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mercoledì 4 novembre 2015

IL RISORGIMENTO PERDUTO - Maria Cipriano

Cari lettori e carissimi amici,
quando a marzo pubblicammo l'introduzione al nuovo corso dell'AVSER facemmo appello a tutti “gli italiani di buon cuore” affinché dessero un loro contributo culturale alla comune causa. Se non abbiamo raccolto adesioni al progetto, è colpa nostra. L'esser cani sciolti fuori da ogni associazione o partito e gli impegni di lavoro che ci lasciano poco tempo da dedicare al gruppo di studio, hanno giocato la loro parte. E' giusto recitare un piccolo mea culpa di fronte all'assenza di nuovi collaboratori. Assenza che però si è finalmente interrotta questa estate, quando aprendo la posta elettronica del gruppo abbiamo trovato il messaggio di una valente studiosa del Risorgimento desiderosa di darci manforte: Maria Cipriano. Appurata la nostra affinità ideale, ci siamo detti pronti ad un'immediata collaborazione, ma varie vicissitudini non ci hanno permesso di pubblicare subito l'articolo che ci aveva proposto. Abbiamo dovuto attendere fino ad oggi un suo nuovo scritto. E posso dire, in tutta sincerità, che mai attesa fu più giustificata. Di contro alle imperanti tesi di un Risorgimento sordido, fatto più al tavolino che sul campo di battaglia, voluto da forze “occulte” ed estraneo alla popolazione, Maria Cipriano smonta questi luoghi comuni ricordando i tanti sacrifici, le condanne, il sangue, il dolore con cui fu lastricato il lungo cammino verso la nostra indipendenza Nazionale. Questo è stato il Risorgimento italiano: un ideale partito da lontano che, come un sordo mormorio, ha attraversato i secoli mantenendosi vivo di generazione in generazione fino al momento decisivo. Un lume che non si è spento neanche con la IIIª guerra d'indipendenza, alimentando le speranze e le giuste rivendicazioni delle terre irredente che ancora languivano sotto il tallone straniero. Ed è per questo che lo pubblichiamo oggi, 4 novembre giornata della Vittoria, giacché la prima guerra mondiale fu anche la nostra IVª guerra d'indipendenza, il giusto prosieguo del Risorgimento. Bisogna gridarlo forte in faccia a tutti i denigratori che sputano sulla nostra storia. Oggi più che mai abbiamo bisogno di recuperare una memoria offuscata da anni ed anni di menzogne. Ne va della nostra salvezza.
Concludo con un breve augurio: che la voce della signora Cipriano spezzi gli indugi e sia la prima strofa di un grande canto polifonico di cui l'Avser si faccia promotore per ridestare l'Italia e gli italiani dal grigio tepore in cui gravitano.
Buona lettura a tutti!


Sandro Righini


IL RISORGIMENTO PERDUTO


Francesco Saverio Altamura (1822-1897) La prima bandiera italiana portata a Firenze 1859

