Questa
intervista nasce dalla
volontà di presentare ai nostri lettori un libro di memorialistica
sulla IIª
Guerra Mondiale
scritto
da Guido Allasia, classe
1921, volontario negli alpini e poi aderente alla R.S.I. Il libro di
colui che viene giustamente definito dal curatore dell'edizione,
Federico Prizzi, “il Guareschi Repubblicano”, è un volume
postumo (Guido è morto nel 2001) la cui pubblicazione è stata
fortemente voluta dal figlio Marco. A lui il nostro sodale Francesco
Preziuso ha posto una serie d'interessanti domande
con l'obbiettivo non solo di stimolare i nostri lettori ad immergersi
tra le pagine di questo prezioso testo, ma anche di gettare un
ulteriore sguardo su un pezzo di storia italiana per troppo tempo
nascosto nell'ombra.
Gruppo
di Studio AVSER
1)
Per prima cosa vorremmo chiederle come e quando nasce in suo padre
l'idea di scrivere questo libro?
Si
tratta, in verità, non di un libro vero e proprio, bensì di una
specie di taccuino di ricordi dedicato ai commilitoni che mio padre
scrisse una volta andato in pensione. In realtà in origine non era
destinato a un vasto pubblico e mio padre ne fece girare qualche
fotocopia tra gli amici. Era desiderio di mia madre che vedesse la
luce come un libro. Sono riuscito a realizzare questo desiderio
grazie all’amico Federico Prizzi che cura una collana della
NovAntico Editrice, solo dopo che entrambi i miei genitori sono
passati nel Silenzio Solenne.
2)
Può spiegare a coloro che non hanno ancora letto il libro l'origine
e il significato del titolo “La
rivista del bottino”?
Mi
pare che questo sia ben spiegato nell’introduzione di Federico
Prizzi e nella premessa, ovvero si tratta di un vocabolo del gergo
militare che definisce l’inventario del materiale fornito dallo
Stato e di cui il militare deve rispondere fino alla riconsegna alla
fine del servizio (chi ha fatto il militare lo sa bene). Mio padre ha
raccontato i suoi sessanta mesi di naja
dando conto degli eventi accaduti, in modo anche ironico ed
umoristico ed evitando volutamente considerazioni di tipo politico,
quasi si trattasse di rendicontare le dotazioni ricevute.
3)
Per suo padre la scelta di partire volontario per il fronte fu
avvalorata dall'appoggio materno. Quanto fu determinante in ciò il
clima familiare e quali valori gli erano stati trasmessi?
Mio
padre era figlio di un ufficiale del Genio che combatté nella Prima
Guerra Mondiale e che, per un caso, fu tra i primi sette ufficiali ad
entrare in Trieste libera: mio nonno Mario, infatti, a fine guerra
venne mandato in ricognizione su una macchina scoperta dotata di
bandiera bianca con altri sei colleghi per vedere fin dove si fossero
ritirati gli austriaci: si ritrovò inaspettatamente a Trieste. Lì
conobbe mia nonna, discendente da una famiglia storica di Cortina
d’Ampezzo, che aveva sentimenti irredentistici. Se a questo clima
familiare assommiamo quella che fu l’educazione che poté ricevere
dalle istituzioni del tempo, credo si possa così avere un quadro
completo.
4)
Facendo un confronto con gli attuali modelli educativi si evidenziano
notevoli differenze. Secondo il suo parere quali sono i motivi di un
così progressivo cambiamento?
Bella
domanda! Qui, però ci vorrebbe una vita per rispondere, tanti e tali
sono gli argomenti che si potrebbero portare per sottolineare le
differenze. Diciamo semplicemente che mentre al tempo esisteva
un’educazione familiare, che ormai si è smarrita, e poi
un’educazione scolastica, ora gli insegnanti devono appena iniziare
ad educare i bambini alle buone e sane abitudini che una volta
venivano, appunto, dall’educazione familiare. Il clima
dell’educazione nelle famiglie e anche scolastica risentiva,
inoltre, del pathos
patriottico risorgimentale: ricordiamo che la stessa Prima Guerra
Mondiale era considerata la Quarta Guerra d’Indipendenza nazionale.
Poi venne uno, Mussolini, che provò, una volta fatta l’Italia, a
fare gli Italiani, per concludere amaramente che “governare gli
Italiani non è difficile, è inutile”. Tuttavia dobbiamo rilevare
che l’educazione impartita durante quegli anni tramite istituzioni
quali il Ministero dell’Educazione Nazionale (è importante
cogliere la differenza anche nel nome con l’attuale Ministero della
Pubblica Istruzione…) è rimasta nel tempo anche dopo il 1945;
infatti molti politici formatisi allora, portavano con sé comunque
una formazione che si è proiettata inerzialmente negli anni
successivi, sebbene poi questi abbiamo mutato le proprie idee ed
ideali. Inoltre si dovrebbe aggiungere che mentre ante 1945 vi era
spazio per tutto ciò che fosse spirituale e non semplicemente
sentimental-religioso o materialistico, l’impronta imposta dai
vincitori e da noi successivamente subita fu proprio con le
caratteristiche di una vacua sentimentale religiosità, ora scaduta
in un ancor più vuoto buonismo e in una forma di astratto
intellettualismo con le stimmate del materialismo più gretto ed
ottuso.
