costretto in parte a ritrattare prima di morire, il che era ciò che solitamente accadeva ai religiosi onesti che vivevano il travaglio dell'amor di Patria.
L'abolizione del “foro ecclesiastico” (attuata dal Regno di Sardegna già prima dell'unificazione), che intendeva sancire il ruolo preminente dello Stato nel campo dell'amministrazione della giustizia da ritenersi uguale per tutti i cittadini, rappresentò uno dei più agguerriti motivi di scontro con la Chiesa, la quale pretendeva per i religiosi il mantenimento di una giurisdizione speciale separata (il “foro ecclesiastico”, appunto) non in materia di disciplina interna o religiosa, bensì in materia civile e penale, il che per lo Stato risorgimentale era inammissibile, essendo coloro che vestivano l'abito religioso da considerarsi cittadini come gli altri. Ebbene questi principi moderni, che dai detrattori del Risorgimento fin d'allora vennero superficialmente ascritti a un'immaginaria Massoneria internazionale atea e malefica che agiva dietro le quinte per abbattere il cristianesimo, costituivano invece la spontanea, improcrastinabile manifestazione di un popolo oppresso che si scrollava di dosso secoli e secoli di soffocante invadenza religiosa, imposizioni, ubbìe, analfabetismo e miseria. Era precisamente lo Stato che per la prima volta dopo tanti secoli faceva sentire la sua presenza a spaventare la Chiesa, perchè le sottraeva gli spazi vitali sui quali da sempre aveva padroneggiato. E questo Stato, a parte un'esigua fronda di federalisti che non ebbe mai peso, fu concepito dal Risorgimento, pur con diverse sfumature, all'incontrario di come lo si concepisce oggi, dove, a fronte di un potere centrale debole, lassista e lontano dai problemi reali del paese, pullula una pletora di enti locali costosi, rissosi e spesso finanziariamente in rosso, focolai di clientele e favoritismi, microcosmi di partiti e corruttele, che spesso non riescono a risolvere i problemi più elementari dei propri luoghi di riferimento. La mancata ricostruzione della città dell'Aquila, che ancora langue nel suo abbandono a sette anni dal terremoto che fece poco più di 300 vittime (un piccolo terremoto a confronto di quelli che ci presentano le cronache storiche italiane), quando la città di Ragusa in Dalmazia fu ricostruita in breve tempo nel XVI° secolo, ne è la dimostrazione più lampante. Il terremoto di Messina e Reggio Calabria che il Regno d'Italia si trovò a fronteggiare nel 1908 con ben diversi mezzi degli attuali, fu un cataclisma di proporzioni bibliche che fece 120.000 vittime. Non è dunque contro il Risorgimento e il Regno d'Italia che vanno dirette le lamentele di chi non ha trovato di meglio da fare che intentare processi a Garibaldi, a Cavour e a Nino Bixio, quanto contro i propri amministratori locali e contro uno Stato che con il Risorgimento ha poco a che vedere, in quanto è nato da una grave sconfitta militare che ha condizionato il futuro dell'Italia, da una resa incondizionata peggiore della sconfitta, da una frattura fra italiani non ancora sanata nel corpo della nazione, nonché da una presa del potere repentina da parte delle due forze da sempre nemiche del Risorgimento, le quali hanno innescato nel corpo della nazione un persistente anti-patriottismo di cui stiamo pagando tuttora le nefaste conseguenze.
Ebbene Cavour, che molte cose avrebbe da insegnare ai nostri governanti (si alzava alle quattro di mattina per lavorare), concepiva lo Stato come un corpo con un'unica testa decisionale, che si faceva carico di tutti i problemi della nazione, dal centro alla periferia, e che della nazione aveva una visione non già localistica e municipale, frammentaria e frammentata, ma una visione d'insieme, veramente nazionale, che fu precisamente quella che fece uscire l'Italia dal suo provincialismo e dalla sua emarginazione, garantendole un posto di rispetto nel consesso delle altre nazioni, un ruolo internazionale e l'ascesa economica e militare.