A chi conosce il Risorgimento solo per sentito dire o attingendo qua e là in ordine sparso da fonti non fededegne, farà specie sapere che esso non si esaurì in tre guerre d'indipendenza e poco altro, ma fu una lunga e tormentata epopea di morti ammazzati, torturati, perseguitati, bastonati, avvelenati, strangolati, incatenati nelle segrete, incarcerati in celle pullulanti di insetti e topi, segregati per giorni al buio senza mangiare, appesi alle corde, braccati da più polizie, esiliati, ridotti in miseria, al nord, al centro e al sud della penisola, costellata da fortezze e lugubri carceri nei quali quasi sempre i patrioti erano gettati assieme ai delinquenti comuni; né, senza tanto sacrificio e coraggio, il Risorgimento avrebbe potuto men che meno incominciare e figuriamoci concludersi nel 1870, con la presa di Roma, che toglieva al Papato il plurisecolare osso del potere temporale. Proprio perché il coraggio di quelle infinite schiere di persone eroiche noi ce lo sogniamo, è bene accennarne, se pur fuggevolmente, se non altro per rendersi conto che tutti i traguardi richiedono un prezzo, a maggior ragione se sono alti.
E l'unificazione dell'Italia, anzi la sua ri-unificazione, fu uno dei traguardi più alti e più difficili, se non impossibili, da raggiungere, di tutta la sua Storia, perché troppo forti interessi congiuravano per mantenere la divisione e dunque lo stato di debolezza della penisola che così molto più facilmente poteva essere spolpata dei suoi beni e delle sue risorse. Di conseguenza, la riunificazione, pur rientrando in vario modo nei pensieri degli italiani, restò sempre un miraggio. Diversi tentativi anche risoluti e illustri si annoverano in tal senso, come quello del re di Napoli Ladislao d'Angiò che entrò in Roma accolto dalla popolazione festante, o del Duca di Milano GianGaleazzo Visconti che si fregiò di una corona e di uno scettro regale, rispettivamente nel XV° e nel XIV° secolo, ma non furono coronati da successo. Anche la vasta congiura del toscano Francesco Burlamacchi che, dietro la Toscana, contemplava una Repubblica italiana, finì repressa nel sangue nel XVI° secolo, e il nobile coraggio del medesimo che si fece catturare e resistette alle torture col fuoco per permettere agli altri di salvarsi, è rimasto tramandato negli Annali della Storia d'Italia.
Scriveva il toscano Atto Vannucci nel 1877, in occasione della ristampa del suo libro “I martiri della libertà italiana”: “I frutti della libertà di cui godiamo furono coltivati sul nostro suolo con lunghi e mortali dolori. Non vi fu quasi paese straniero che non fosse pieno dei nostri esiliati. In Italia non vi fu carcere che non fu santificato dai patimenti degli uomini più generosi, non vi è palmo di terreno non bagnato dal sangue dei martiri della libertà. Il martirio fu perpetuo fra noi: i padri lo lasciarono ai figli, i quali accettarono arditamente l'eredità e la tramandarono alle generazioni novelle.”
Contro la riunificazione dell'Italia si levavano ostacoli tali e altrettanti interessi contrari, che se i patrioti del Risorgimento avessero dovuto tenerne conto, avrebbero immediatamente desistito e fatto marcia indietro. Tennero duro, invece. Insistettero. Perseverarono. Anzi si moltiplicarono. Incuranti delle rovine che piovevano loro addosso, incuranti delle fatiche, delle scomuniche, dei patimenti che la lotta per l'Italia assicurava a sè e alle rispettive famiglie.
Silvio Spaventa, uno dei massimi protagonisti meridionali del Risorgimento, scolpiva a tal proposito queste bellissime parole: “Quanta meraviglia di eventi nel periodo storico del Risorgimento italiano e quanti uomini! Grandiosi gli eventi, ma uomini uguali se non maggiori degli stessi eventi. Nei ricordi della loro vita sono raffigurate le vicende della Patria; dalle loro virtù, dal loro carattere e dalle loro individualità emanarono le influenze che decisero i nostri destini. Evocando quei ricordi si rivive, perché si sente il palpito dell'Italia in tutte le vicende della sua formazione e del suo compimento, nella maestà dei suoi dolori e dei suoi gaudi, nelle ansietà e nelle trepidazioni dei giorni avversi, nella serenità e nei conforti dei giorni propizi, nei suoi timori e nelle sue speranze; perché si contempla lo spettacolo di una nazione prostrata che vuol risorgere, e risorge.”
Così scriveva un uomo colto di origini agiate che avrebbe potuto vivere tranquillamente a casa sua in Abruzzo, e invece a 27 anni, dopo aver subito minacce, aggressioni e intimidazioni a causa del suo giornale “il Nazionale”, fu arrestato dalla polizia borbonica, sottoposto a lungo e doloroso processo assieme ad altre 44 persone, condannato a morte, infine confinato nell'ergastolo dell'isola di Santo Stefano, da dove non si lasciò mai sfuggire un lamento, una recriminazione, un cedimento. Prelevato dopo sei anni per essere deportato in America con altri infelici in tristi condizioni, per un audace colpo di mano del figlio di Luigi Settembrini (compagno di cella dello Spaventa) che di nascosto era salito a bordo travestito da marinaio, la nave fu dirottata in Irlanda con la complicità di alcuni ufficiali stranieri, e i prigionieri poterono fuggire; da lì Spaventa, con molti altri, si recò in Inghilterra dove Cavour lo incaricò di mettersi in contatto con altri esuli per sensibilizzare l'opinione pubblica inglese alla causa italiana, e quindi trovò definitivo rifugio nell'accogliente e generosa Torino dove potè riabbracciare l'amato fratello Bertrando, anche lui esiliato.