5)
Le chiederei, se possibile, di specificare meglio la differenza che
intercorre tra spirituale
e sentimental-religioso?
Un’altra
bella domanda cui rispondere non è facile! Beh, per prima cosa
dobbiamo dire che non è possibile definire astrattamente lo
spirituale. Sarebbe necessario percepirlo, praticando un’ascesi che
conduca a ciò partendo dal pensiero ordinario di cui chiunque
dispone e superandolo nell’attività pensante. In questo senso
esiste la Via del Pensiero che Massimo Scaligero ha indicato nei Suoi
libri. Un’opinione, in quanto tale, è “remota del perfetto”,
come si potrebbe dire rammentando l’insegnamento del Canone
buddhista. Non bisogna confondere un’opinione di natura religiosa
che non supera l’ambito personale con lo spirituale che appartiene
a tutti. Per rispondere compiutamente a questa domanda però, è
necessario che la domanda non esprima mera curiosità ma una reale e
intensa volontà di conoscenza; e le indicazioni non potrebbero non
essere tali che portino l’“aspirante”, per così dire, da se
stesso al livello in cui si è a ciò che di universale sta nel cosmo
e, in considerazione dei tempi, in modo che l’approccio non sia
meno scientifico di quanto si richiederebbe in qualsiasi altro campo
dello scibile, sebbene il l’oggetto di questa conoscenza possa
sembrare sfuggente e inafferrabile e la sua natura non riducibile ai
parametri materiali (di peso, di misura, di divisione).
6)
Torniamo al libro. Nonostante la drammaticità degli eventi narrati,
lungo tutte le pagine si percepisce sempre una venatura ironica.
Possiamo definirlo un punto di vista caratteristico di suo padre o la
fedele descrizione di una gioventù spensierata che andò incontro
alla guerra con una certa inconsapevolezza?
No,
era una caratteristica propria di mio padre. Nella memorialistica di
guerra credo che in effetti prevalgano gli aspetti più tetri e meno
disincantati: con poche eccezioni, direi, come per esempio il celebre
Diario
clandestino
di Guareschi.
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Una vignetta di Guido Allasia |
7)
Scorrendo le pagine, possiamo godere di alcune simpatiche vignette
ritraenti la vita militare sempre da un'angolatura umoristica. Dove
nasce la passione di suo padre per il disegno? L’ha coltivata per
tutta la sua vita?
Sì,
mio padre ha sempre avuto una passione per il disegno e ha disegnato
sempre per gli amici e per il periodico dell’Associazione dei
reduci della Divisione Alpina Monterosa.
È una passione che ha coltivato fino all’ultimo periodo della sua
vita. Il libro è corredato da queste vignette, ma anche la copertina
e il disegno sulla contro copertina, nonché le fotografie allegate
sono sue. Ha amato il disegno da sempre, fin da molto giovane. Una
curiosità: mio padre era mancino e scriveva con la sinistra, però
disegnava con la destra.
8)
Una volta inviato al fronte, dopo una breve parentesi in Montenegro
ed Albania, suo padre subisce il “battesimo di fuoco” in Grecia.
Qui racconta di un ufficiale inadeguato alla tensione dello scontro.
Erano mancanze frequenti negli alti livelli dell'esercito?
Posso
riferire quella che era l’opinione di mio padre, peraltro
confermata dalla mia modesta esperienza di “storico non
praticante”: in effetti le nostre gerarchie militari non si erano
distinte, già nella Prima Guerra Mondiale, per acume e capacità.
Allora, come temo ancora adesso, si faceva carriera per ragioni che
esulavano dal merito, dall’abilità e dalla preparazione. Ricordo,
inoltre, che mio padre spesso mi citava un libro del gen. Emilio
Canevari sullo Stato maggiore tedesco (che peraltro ancora non ho
avuto modo di leggere) in cui verrebbe dimostrato come a fronte dei
nostri rari esempi di eccellenza, presso l’ufficialità germanica
questa superiore scuola di guerra formava gli individui garantendo
una base minima comune di ottimo livello.
9)
Domanda secca. Come vissero suo padre e gli altri commilitoni la
tragedia dell'8 settembre?
Credo
sia ben descritto nel libro: prima con sconcerto in quanto appresero
la notizia dai tedeschi con i quali fino alla sera prima erano
alleati e commilitoni al fronte, poi con rabbia per il modo con cui
le nostre autorità condussero la cosa senza tener conto delle truppe
schierate su vari fronti accanto a quello che sarebbe dovuto
diventare da un momento all’altro il nuovo nemico, infine con
vergogna nei riguardi dei tedeschi. La maggior parte dei quadri degli
ufficiali dei reparti alpini si ritrovarono poi nella Divisione
Alpina Monterosa
della RSI.