Ma in un Paese rimasto forzatamente diviso per tanti secoli, separato da recinti, dove per spostarsi da uno Stato all'altro o anche all'interno di uno stesso Stato bisognava recarsi dalla Polizia a spiegare dove, come, quando e perchè ci si spostava, questa concezione moderna non poteva non incontrare diffidenze e resistenze, in particolare al Sud, perchè principalmente proprio lì l'idea dello Stato era del tutto assente e sconosciuta in vaste plaghe del territorio soprattutto rurale, e perchè soprattutto lì l'ignoranza diffusa nelle popolazioni, specie all'interno, rendeva incomprensibile e anzi sospetta questa idea, considerata invadente e opprimente in quanto tale. Al contrario, il monarca assoluto verniciato da un po' d'illuminismo, con il suo paternalismo e le sue graziose concessioni, era l'idea semplice del potere che la gente ignorante del tempo meglio concepiva: un sovrano incoronato da Dio, alleato dell'Altare, cioè del Papa vicario di Cristo, intoccabili e sacri entrambi. Il Risorgimento fece piazza pulita di tutto ciò, e in tal senso può considerarsi una “rivoluzione”, perchè introdusse il concetto moderno dello Stato di diritto: un concetto invero troppo evoluto per poter essere capito e accettato all'unanimità da masse incolte che istintivamente rifiutavano qualsiasi cambiamento, giudicato come un'intromissione diabolica. Spaventati dalla triade di scomunicati di Torino (Cavour, Vittorio Emanuele e Garibaldi), in particolare da “Garubaldo” (dipinto dai borbonici come un pericolosissimo bandito) e i suoi “diavoli” in camicia rossa che venivano a insidiare ataviche superstizioni e malintesi equilibri, i cosiddetti “cafoni”, fortunatamente in numero ampiamente minoritario rispetto al resto della popolazione meridionale, concentrati soprattutto in Molise e all'interno dell'Abruzzo -zone vantate come fedeli ai Borbone-, ebbero fugaci momenti di appariscenza nella controreazione legittimista che si scatenò in alcune zone del Sud disordinatamente, a sprazzi e senza alcuna strategia né coordinazione, nonostante il daffare dei comitati borbonici clandestini, i quali confidavano di rimettere Francesco II sul trono, più che grazie al popolo che gli aveva voltato le spalle, grazie a un intervento armato dell'Europa, che mai si verificò. Al ritiro degli ambasciatori dalla Corte di Torino e ad altre proteste internazionali più o meno vivaci (la Spagna ruppe addirittura le relazioni diplomatiche col Piemonte), non fece infatti seguito nessuna pratica risoluzione delle potenze europee né per fermare Garibaldi né per fermare Vittorio Emanuele quando varcò i confini dello Stato Pontificio. Chiaramente si temeva che, contrastando la politica del conte di Cavour, grandemente stimato all'estero, si aprissero le porte alla rivoluzione di Garibaldi e di Mazzini che brillavano di unanimi simpatie popolari in Italia e fuori, e dunque si spianasse la strada al suffragio universale maschile e femminile da essi voluto, con tutti i ribaltamenti che avrebbe comportato.
Seguire gli “scoppi” della ribellione legittimista nel mezzogiorno -che nessuno nega, ma che va grandemente ridimensionata sia quantitativamente che qualitativamente- è tutt'altro che facile, dal momento che essa ebbe un andamento a macchia di leopardo, il più delle volte temporaneo e dunque facilmente domabile. Il punto numericamente culminante della partecipazione dei “cafoni” (da non confondersi coi briganti) a questa ribellione, si ebbe quando, in numero di circa tremila, combatterono a fianco di un distaccamento dell'esercito inviato da Francesco II in Molise, al comando del capitano Achille De Liguoro (che poi combatterà nel 1866 a fianco degli austriaci contro l'Italia) per tentare di sbarrare il passo, senza riuscirci, al Re Vittorio Emanuele II che scendeva dalle Marche per andare a raggiungere Garibaldi a Napoli. Era l'ottobre del 1860. In quell'occasione, il Re Vittorio Emanuele in persona potè constatare de visu i danni incalcolabili apportati a uomini e cose: intere masserie distrutte e bruciate, cadaveri mutilati, narrazioni di atrocità contro i cosiddetti “liberali” o “galantuomini”, chiunque fossero, colpevoli di aver esposto il Tricolore, e dunque uccisi a pietrate, a colpi d'ascia, a coltellate, aggrediti in casa dopo aver sfondato forsennatamente le porte. In quella trista occasione, di fronte alla gente che gli si faceva incontro a invocare vendetta, egli disse: “Se non fossi in Italia, mi comporterei come un re barbaro.”
