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venerdì 30 dicembre 2016

Il Corporativismo e l'antica Roma - Sandro Righini



Corporativismo e socializzazione. Ecco i temi trattati in quella che è stata la prima conferenza organizzata¹ dal Gruppo di Studio Avser insieme agli amici di Magnitudo Versilia – che hanno messo a disposizione la loro nuova e bellissima sede per l'occasione. Conferenza tenutasi lo scorso sabato 17 dicembre 2016 ed in cui sono stati invitati a parlare due giovani ed eccellenti relatori, Francesco Carlesi e Gianluca Passera. Nell'introdurli ho dichiarato che le radici culturali di quella scuola di pensiero, prettamente italiana, da cui si svilupperanno tanto il corporativismo quanto la socializzazione, possono essere individuate in modo più compiuto nel nostro Risorgimento, ma che esse partono da lontano. Dove situare allora quel “lontano”? Al quesito rispose a suo tempo Carlesi, quando lo intervistammo sul nostro sito, dichiarando in merito: « Con tutti i dovuti ed evidenti distinguo, “tracce” di corporativismo si trovano sin dall’esperienza dell’antica Roma »². D'altronde la parte più viva e attuale del Risorgimento è intrisa fino al midollo di romanità. Il mio obbiettivo è allora quello di far capire il perché queste “tracce” vadano rintracciate proprio . Qui ci vengono in soccorso alcuni degli ultimi lavori di Andrea Carandini. Per chi non ne avesse mai sentito parlare, trattasi di uno dei massimi archeologi italiani, grazie alle cui scoperte si è finalmente riusciti a capire che l'Urbe nasce effettivamente nell'VIIIº secolo a.c., proprio come vuole la leggenda e che molti dei racconti mitologici legati alla sua fondazione contengano importanti e significative tracce di verità. Ulteriore merito di Carandini è stato quello di aver saputo leggere non solo i dati materiali delle sue ricerche, ma di averli comparati con altre discipline – storia delle religioni, antropologia, scienze politiche – al fine di dare una visione complessa e sfaccettata del misterioso universo in cui Roma nasce e si accresce. Esistono ampi dibattiti su molte delle tesi sostenute da Carandini e non sta a me confutarle o meno in questa sede. Ciò che m'importa è trarre da alcune sue dichiarazioni la dimostrazione di come la “rivoluzione mentale”³ di cui parla Gianluca Passera nel suo bellissimo libro La nobile impresa, da compiere rigettando in toto l'approccio prettamente materialista dei modelli sociali, economici e politici imperanti, debba ripartire proprio da una visione spirituale ed organica dell'Uomo che, nell'antica Roma, affonda le sue più profonde radici.
Partirei nel mio intento citando un passo tratto da Tito Livio e riportato anche in Res Publica. Come Bruto cacciò l'ultimo Re di Roma, dove Carandini, con uno stile a metà tra il divulgativo e il romanzato, ci racconta alla sua maniera l'epopea dell'instaurazione repubblicana nell'antica Roma. Il console Lucio Giunio Bruto, padre della Repubblica, è appena morto in battaglia contro gli Etruschi e dopo il suo solenne funerale, sull'altro console Publio Valerio cala un'ombra inquietante:

« Ma il console superstite (davvero instabile l'umore della gente!) passò dal favore all'invidia; non solo, fu anche oggetto di sospetto e di una accusa infamante. Girava voce che egli aspirasse fortemente al regno, perché non aveva surrogato il collega Bruto e per di più si stava costruendo la dimora proprio in cima alla Velia: in quel luogo alto e fortificato sarebbe diventata una sorta di rocca inespugnabile. Erano dicerie diffuse, credute e infamanti: il console ne era crucciato e, convocata un'assemblea del popolo, salì sulla tribuna dopo aver abbassato i fasci. Questa vista fu molto gradita ai cittadini perché abbassare le insegne del comando davanti a loro equivaleva a proclamare che la sovranità e l'autorità del popolo erano maggiori di quelle del console. Il console riuscì ad essere ascoltato: prese a lodare la sorte del collega che era morto dopo aver liberato la patria, mentre deteneva la più alta carica dello stato e per lo stato combattendo, all'apice di una gloria che ancora non si era trasformata in invidia. Lui invece, superstite alla sua stessa gloria, era sopravvissuto per diventare oggetto di accuse e di invidia, per decadere dal ruolo di liberatore della patria al livello degli Aquili e dei Vitelli. Disse: « Ci sarà, dunque, mai una virtù tanto evidente da non poter esser offuscata dal sospetto? Proprio me, il più determinato fra i nemici della casa reale, doveva capitare l'accusa di aspirare al regno? Anche se abitassi proprio sulla rocca capitolina, potrei credere di essere causa di apprensione per i miei concittadini? Così fragile è il mio credito presso di voi? Ed è tanto fragile la mia credibilità, da rendere il luogo in cui abito più significativo della mia stessa persona? La casa di Publio Valerio non sarà un ostacolo per la vostra libertà, Quiriti. Non sarà minacciata dalla Velia la vostra sicurezza. Non solo non costruirò più in basso la mia casa, ma la collocherò proprio alle falde del colle, in maniera che voi abbiate me, cittadino sospetto, sotto di voi. Sulla Velia si costruiscano la casa coloro ai quali la libertà può essere affidata con meno rischi che a Publio Valerio. »

Questa storia non è soltanto esemplificativa del valore e della potenza dei simboli – e direi anche dei gesti – di un capo di fronte alla propria comunità, ma anche di una concezione comunitaria fortemente in antitesi rispetto alla nostra. Commenta infatti Carandini l'episodio:

« Questa vicenda indica che la libertà degli antichi riguardava la partecipazione dei cittadini al governo della città e non il modo di godersi la vita privata, che è invece caratteristica della libertà moderna. Nella vita privata neppure il quasi re Valerio poteva vivere a modo suo, dovendo attenersi ai costumi sacrali e civili della città. »