10)
Sbagliamo nel dire che l'adesione di suo padre alla R.S.I. fu
spontanea ed immediata? Ed è vero che non aderirono soltanto i
fascisti più convinti?
Sì:
mio padre aveva ricevuto un’educazione fascista ma, tutto sommato,
direi che pensava più come un conservatore liberale che come un
fascista. Ciò che si ribellò in lui all’obbrobrio, come fu
chiamato, dell’8 settembre fu qualcosa che veniva dal suo essere
più profondo cui era stato insegnato, ad esempio, il valore della
parola data. Per questo la reazione della maggior parte dei
commilitoni di mio padre e la sua stessa fu quella di continuare la
guerra a fianco dei tedeschi, sebbene ancora non sapessero nemmeno
come.
11)
Quali furono i rapporti con l'alleato tedesco?
Credo
buoni, anche se mio padre mi faceva notare le differenze di
mentalità. Ad esempio mi raccontò di un episodio in cui il suo
reparto, fermato da un crollo presso una galleria, non vide l’ora
di potersi fermare a riposare. Di lì a poco sopraggiunse un sidecar
della Wehrmacht che voleva passare a tutti i costi: ci volle del
bello e del buono per convincere questi soldati tedeschi che non si
poteva passare, mentre loro insistevano dicendo che dovevano passare
per portare un qualche ordine ai propri commilitoni. Mentre gli
Italiani, dunque, tendevano a pensare più a se stessi e, quindi, al
proprio riposo, i tedeschi volevano proseguire a tutti i costi
pensando che avrebbero potuto esser d’aiuto ad altri militari
germanici. Individualismo e senso della collettività a confronto,
potremmo dire.
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Sottotenente Paolo Carlo Broggi |
12)
Tornato in Italia suo padre si trovò a combattere lungo la Linea
Gotica. Il suo reparto sostenne gli scontri più accesi con
l'esercito alleato. Vi furono episodi di scontro anche con i
partigiani?
Sicuramente
la divisione di cui fece parte mio padre ebbe qualche problema con i
partigiani, tuttavia, per quanto lo riguarda, ebbe la fortuna di non
doversi scontrare con altri Italiani. Purtroppo altri non furono così
fortunati: per esempio possiamo qui ricordare la nobile ed eroica
figura dell’alfiere della Monterosa,
il sottotenente Paolo Carlo Broggi che venne ferito e catturato, dopo
un conflitto a fuoco con un gruppo di partigiani e successivamente
fucilato dopo un processo sommario: gli fu chiesto di rinnegare il
giuramento fatto alla Repubblica Sociale Italiana (in cambio gli
sarebbe stata salvata la vita), ma il valoroso ufficiale gridò
davanti al plotone d’esecuzione: “L’Italia può fare a meno di
me non del mio onore!”.
13)
Alla fine della guerra fu imprigionato a Coltano (PI) insieme a tanti
altri aderenti alla R.S.I. Cosa hanno significato per lui quei giorni
di prigionia e con quale spirito li affrontò?
Cercò
di sopravvivere il più decorosamente possibile, come molti
prigionieri. Ricordo che raccontava di essersi occupato dell’orologio
del campo che i prigionieri avevano realizzato con una serie di
contrappesi e con un meccanismo idraulico. A differenza di altri, tra
cui ricordo il capitano Carlo Giacomelli di Udine che riuscì ad
evadere e tornare a casa, credo non abbia mai pensato di tentare la
sorte con una fuga, anche perché fuori dal campo c’erano
partigiani che non aspettavano altro che di poter mettere le mani su
qualche fascista per manifestare la propria natura vile ed assassina,
come purtroppo capitò a tanti. Ebbe come vicino di tenda il mitico
comandante Edoardo Sala dei paracadutisti.
La prigionia di Coltano attraverso la matita di Guido Allasia |
14)
Per concludere possiamo dire con certezza che l'esperienza della
guerra, in un modo o nell'altro, ha segnato profondamente l'intera
generazione di suo padre. Vorremmo chiederle quali furono le sue
attività post-belliche? Fu protagonista della vita politica della
prima repubblica?
Nell’immediato
dopoguerra si ritrovò con altri alpini della Monterosa
e, accanto alle immancabili cantate e bevute, organizzarono una
associazione che raccogliesse i reduci, che perpetrasse il ricordo
dei Caduti, che potesse essere d’aiuto a chi era ancora
prigioniero, alle famiglie di chi era rimasto invalido o mutilato
oppure di chi era stato privato di ogni sostegno dalla morte di un
monterosino. Arrivarono addirittura ad avere un così alto senso del
dovere e dello Stato da autotassarsi per pagare a vedove o invalidi
una misera pensione di sopravvivenza, laddove la Repubblica
antifascista non era disposta a riconoscere nulla a chi era stato
dalla parte perdente. Non ebbe invece alcun ruolo di tipo politico; a
posteriori, direi, saggiamente, visto quel che han dimostrato di
essere i politici, purtroppo anche molti di quelli cosiddetti “di
area”.
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