Ma, pur aggredito da più parti anche all'interno di sé stesso, e nonostante tutte le difficoltà che dovette affrontare, il Regno d’Italia risolse sempre i problemi con le sue sole forze e per questo può fregiarsi a buon diritto del titolo di Stato sovrano, padrone delle proprie alleanze, delle proprie decisioni e delle proprie leggi. Quando la Francia, nel 1881, dando sfogo al livore per la nostra riunificazione che mai aveva realmente appoggiato, ci sottrasse a suon di cannonate il protettorato che ci eravamo conquistati sulla Tunisia, colonizzata da tanti abili agricoltori italiani –per lo più siciliani- che l’avevano trasformata in un giardino creando una fiorente comunità di italo-tunisini, il Presidente del Consiglio Benedetto Cairoli si dimise finendo malamente la sua carriera politica poichè tutta la nazione fu percorsa da un soprassalto di sdegnato orgoglio, pretendendo una risposta militare immediata. Questa ci fu trent’anni dopo con l’occupazione della Libia e la guerra italo-turca, quando, sfidando l'europa, l'Italia entrò di forza nel Mediterraneo.
Oggi, nella pressochè totale indifferenza dei più, non si contano le altrui invasioni di campo, le continue intromissioni, le invadenze di spazi territoriali, aerei e marittimi, gli scandalosi cedimenti che a enumerarli non basterebbe un volume. In tutto questo, una nazione moralmente allo sbando che è tornata succube del Papato e di consorterie localistiche pre-unitarie che spargono la zizzania anti-risorgimentale, non ha mostrato di saper opporre altro che confuse ricette politiche, ingenue congetture di micro o macroregioni che verrebbero spazzate via come sono state spazzate via Cipro dai Turchi e la Corsica dai francesi. Se il Regno d’Italia prima o poi reagiva facendosi sentire, questa repubblica, tranne rarissime eccezioni, nemmeno ci si è mai provata. Anzi: proprio in occasione del centenario appena scorso della dichiarazione di guerra all’impero asburgico, si potrebbe fare con la fantasia uno scambio fra i due Stati, mettendo questo al posto del Regno d’Italia, e considerare le differenze.
La pressochè totale assenza di un’autorità superiore che rappresenti lo Stato, la sua lontananza dai cittadini, il suo esprimere concetti quasi sempre anti-nazionali, sono l’esempio offerto giornalmente ai nostri giovani, i quali non c’è da meravigliarsi si rivolgano ad altro.