Quella appena evidenziata non è una differenza da poco, ma qualcosa di sostanziale. Si potrebbe dire che abbiamo di fronte l'esempio di una società in cui la libertà si fonda sui Doveri: in primis la Pietas verso gli Déi e gli antenati, il collante più profondo ed alto della comunità; poi sul rispetto dello Ius, della legge umana che governa la cosa pubblica in conformità agli usi e alle tradizioni del popolo. E a tal proposito segue Carandini:

« Bisognerebbe che le scuole educassero al mestiere di cittadino, quindi alle virtù civiche, che consistono principalmente nel pensare con la propria testa. Per la rinascita della vita civile occorrerebbe ricollegarsi alla tradizione della libertà repubblicana, quindi a principi antichi, a partire dalla libera Repubblica dei Romani. Si tratterebbe di immaginare un risorgimento del patriottismo repubblicano. I valori da ritrovare sono: integrità morale, senso del dovere, coraggio, grandezza d'animo, fierezza, dignità, competenza, merito, autonomia di giudizio, senso della responsabilità, capacità d'indignarsi.
In questa prospettiva l'accento del discorso cade, insolitamente, più sulla componente “repubblica” che sulla componente “democrazia” (la maggioranza non può violare la libertà). La Repubblica pone l'accento su un popolo che tiene alla sua sovranità quanto alla fedeltà alla costituzione e alle leggi. Se l'ethos repubblicano si fonda infatti sui due doveri, il dovere di essere fedeli alla Repubblica, alla costituzione e alle sue leggi, e il dovere di resistere all'esercizio di un potere arbitrario ed enorme, ecco che la fondazione della libera “cosa pubblica” dei Romani balza improvvisamente dall'abisso oscuro di un passato estraneo al proscenio del nostro tempo, come era accaduto alla fine del settecento e nell'Ottocento. Non è forse nella “cosa pubblica”, come idea dell'ottimo regime che perdura nei millenni, il presupposto storico e incancellabile delle conquiste garantiste del nostro tempo? ». 6

Pensiamoci bene: nell'episodio di Valerio e nei commenti del Carandini, non ritroviamo forse le stesse tematiche affrontate dal corporativismo e dalla socializzazione durante il secolo scorso? Non è forse lì, nelle virtù civiche e comunitarie, nell'importanza dei simboli e del culto, nello stretto legame che collega ogni singola parte della società e la rende cellula attiva di un organismo più grande, che possiamo individuare la stessa tensione ideale? Perché, come sottolinea più volte Gianluca Passera nel suo libro, non dobbiamo mai dimenticare che corporativismo e socializzazione sono qualcosa di più che semplici tentavi volti a scardinare l'impalcatura liberale o comunista dell'economia e della società. Travalicano oltre, cercando di formare un tipo d'Uomo nuovo, nel contesto caotico, rapido, in continuo divenire della modernità. E quale miglior strumento se non il Lavoro – inteso latinamente non come Labor (fatica, sforzo, pena, travaglio), ma come Opus (opera, costruzione, edificazione) tanto nella sua accezione manuale e fisica, quanto in quella intellettuale e speculativa – per tentare di spiritualizzare la vita attiva dell'Uomo? Quale miglior terreno dell'officina, della fabbrica, del campo, della stalla, degli uffici, degli studi, per far riconoscere agli uomini, nei più semplici gesti che portano alla produzione di un macchinario, all'accrescersi di un frutto, alla creazione di un opera d'arte, il sentimento di partecipazione a qualcosa di più ampio? Ed è qui, nella propria specificità che si connette alle altre e nel comune sforzo, opera e crea, che alberga la scintilla divina d'ogni Uomo. Ecco allora come tanto il corporativismo, quanto la socializzazione, si dimostrano figli di una concezione dell'Uomo e della Società le cui origini sono indissolubilmente legate a quelle dell'antica Roma, ad una spiritualità che si misura giornalmente nella fatica, nell'azione, nella partecipazione attiva all'agone della vita. Potremmo forse azzardarci a sintetizzare dicendo che sono la riproposizione di una visione Romana, totalizzante e partecipativa, dell'Uomo nell'ambito comunitario attraverso il lavoro. Qui va ricercato il seme di una sincera rinascita, di un nuovo Risorgimento che abbia come obbiettivocitando ancora Carandini – quello di « durare nel mutamento, trasformarsi nella tradizione » proprio come ogni sana società deve inevitabilmente fare.

Sandro Righini

NOTE


1 - 

3 – Gianluca Passera, La nobile impresa. La socializzazione: storia di un'ottima idea maledetta dalle ipocrisie degli eventi e dell'economia, Il Cerchio, 2015, pag. 292
4 – Tito Livio, Ab Urbe Condita libro I°, Newton, pag. 159
5 – Andrea Carandini, Res Publica. Come Bruto cacciò l'ultimo Re di Roma, Rizzoli, 2011, pag. 77
6 – Andrea Carandini, op. cit., pag. 147
7 – Andrea Carandini, Sindrome Occidentale. Conversazione fra un archeologo e uno storico sull'orgine a Roma del diritto, della politica e dello stato, Il Melangolo, 2007, pag. 83

sabato 24 dicembre 2016

BUON RISORGIMENTO - Maria Cipriano

Il bosco è l'ultimo rifugio del Ribelle, spiegava mirabilmente Ernst Jünger in uno dei suoi più famosi libri. Ma esso non è soltanto un rifugio, è un centro propulsivo. È il luogo incontaminato onde ricercare e ritrovare il contatto con le forze originarie, primigenie, le sole capaci di dare il giusto impulso agli uomini per gettare le basi un nuovo ordine, laddove si sfaldano le membra di una società morente e predominano il caos, l'ingiustizia, la tirannia.
La via della macchia è però una via impervia. Se non attrezzati e pronti si finisce per esserne inesorabilmente risucchiati. Non si possono calcarne impunemente i sentieri senza aver ben chiaro il percorso da fare.
Dovevano conoscerlo i nostri Carbonari, l'eroica ed umile fratellanza che sta alla base di tutto il nostro Risorgimento. Eroica perché capace di sfidare avversari ben più numerosi e forti, incurante di persecuzioni, sentenze di morte ed esili, protesa al raggiungimento del suo obbiettivo con la stessa tenace ostinazione che contraddistingue ogni genuino boscaiolo. Umile perché operante nell'ombra, schiva di riconoscimenti, riservata e paga di compiere il suo Dovere senza altro richiedere. Talmente umile ed attenta a non lasciare tracce, che ancora oggi è assai difficile raccontarne la storia, visto che il riserbo e la segretezza che da sempre l'hanno avvolta a mala pena permettono di gettare un timido sguardo su di essa.
Ci prova la nostra assidua e fedelissima Maria Cipriano, con questo suo appassionante articolo. Articolo che stimola il lettore, lo incuriosisce e lo addentra nel folto di un “mistero storico” su cui ancora molto vi è da scrivere.
Ma questo articolo vuol essere anche un augurio e un monito. Per tale motivo lo pubblichiamo in concomitanza di queste feste solstiziali e natalizie, unendo così le origini Romano-Italiche e la novità Cristiana fuse all'interno della Carboneria stessa. L'augurio è che come dal nero e povero carbone, rigido e apparentemente morto, risplenda ancora l'aurea e danzante fiamma, luce di nuova vita per l'Italia intera. Un monito affinché i figli di questa magnifica terra non dimentichino mai i loro eroici ed umili predecessori.
Sandro Righini




Che le luci della Carboneria possano guidare gli italiani di buona volontà sul cammino della salvezza individuale, e adornare spiritualmente l'Albero e il Presepe delle antiche tradizioni Italiche che riportano a Roma, principio e fine dei nostri destini. Che il Natale dell'Italia e di voi tutti, che amate la Patria e soffrite per essa, possa essere il natalizio dell'eternità .
M.C.