Se Francesco Crispi, uno degli artefici meridionali del Risorgimento italiano che fu anche tra i Mille di Garibaldi, poteva scrivere all’indomani della riunificazione: “un’Italia rannicchiata nelle sue frontiere che abbandoni al naviglio straniero i mari che la circondano, che non parli nel consesso dei governi civili pel timore che questi diffidino di lei, che chiuda gli occhi per paura della luce, non può essere l’Italia alla quale hanno aspirato Mazzini, Garibaldi e Vittorio Emanuele.”, i governanti della repubblica antifascista, eredi diretti di coloro che dopo la sconfitta di Adua si riversarono nelle strade gridando “Viva Menelik!”, reputano giusto l’esatto contrario, e cioè che l’Italia se ne debba stare rattrappita in un angolo senza più nulla pretendere dal destino, schiacciata dall'europa. Ben prima che nascesse l’Europa, questo atteggiamento di rinuncia e di rimessa antinazionale è stato sempre la caratteristica dei due principali partiti anti-Risorgimentali, la DC e il PCI, datando fin dalle loro origini, quando comiciarono a far capolino tra le maglie del Regno d’Italia cercando di eroderlo dalle fondamenta. La sconfitta di Adua contro gli etiopi nel 1896, a tutt’oggi rimarcata come un’onta gigantesca mentre rappresenta tutt’altro che un caso eccezionale, dal momento che sconfitte simili sono normalmente annoverate da ogni nazione, viene citata in lungo elenco assieme alle altre sconfitte (Novara, Lissa, Custoza, Caporetto, Dogali…) tutte esageratamente evidenziate, dimenticando di enumerare le vittorie (Goito, Monzambano, San Martino, Bezzecca, Palestro, il Volturno, il Piave, Vittorio Veneto, e tutta la guerra italo-turca) che sono più numerose delle sconfitte e alcune delle quali portarono a conseguenze ben più stabili e durature per l’Italia.
Immersi nel pantano antinazionale, siamo dunque agli antipodi di ciò che proclamò Giosuè Carducci nel suo discorso “Per il Tricolore”, pronunciato a Reggio Emilia nel 1897 in occasione del centenario della sua nascita: “l’Italia è risorta nel mondo per sé e per il mondo: ella, per vivere, deve avere idee e forze sue, deve esplicare un ufficio suo civile ed umano, un’espansione morale e politica. Tornate, o giovani, alla conoscenza dei Padri, e riponetevi in core quello che fu il sentimento, il voto, il proposito di quei grandi vecchi che hanno fatto la Patria: l’Italia avanti a tutto! L’Italia sopra tutto!”
Invece di aver fatto nostri questi incitamenti, buona parte della nazione ha ceduto alle arti mistificatorie anti-risorgimentali che hanno trovato terreno fertile in una repubblica che annualmente celebra come vittoria una delle più disastrose sconfitte dell’Italia e ha svenduto l'Italia all'europa, approvando nel 2010 all'unanimità, con un solo astenuto, la polizia sovranazionale -l'”eurogendorf”-, che gradualmente sostituirà la nostra Polizia di Stato e i nostri Carabinieri, e non sarà soggetta a nessun governo nazionale né dovrà render conto a nessun Parlamento o giudice dello Stato.
Nel frattempo, prima che sia completata l'opera di distruzione dell'identità nazionale e la vanificazione dello Stato, nel meridione qualcuno celebra come modelli ed eroi i briganti che tanto vanno di moda: Ninco Nanco e le sue belle imprese (giocare a palla con le teste dei bambini uccisi, per esempio), Cipriano Della Gala (che al processo non ebbe nemmeno il coraggio di confessare i suoi orrendi crimini e rovesciò tutte le colpe sui suoi uomini), Carmine Crocco (che in carcere si pentì di quello che aveva fatto), Cosimo Giordano (il cui lungo elenco di ignobili delitti gli ha appena fruttato la dedicazione di una strada nel suo paese natale, Cerreto Sannita in provincia di Benevento), e i vari mercenari stranieri che incamerarono solo batoste dal Regio esercito, incaricati dal “Supremo Consiglio di Roma” di restaurare i Borboni, ma che, pensando di trovare le popolazioni del mezzogiorno pronte a sollevarsi in massa contro i Savoia, sperimentarono che queste esistevano solo nell’immaginazione degli emissari di Franceso II che li avevano spinti all’impresa.
I disastri dell’oggi non sono certo conseguenza dell’Unità d’Italia, ma della dabbenaggine, della pochezza, dell’ottusità e dell’incapacità di chi non è degno di sciogliere i calzari agli uomini che fecero l’Unità d’Italia, i quali sfidarono imperi secolari, polizie agguerrite, eserciti mercenari, spionaggi astuti, la strapotenza della Chiesa e dell’arcigna Europa, e dunque non possono essere assolutamente giudicati da chi non è in grado nemmeno di opporsi col pensiero allo sfacelo attuale della nazione.
Maria Cipriano