BUON RISORGIMENTO



La sera del 18 agosto 1815, alla presenza dell'arcigno imperatore austriaco Francesco I, illuso di colonizzare facilmente la Lombardia, il Veneto e le altre numerose terre vilmente sottratte alla morente Venezia, venne rappresentata per la prima volta al Teatro Re di Milano la tragedia “Francesca da Rimini” di Silvio Pellico, che, come molte altre opere del tempo, celava strofe sovversive-patriottiche. Quando il primo attore recitò l'apostrofe all'Italia (Italia mia, combatterò se oltraggio ti muoverà l'invidia! Polve d'eroi non è la polve tua?) un fremito attraversò il teatro, la gente cominciò ad applaudire, a gridare, a levarsi in piedi inneggiando alla Patria, nello sgomento generale degli austriaci che occupavano sempre impettiti le prime file della platea: una scena che si sarebbe ripetuta infinite volte un po' dappertutto negli anni a venire, causando interventi della forza pubblica, arresti, incidenti, sgomberi di teatri, indignazione negli occupanti. Il prim'attore fu subito convocato dalla Polizia, redarguito, minacciato del carcere a pane e acqua, e la strofa definitivamente censurata.
Questa fu l'Italia che fece il Risorgimento, levatasi a sfidare i potentati stranieri sfruttatori e gli altri meschini sovrani a loro ascritti e asserviti assieme ai degeneri italiani che li sostenevano. Un'Italia che osò insorgere e risorgere proprio quando, con la Restaurazione e il Congresso di Vienna, tutto sembrava morto, ogni speranza spenta, e la pietra tombale fissata definitivamente dalle potenze europee e dai loro sordidi maneggi sul corpo piagato dell'infelice Patria. Fu allora che dal buio della “foresta percorsa dai lupi”(per usare una famosa espressione carbonara) un lucignolo fece luce nelle tenebre, un sentiero si appalesò agli smarriti italiani, una traccia, un segnacolo di speranza chiamò a sé gli afflitti, rinfondendo energie, rianimando le forze esanimi e abbattute, offrendo una metaforica capanna di legno sormontata da una croce (uno dei simboli carbonari) come riparo, una congrega di fratelli (anzi di “buoni cugini”, questa l'espressione carbonara) come famiglia, un insieme di simboli, di formule e di riti (piuttosto modesti per la verità, quelli carbonari, ispirati all'antica Roma e al mondo agreste-boschivo) in cui riconoscersi e trovare, come da un sacro mantra iniziatico e misterioso, come da un'incessante preghiera, la forza interiore, fisica e morale, per reagire alle forze del male votandosi al sacrificio di sé, così come Cristo- che è il primo carbonaro- si votò alla morte. Fu, questa, la Carboneria. Essa non fu molto altro di codesta disarmante semplicità e chiarezza di moventi e di traguardi, rigorosi e severi, che attrassero a sé come una calamita, nonostante l'arduità estrema dell'impegno richiesto, adepti di tutte le regioni, arrivando fin là ove pareva impensabile arrivare: dentro le file dell'esercito borbonico e di quello sabaudo, le due compagini militari più numerose e più importanti dell'Italia di allora.
In particolare, la familiarità di rapporti che intercorreva fra il Re Sabaudo e le sue fedelissime truppe, unita all'affabilità del giovane erede al trono Carlo Alberto che viveva si può dire in simbiosi e direi in amicizia con esse, pur stretto nella morsa soffocante dell'austriacantismo del Re Carlo Felice suo zio, consentirono di far giungere fino alle sue principesche orecchie il grido di dolore che da tutta l'Italia si levava, invocante la libertà, che era liberazione dallo straniero, Costituzione, unificazione, progresso di leggi e di costumi, limitazione e freno allo strapotere della Chiesa. Il merito indiscutibile di Carlo Alberto fu quello di recepire e di ascoltare, ch'era già molto, cose ch'era inconcepibile anche solo pensare, al punto che la regina Cristina, moglie di Carlo Felice, sbottò scandalizzata: “Carlo Alberto dice cose tanto strane, parla che mi sembra pazzo o ubriaco.” Sappiamo che per questo fu allontanato da Torino, minacciato d'essere diseredato, sospeso dalle sue prerogative, forzato a ritrattare per essere poi riammesso penitente a Corte al cospetto di uno zio furente che non tollerava neanche si pensassero certe cose, figuriamoci parlarne!
Ma, prima di arrivare a Carlo Alberto, prima di arrivare al fatidico 1848, e al passaggio epocale del Ticino da parte delle truppe piemontesi che dette la svolta tanto attesa alla Storia d'Italia con le indimenticabili giornate della 1a guerra d'indipendenza (guerra che fece accorrere in Piemonte l'incaricato inglese a supplicare il Re sabaudo di desistere da quella pazza impresa contro l'Austria che era un suicidio), ebbene, prima d'allora, la Carboneria ne aveva fatta tanta di strada da sé sola, con il coraggio e la temerarietà che le erano proprie. Passando di fallimento in fallimento, cadendo e inciampando davanti al Golia che aveva davanti, rialzandosi ogni volta, incurante dei dolori e delle fatiche, di mille spietati interrogatori tesi a estirpare i suoi riposti intendimenti, essa, dilagando da una parte all'altra della penisola senza che alcuno potesse fermarla, pose le premesse inamovibili della Vittoria smuovendo le acque stagnanti, mettendo in subbuglio tutte le Polizie, sbalordendo, impaurendo, esasperando i suoi cacciatori che, armati di tutte le armi, mai riuscirono a spuntarla contro le due armi infallibili della sua fede e della sua segretezza. Una fede e una segretezza a tal punto pervicacemente conservate, al contrario della Massoneria che amava mettersi in mostra, che un alone di mistero, di paura, un senso di timore come di fronte a un arcano dissepolto da ignote profondità, ancor oggi suscita soggezione in chiunque per davvero voglia indagare a fondo i suoi meandri e le sue introvabili origini. Di cui poco o nulla si sa, e, quel poco, è già bastante a presentarci una società segreta rigorosamente autoctona, italico-Romana di sangue e di suolo, nonostante si sia tentato di spacciarla per una filiazione della Massoneria, da cui profonde differenze la dividono, anche se non di rado, proprio a testimoniare il buio in cui brancolavano i segugi dell'assolutismo, le due società venivano confuse, sembrando logico che la Carboneria non potesse che esser gemella della Massoneria, la quale era ben nota ai governi, e verso essi sempre innocua e deferente, cosicché alcuni dicevano che per accidente se n'era staccata una costola, disobbediente, che aveva come scopo la sovversione violenta dell'ordine costituito. Ma questo era semplicismo storico, una scorciatoia presa da chi non sapeva darsi ragione dell'improvviso emergere di un fantasma in carne e ossa che predicava con irriducibile ostinazione l'indipendenza e Unità della Patria: la Patria rappresentata come l'addolorata Madre che “ha per manto il mare e per scettro altissimi monti”, di cui i carbonari riproponevano le desolate raffigurazioni che nel corso dei secoli, dalla caduta di Roma, ne erano state date, di vedova derelitta di Cesare, coi figli orfani e calpesti. Ora questi figli però inspiegabilmente risorgevano dandosi nomi Romani e presentandosi con un pugnale in mano, cospiratori e occulti pianificatori di trame rivoluzionarie, per attuare senza tante perifrasi quella che poteva definirsi a tutti gli effettilotta armata, vera e propria insurrezione. Questa fu la Carboneria. Avverso cui si scatenò una spietata caccia all'uomo in tutta Italia. Avverso la quale i sovrani e le Polizie si tennero in contatto reciproco con continui abboccamenti e riunioni, onde venirne a capo, ma il capo non si trovava. Per ragioni di sicurezza, infatti, la veneranda e sacra congrega patriottica da cui nacque il nostro glorioso Risorgimento, una volta raggiunta una certa estensione territoriale, il che avvenne quando dal mezzogiorno, ov'era nata, dilagò nello Stato Pontificio, preferì frammentarsi, mentre, per facilitarne la strada, altri raggruppamenti minori sorgevano a sua imitazione, il che compromise la sua originaria struttura gerarchica unitaria che non resse al moltiplicarsi delle “vendite carbonare” praticamente in ogni luogo, rendendo la comunicazione sempre più difficile, complicata e rischiosa. Se da una parte ciò compromise l'efficacia concreta dei risultati rivoluzionari a livello nazionale, dall'altro generò un labirinto localistico in cui i segugi dell'ancien regime non riuscirono mai a trovare né l'entrata né l'uscita, nonostante essi stessi fondassero società segrete rivali di stampo retrivo da opporre a quella, dove gente senza scrupoli, spesso veri e propri criminali, avevano ricevuto ordini precisi di uccidere e disperdere anche solo i semplici sospetti di appartenere a “quell'infame setta”, versando “fino all'ultima goccia di sangue di quei rettili” senza riguardo alcuno al pianto dei vecchi, dei bambini e delle donne.
Il fatto che le insurrezioni carbonare, pur generando un gran clamore e un grande allarme, non giungessero mai a segno, essendoci sempre qualcosa che le intralciava, non indebolì la Carboneria, che anzi si fortificò da esse, moltiplicando i suoi adepti, propagandosi nei luoghi più impensati, e soprattutto avvicinando il popolo, che cominciò a simpatizzare e collaborare, fiancheggiando le azioni, facendo da supporto, da aiutante, da trasportatore di ordini e messaggi cifrati, nascosti nei cesti della biancheria, dentro le stalle, nelle gerle, dentro fodere cucite, e, perfino, nelle scarpe. I messaggi della sovversione carbonara eccitavano gli animi, riscaldavano il cuore, accendevano la fiamma del patriottismo e della libertà dando corpo di realtà a traguardi considerati prima impossibili. Era tutto un popolo fatto di nobili, preti, notai, dottori, professori, impiegati, artigiani, studenti, ufficiali, soldati, commercianti e contadini, che mettendo a repentaglio i beni e la vita e a rischio le famiglie, cospirava per l'Italia, giurando di abbattere i tiranni e cacciare gli stranieri dal sacro suolo, e, quanto più s'ingrossava, tanto più spargeva fiducia e speranza attorno a sé, cosicché chiunque poteva imparare ad amare la Patria, sentendosi accresciuto di stato, risorto a una coscienza nuova, poiché la Carboneria era fratellanza di sangue e discendenza Romana, e dunque anche uguaglianza e progresso sociale, riscatto ed emancipazione dalla miseria.
Il 21 maggio del 1817 Gioacchino Papis, maestro dell'Alta vendita di Ancona, segretamente scriveva al conte Cesare Gallo di Osimo, maestro dell'Alta Vendita di Macerata: “Siate dunque attivo giacché se mai l'occasione è stata propizia, lo è certamente in questi tempi in cui la ben giusta indignazione popolare ci favorisce, e le notizie che ci pervengono ci assicurano di riuscire nell'intento.” Chiaramente intendeva riferirsi a un'insurrezione, che questo era lo scopo della Carboneria: la ribellione a mano armata.
Mentre i massoni, finemente vestiti, tutti ordinati coi loro candidi grembiuli, ligi a rigidi riti formali, non muovevano un dito, paghi di stare nel loro Tempio aristocratico e conservatore, aulico e astratto, simbolicamente perfetto, staccato dal mondo, ove parlar di teorica pace e fratellanza sotto l'egida del grande architetto dell'universo, i carbonari erano invece nel mondo, vestiti dei suoi umili panni, in continuo movimento e patimento dei suoi dolori e delle sue diuturne prove, immersi fino al collo nella lotta. Un Maestro terribile attendeva gli iniziati per avvertirli della durezza delle prove a cui sarebbero andati incontro al fine di poter raggiungere i gradi più alti (le luci) del firmamento carbonaro. Mentre i massoni disdegnavano ciò che non rientrava nelle loro asettiche simmetrie, guardandosi bene dal gettarsi nella mischia e mescolarsi al popolo straccione e ai suoi bassi problemi, i carbonari erano invece asimmetrici e rivoluzionari, arrischiandosi in continui assalti per sradicare la coriacea impalcatura dell'oppressione, pagando di persona, ammirati dal popolo, che spesso assisté alle retate della polizia a loro danno, le quali non si contano e di cui non si ha nemmeno compiuta notizia. Proprio l'insurrezione di Macerata del 1817 cui si riferiva il Papis, si risolse in un disastro: prevenuti dalle spiate di informatori che quasi sempre per miseria, fame o alla vista di orride torture si vendevano, i rivoltosi raccoltisi nottetempo alle porte della città si ritrovarono soli, senza il concertato raduno di forze dalla città stessa e dalle contrade vicine. Uno dei convenuti per rabbia sparò due colpi di fucile contro la sentinella, che dette subito l'allarme. Riuscirono a fuggire nei campi ove c'era sempre pronto un riparo, ma il giorno dopo, alla vista delle migliaia di volantini inneggianti all'insurrezione sparsi con la complicità di tutte le contrade lungo un'ampia porzione di territorio, scattò furibonda la reazione della Polizia: centinaia e centinaia furono gli arrestati, di ogni ceto e provenienza, tra cui il Papis medesimo e il conte Gallo, condannati a morte, poi all'ergastolo, e infine, per l'amnistia del nuovo Papa, liberati dopo tredici anni di ferri trascorsi nel lugubre forte di Civita Castellana in provincia di Viterbo. Li attendeva, fuori, l'asfissiante sorveglianza della Polizia o l'esilio.
Proprio lo Stato Pontificio, nelle cui 20 provincie (5 legazioni governate da un cardinal legato e 15 delegazioni governate da un monsignore delegato) la Carboneria velocemente dilagò, aveva conosciuto, ancor prima dell'insurrezione fallita di Macerata, processi sommari con centinaia di esecuzioni pubbliche di carbonari lasciati a penzolare dalle forche in bella vista sotto il “paterno” governo del Papa e del suo fido esecutore il cardinale Agostino Rivarola, detto “il prete della morte”, le cui brutali repressioni sono passate alla storia.
Un delitto era anche solo sussurrare “Viva l'Italia”. Proibita la stampa, la parola, l'associazione, la libera circolazione, la censura imposta ovunque, la tortura una regola comune. Scriveva il pio uomo monsignor Luigi Martini, una volta al sicuro nella pace del Regno d'Italia che a lui doveva sembrare un paradiso: “Un gesto, una parola, un atto imprudente, un'inimicizia occulta potevano a ogni momento nuocere a un cittadino onesto, e la polizia e i suoi sbirri pedinarlo, chiudergli l'accesso agli impieghi, entrare in casa sua a qualsiasi ora, intercettargli la posta, arrestarlo e trattenerlo in carcere come e quanto volessero, insultandolo, angariandolo, e impedendogli anche la visita delle persone più care, oppure intimargli di lasciare il luogo natìo entro 24 ore.” Martini ebbe il torto di trattare i cospiratori con umanità, di comprenderli nel loro ardente amor di Patria, considerandolo non in disaccordo con la religione, ebbe il torto di assistere amorevolmente i condannati, definendo la loro morte un martirio. Sospettato e allontanato dagli austriaci nonché fortemente inviso a molti membri della Curia, la resa dei conti con la Chiesa non tardò a colpirlo anche dopo l'unificazione d'Italia, quando fu allontanato dai sui uffici e messi all'indice i suoi scritti. Era il destino comune a tutti gli uomini di Chiesa che, seguendo la lezione di San Tommaso d'Aquino, intendessero conciliare l'amor di Patria con la religione cristiana.
Eppure proprio questa fu la caratteristica della Carboneria, il contenuto psicologicamente vincente che attrasse gli italiani di allora: il connubio fra Cristo e la Romanità. Non, si badi bene, tra la Chiesa e la Romanità, bensì fra Cristo e la Romanità, che è cosa ben diversa: un legame inedito al quale sarebbero da dedicare ulteriori approfondimenti di studio e di analisi, cui per ragioni di spazio mi è d'obbligo soprassedere, e a cui posso solo accennare, essendo, questo legare il Cristo alla Romanità, uno strapparlo alla Chiesa, un suo liberarlo dalla Chiesa e dai racconti canonici della Chiesa. I complicati intrecci, piuttosto ardui da sbrogliare, delle misteriose origini della Carboneria e del suo mitico fondatore San Teobaldo, raccontate in diverse varianti da studiosi diversi, non sono ancora stati convintamente chiariti dagli storici, cosicché, ai giorni nostri, correttamente la storiografia ammette quasi all'unanimità di non sapere quando, come, e dove nacque la Carboneria né chi fosse San Teobaldo. Noi conosciamo solo qualche brandello di questa storia, possediamo qualche documento (molti sono da considerarsi apocrifi), qualche racconto fatto da terzi (non sempre attendibile), i resoconti di Polizia: ma non basta. Sappiamo che la Carboneria fu antifrancese e nondimeno i francesi, nei pochi decenni in cui furono in Italia, cercarono di appropriarsene ai loro scopi, anche dopo la caduta di Napoleone, poiché essa parlava di libertà, di giustizia e di indipendenza, e dunque essi volevano farla apparire come cosa loro, in modo da non intaccare il potere francese in Italia e anzi rafforzarlo, onde insediare un Bonaparte come Re d'Italia: un piano che non riuscì. Sappiamo poi che Carboneria e Massoneria non coincidono, anche se alcuni simboli (pochi, per la verità) sembrano copiati da quest'ultima, e nondimeno sappiamo che un certo numero di massoni uscì dalla Massoneria per entrare nella Carboneria, ove si predicava e faceva tutt'altro: il sacrificio e il martirio per la Patria, come ampiamente dimostrato con le sue immani sofferenze dal conte Federico Confalonieri, ex massone. Sappiamo anche che Teobaldo è con ogni probabilità una figura storica (nella storia ufficiale se ne conoscono non meno di una trentina), ma le troppo facili biografie che ne sono state fatte, che lo collocano ora qui ora lì, in questa o quell'altra epoca, non risultano punto attendibili. Sappiamo anche con ragionevole certezza che le vendite carbonare erano una realtà e non solo un'immagine metaforica, dunque trattavasi di una congrega nata nei boschi siti in luoghi impervi privi di strade ove si usava l'accetta per farsi largo (e l'accetta è infatti simbolo sacro della Carboneria), ove si lavorava il carbone e lo si rivendeva in apposite baracche, dette vendite, il che avveniva nel mezzogiorno, in particolare in Calabria, e infatti Teobaldo è nome molto antico di origine greca. Questo sappiamo, che è poco per uno storico. Si può supporre- come io suppongo- che il Teobaldo in questione sia fuori dalla storia ufficiale: che fosse un fuggitivo, un uomo colto, facilmente un religioso, perseguitato per motivi politici e religiosi che trovò rifugio in tempi remoti con altri compagni presso gli umilissimi carbonari. Da qui il sovrapporsi di riti e simboli (i simboli cristiani e romani accanto a quelli del lavoro tipico dei carbonari), da qui la connotazione fortemente mistica e altresì politica della Carboneria, volta alla salvezza e al riscatto della derelitta Patria da tiranni e stranieri.
Ma ciò che sappiamo, e più di tutto conta e riempie i nostri vuoti, ciò che sappiamo con assoluta certezza e ci riempie di orgoglio e di forza, è che la via del Risorgimento è lastricata del sangue e del sacrificio dei carbonari. Prima di Mazzini e di Garibaldi (che peraltro da giovani furono carbonari anch'essi), prima di Carlo Alberto e di Cavour, prima delle tre guerre d'indipendenza e delle grandi insurrezioni che conosciamo (di Milano, di Palermo, di Bologna, di Napoli, di Venezia, di Messina) sono il sangue e i patimenti dei carbonari che hanno fatto l'Italia, è stato il coraggio dei carbonari a preparare con la sua accetta la strada nella buia foresta percorsa dai lupi, e su questo sangue coscientemente e volontariamente versato a imitazione di Cristo, su questo sangue spesso ignoto e dunque più sacro e prezioso ancora, su questo sangue purissimo di tanti sconosciuti italiani di ogni ceto, età e provenienza, poggia l'Unità d'Italia, ciò che siamo, ciò che dobbiamo essere e continuare a essere, a dispetto di ogni reietto invasore e traditore: una roccia per sempre.

Maria Cipriano

sabato 3 dicembre 2016

La Rivista del Bottino. Intervista a Marco Allasia

Questa intervista nasce dalla volontà di presentare ai nostri lettori un libro di memorialistica sulla IIª Guerra Mondiale scritto da Guido Allasia, classe 1921, volontario negli alpini e poi aderente alla R.S.I. Il libro di colui che viene giustamente definito dal curatore dell'edizione, Federico Prizzi, “il Guareschi Repubblicano”, è un volume postumo (Guido è morto nel 2001) la cui pubblicazione è stata fortemente voluta dal figlio Marco. A lui il nostro sodale Francesco Preziuso ha posto una serie d'interessanti domande con l'obbiettivo non solo di stimolare i nostri lettori ad immergersi tra le pagine di questo prezioso testo, ma anche di gettare un ulteriore sguardo su un pezzo di storia italiana per troppo tempo nascosto nell'ombra.

Gruppo di Studio AVSER



1) Per prima cosa vorremmo chiederle come e quando nasce in suo padre l'idea di scrivere questo libro?

Si tratta, in verità, non di un libro vero e proprio, bensì di una specie di taccuino di ricordi dedicato ai commilitoni che mio padre scrisse una volta andato in pensione. In realtà in origine non era destinato a un vasto pubblico e mio padre ne fece girare qualche fotocopia tra gli amici. Era desiderio di mia madre che vedesse la luce come un libro. Sono riuscito a realizzare questo desiderio grazie all’amico Federico Prizzi che cura una collana della NovAntico Editrice, solo dopo che entrambi i miei genitori sono passati nel Silenzio Solenne.

2) Può spiegare a coloro che non hanno ancora letto il libro l'origine e il significato del titolo “La rivista del bottino”?

Mi pare che questo sia ben spiegato nell’introduzione di Federico Prizzi e nella premessa, ovvero si tratta di un vocabolo del gergo militare che definisce l’inventario del materiale fornito dallo Stato e di cui il militare deve rispondere fino alla riconsegna alla fine del servizio (chi ha fatto il militare lo sa bene). Mio padre ha raccontato i suoi sessanta mesi di naja dando conto degli eventi accaduti, in modo anche ironico ed umoristico ed evitando volutamente considerazioni di tipo politico, quasi si trattasse di rendicontare le dotazioni ricevute.

3) Per suo padre la scelta di partire volontario per il fronte fu avvalorata dall'appoggio materno. Quanto fu determinante in ciò il clima familiare e quali valori gli erano stati trasmessi?

Mio padre era figlio di un ufficiale del Genio che combatté nella Prima Guerra Mondiale e che, per un caso, fu tra i primi sette ufficiali ad entrare in Trieste libera: mio nonno Mario, infatti, a fine guerra venne mandato in ricognizione su una macchina scoperta dotata di bandiera bianca con altri sei colleghi per vedere fin dove si fossero ritirati gli austriaci: si ritrovò inaspettatamente a Trieste. Lì conobbe mia nonna, discendente da una famiglia storica di Cortina d’Ampezzo, che aveva sentimenti irredentistici. Se a questo clima familiare assommiamo quella che fu l’educazione che poté ricevere dalle istituzioni del tempo, credo si possa così avere un quadro completo.

4) Facendo un confronto con gli attuali modelli educativi si evidenziano notevoli differenze. Secondo il suo parere quali sono i motivi di un così progressivo cambiamento?

Bella domanda! Qui, però ci vorrebbe una vita per rispondere, tanti e tali sono gli argomenti che si potrebbero portare per sottolineare le differenze. Diciamo semplicemente che mentre al tempo esisteva un’educazione familiare, che ormai si è smarrita, e poi un’educazione scolastica, ora gli insegnanti devono appena iniziare ad educare i bambini alle buone e sane abitudini che una volta venivano, appunto, dall’educazione familiare. Il clima dell’educazione nelle famiglie e anche scolastica risentiva, inoltre, del pathos patriottico risorgimentale: ricordiamo che la stessa Prima Guerra Mondiale era considerata la Quarta Guerra d’Indipendenza nazionale. Poi venne uno, Mussolini, che provò, una volta fatta l’Italia, a fare gli Italiani, per concludere amaramente che “governare gli Italiani non è difficile, è inutile”. Tuttavia dobbiamo rilevare che l’educazione impartita durante quegli anni tramite istituzioni quali il Ministero dell’Educazione Nazionale (è importante cogliere la differenza anche nel nome con l’attuale Ministero della Pubblica Istruzione…) è rimasta nel tempo anche dopo il 1945; infatti molti politici formatisi allora, portavano con sé comunque una formazione che si è proiettata inerzialmente negli anni successivi, sebbene poi questi abbiamo mutato le proprie idee ed ideali. Inoltre si dovrebbe aggiungere che mentre ante 1945 vi era spazio per tutto ciò che fosse spirituale e non semplicemente sentimental-religioso o materialistico, l’impronta imposta dai vincitori e da noi successivamente subita fu proprio con le caratteristiche di una vacua sentimentale religiosità, ora scaduta in un ancor più vuoto buonismo e in una forma di astratto intellettualismo con le stimmate del materialismo più gretto ed ottuso.

5) Le chiederei, se possibile, di specificare meglio la differenza che intercorre tra spirituale e sentimental-religioso?

Un’altra bella domanda cui rispondere non è facile! Beh, per prima cosa dobbiamo dire che non è possibile definire astrattamente lo spirituale. Sarebbe necessario percepirlo, praticando un’ascesi che conduca a ciò partendo dal pensiero ordinario di cui chiunque dispone e superandolo nell’attività pensante. In questo senso esiste la Via del Pensiero che Massimo Scaligero ha indicato nei Suoi libri. Un’opinione, in quanto tale, è “remota del perfetto”, come si potrebbe dire rammentando l’insegnamento del Canone buddhista. Non bisogna confondere un’opinione di natura religiosa che non supera l’ambito personale con lo spirituale che appartiene a tutti. Per rispondere compiutamente a questa domanda però, è necessario che la domanda non esprima mera curiosità ma una reale e intensa volontà di conoscenza; e le indicazioni non potrebbero non essere tali che portino l’“aspirante”, per così dire, da se stesso al livello in cui si è a ciò che di universale sta nel cosmo e, in considerazione dei tempi, in modo che l’approccio non sia meno scientifico di quanto si richiederebbe in qualsiasi altro campo dello scibile, sebbene il l’oggetto di questa conoscenza possa sembrare sfuggente e inafferrabile e la sua natura non riducibile ai parametri materiali (di peso, di misura, di divisione).

6) Torniamo al libro. Nonostante la drammaticità degli eventi narrati, lungo tutte le pagine si percepisce sempre una venatura ironica. Possiamo definirlo un punto di vista caratteristico di suo padre o la fedele descrizione di una gioventù spensierata che andò incontro alla guerra con una certa inconsapevolezza?

No, era una caratteristica propria di mio padre. Nella memorialistica di guerra credo che in effetti prevalgano gli aspetti più tetri e meno disincantati: con poche eccezioni, direi, come per esempio il celebre Diario clandestino di Guareschi.


Una vignetta di Guido Allasia


7) Scorrendo le pagine, possiamo godere di alcune simpatiche vignette ritraenti la vita militare sempre da un'angolatura umoristica. Dove nasce la passione di suo padre per il disegno? L’ha coltivata per tutta la sua vita?

Sì, mio padre ha sempre avuto una passione per il disegno e ha disegnato sempre per gli amici e per il periodico dell’Associazione dei reduci della Divisione Alpina Monterosa. È una passione che ha coltivato fino all’ultimo periodo della sua vita. Il libro è corredato da queste vignette, ma anche la copertina e il disegno sulla contro copertina, nonché le fotografie allegate sono sue. Ha amato il disegno da sempre, fin da molto giovane. Una curiosità: mio padre era mancino e scriveva con la sinistra, però disegnava con la destra.

8) Una volta inviato al fronte, dopo una breve parentesi in Montenegro ed Albania, suo padre subisce il “battesimo di fuoco” in Grecia. Qui racconta di un ufficiale inadeguato alla tensione dello scontro. Erano mancanze frequenti negli alti livelli dell'esercito?

Posso riferire quella che era l’opinione di mio padre, peraltro confermata dalla mia modesta esperienza di “storico non praticante”: in effetti le nostre gerarchie militari non si erano distinte, già nella Prima Guerra Mondiale, per acume e capacità. Allora, come temo ancora adesso, si faceva carriera per ragioni che esulavano dal merito, dall’abilità e dalla preparazione. Ricordo, inoltre, che mio padre spesso mi citava un libro del gen. Emilio Canevari sullo Stato maggiore tedesco (che peraltro ancora non ho avuto modo di leggere) in cui verrebbe dimostrato come a fronte dei nostri rari esempi di eccellenza, presso l’ufficialità germanica questa superiore scuola di guerra formava gli individui garantendo una base minima comune di ottimo livello.

9) Domanda secca. Come vissero suo padre e gli altri commilitoni la tragedia dell'8 settembre?

Credo sia ben descritto nel libro: prima con sconcerto in quanto appresero la notizia dai tedeschi con i quali fino alla sera prima erano alleati e commilitoni al fronte, poi con rabbia per il modo con cui le nostre autorità condussero la cosa senza tener conto delle truppe schierate su vari fronti accanto a quello che sarebbe dovuto diventare da un momento all’altro il nuovo nemico, infine con vergogna nei riguardi dei tedeschi. La maggior parte dei quadri degli ufficiali dei reparti alpini si ritrovarono poi nella Divisione Alpina Monterosa della RSI.

10) Sbagliamo nel dire che l'adesione di suo padre alla R.S.I. fu spontanea ed immediata? Ed è vero che non aderirono soltanto i fascisti più convinti?

Sì: mio padre aveva ricevuto un’educazione fascista ma, tutto sommato, direi che pensava più come un conservatore liberale che come un fascista. Ciò che si ribellò in lui all’obbrobrio, come fu chiamato, dell’8 settembre fu qualcosa che veniva dal suo essere più profondo cui era stato insegnato, ad esempio, il valore della parola data. Per questo la reazione della maggior parte dei commilitoni di mio padre e la sua stessa fu quella di continuare la guerra a fianco dei tedeschi, sebbene ancora non sapessero nemmeno come.

11) Quali furono i rapporti con l'alleato tedesco?

Credo buoni, anche se mio padre mi faceva notare le differenze di mentalità. Ad esempio mi raccontò di un episodio in cui il suo reparto, fermato da un crollo presso una galleria, non vide l’ora di potersi fermare a riposare. Di lì a poco sopraggiunse un sidecar della Wehrmacht che voleva passare a tutti i costi: ci volle del bello e del buono per convincere questi soldati tedeschi che non si poteva passare, mentre loro insistevano dicendo che dovevano passare per portare un qualche ordine ai propri commilitoni. Mentre gli Italiani, dunque, tendevano a pensare più a se stessi e, quindi, al proprio riposo, i tedeschi volevano proseguire a tutti i costi pensando che avrebbero potuto esser d’aiuto ad altri militari germanici. Individualismo e senso della collettività a confronto, potremmo dire.


Sottotenente Paolo Carlo Broggi


12) Tornato in Italia suo padre si trovò a combattere lungo la Linea Gotica. Il suo reparto sostenne gli scontri più accesi con l'esercito alleato. Vi furono episodi di scontro anche con i partigiani?

Sicuramente la divisione di cui fece parte mio padre ebbe qualche problema con i partigiani, tuttavia, per quanto lo riguarda, ebbe la fortuna di non doversi scontrare con altri Italiani. Purtroppo altri non furono così fortunati: per esempio possiamo qui ricordare la nobile ed eroica figura dell’alfiere della Monterosa, il sottotenente Paolo Carlo Broggi che venne ferito e catturato, dopo un conflitto a fuoco con un gruppo di partigiani e successivamente fucilato dopo un processo sommario: gli fu chiesto di rinnegare il giuramento fatto alla Repubblica Sociale Italiana (in cambio gli sarebbe stata salvata la vita), ma il valoroso ufficiale gridò davanti al plotone d’esecuzione: “L’Italia può fare a meno di me non del mio onore!”.


13) Alla fine della guerra fu imprigionato a Coltano (PI) insieme a tanti altri aderenti alla R.S.I. Cosa hanno significato per lui quei giorni di prigionia e con quale spirito li affrontò?

Cercò di sopravvivere il più decorosamente possibile, come molti prigionieri. Ricordo che raccontava di essersi occupato dell’orologio del campo che i prigionieri avevano realizzato con una serie di contrappesi e con un meccanismo idraulico. A differenza di altri, tra cui ricordo il capitano Carlo Giacomelli di Udine che riuscì ad evadere e tornare a casa, credo non abbia mai pensato di tentare la sorte con una fuga, anche perché fuori dal campo c’erano partigiani che non aspettavano altro che di poter mettere le mani su qualche fascista per manifestare la propria natura vile ed assassina, come purtroppo capitò a tanti. Ebbe come vicino di tenda il mitico comandante Edoardo Sala dei paracadutisti.


 La prigionia di Coltano attraverso la matita di Guido Allasia


14) Per concludere possiamo dire con certezza che l'esperienza della guerra, in un modo o nell'altro, ha segnato profondamente l'intera generazione di suo padre. Vorremmo chiederle quali furono le sue attività post-belliche? Fu protagonista della vita politica della prima repubblica?


Nell’immediato dopoguerra si ritrovò con altri alpini della Monterosa e, accanto alle immancabili cantate e bevute, organizzarono una associazione che raccogliesse i reduci, che perpetrasse il ricordo dei Caduti, che potesse essere d’aiuto a chi era ancora prigioniero, alle famiglie di chi era rimasto invalido o mutilato oppure di chi era stato privato di ogni sostegno dalla morte di un monterosino. Arrivarono addirittura ad avere un così alto senso del dovere e dello Stato da autotassarsi per pagare a vedove o invalidi una misera pensione di sopravvivenza, laddove la Repubblica antifascista non era disposta a riconoscere nulla a chi era stato dalla parte perdente. Non ebbe invece alcun ruolo di tipo politico; a posteriori, direi, saggiamente, visto quel che han dimostrato di essere i politici, purtroppo anche molti di quelli cosiddetti “di area”.