Le vicende del Risorgimento sono così ampie e numerose, e richiedono tale studio e tali approfondimenti, che le sparate improvvisate dei denigratori, mai come in questo tempo attivi e agguerriti, sulle quali poggiano i ben noti luoghi comuni in materia, muovono al riso gli esperti, i quali ben sanno quali e quante forze esso smosse, scatenò e continuò a scatenare anche dopo la sua formale conclusione, nel 1870, con la presa di Roma. Anzi: a leggere i documenti del Risorgimento si rimane fatalmente travolti e coinvolti dalle sue cronache e i suoi resoconti, e altresì sbalorditi, impressionati e perfino increduli di fronte al coraggio, al disinteresse, allo sprezzo del pericolo e alla generosità gratuita dei suoi protagonisti. Tutto il Risorgimento strabocca di personaggi come il generale Giacomo Antonini, piemontese, che, ferito gravemente durante una sortita contro gli Austriaci durante la difesa di Vicenza nel 1848, mentre gli amputavano il braccio con mezzi di fortuna, gridava “Viva l'Italia!”. Nessuno li obbligava a volere l'Italia. Nessuna retribuzione o premio era previsto. Solo dolori, fatiche, miseria e facilmente la morte. Eppure fortissimamente la vollero.
Federico Seismit-Doda, uno dei più noti patrioti dalmati, fu testimone in prima persona e partecipe diretto delle eroiche e purtroppo tragiche vicende della guerra d'indipendenza, conclusasi una prima volta nel luglio del 1848 con la sconfitta di Custoza, che pure terminò con la leggendaria carica del Genova Cavalleria contro gli Ulani austriaci che tentavano scompigliare l'ordinato ripiegamento dei piemontesi da Volta mantovana a Goito. In quell'occasione egli scrisse cosa avveniva al riapprossimarsi degli austriaci assetati di vendetta: “Tutti i cittadini fuggirono. Madri con bambini lattanti, vecchi, infermi, ragazzi, un'intera popolazione esulò fuggendo ai massacri, ai saccheggi e alle rapine dei barbari, forti dei loro cannoni. Ottantamila lombardi riparavano in Svizzera quando gli austriaci la mattina del 6 agosto 1848 rimettevano piede a Milano, e fra loro c'ero anch'io.”
Il Risorgimento è dunque tragedia eroica, di fronte alla quale bisogna aver il pudore di tacere, se non si sa cosa dire. Nell'interminabile suo rosario di vite umane spese per l'Italia, moltissime ignote, anche Mazzini condusse un'esistenza grama e raminga, interamente votata alla causa, e Garibaldi non fu da meno, braccato da più polizie e con una taglia salatissima messa sulla sua testa dagli Austriaci che non riuscì a corrompere nessuno, tanta era la devozione che gli Italiani gli portavano, pronti tutti a nasconderlo ovunque. Nè si creda che Cavour sia vissuto tranquillo a Torino: che le cure per l'Unità d'Italia assorbirono completamente le sue forze (e le finanze dello Stato sabaudo), al punto da portarlo alla tomba precocemente, solo tre mesi dopo la proclamazione del Regno d'Italia. Infine Re Vittorio Emanuele II rischiò più volte il trono, soltanto a dichiarare guerra all'Austria nel 1859, ben consapevole che un passo falso e un calcolo sbagliato avrebbe portato al crollo della sua dinastia e alla perdita di tutti i territori. L'incubo di un'invasione da parte delle potenze europee turbò peraltro i sonni suoi e del Cavour durante tutto il corso del Risorgimento, acuendosi proprio dopo la seconda guerra d'indipendenza, quando la Francia, bramosa di ricavare il maggior utile possibile dalle travagliate vicende italiane che l'avevano dissanguata sui campi di battaglia di Magenta e Solferino, non ritirava il corpo di spedizione dalla Lombardia, minacciando anzi di spostarlo a Bologna e nelle Romagne con continui ricatti. I documenti parlano fin troppo chiaro: tra questi la famosa nota del ministro degli Esteri francese Thouvenel all'ambasciatore di Francia a Torino barone di Talleyrand, del febbraio 1860, nella quale il Cavour poté leggervi le condizioni della Francia, le sue pretese, il suo rifiuto di un'Italia unita, ed anzi addirittura le sue larvate minacce che alludevano a un intervento delle Potenze europee e a un isolamento internazionale del Piemonte, lasciando intendere che l'Europa non avrebbe digerito il nascere di una nuova potenza quale l'Italia rischiava di diventare. In quel documento, la Francia, facendosi interprete dei voti e dei timori delle potenze europee, Austria e Inghilterra compresa, concedeva solo l'annessione dei Ducati di Parma, Modena e Piacenza, escludendo recisamente l'annessione del Granducato di Toscana, dell'Umbria e delle Romagne che dovevano rimanere com'erano, o, tutt'al più, queste ultime, venire governate da un non meglio precisato “vicariato” di Torino. Neanche lontanamente si prendeva in considerazione il Regno delle due Sicilie né a maggior ragione Roma, il Lazio e le Marche, territori che solo l'astuzia del Cavour era riuscito a far credere fossero esclusi dai programmi, quando decine di migliaia di esuli di tutte le regioni fremevano tra Malta e il Piemonte o in altri luoghi all'estero, e altrettanti dentro gli ergastoli e nella clandestinità, attendendo impazienti l'ora della riscossa. Alle grandi capacità di Cavour e di Vittorio Emanuele II si deve dunque se, nel giro di solo pochi mesi, accadde esattamente il contrario di ciò che la Francia aveva ordinato e disposto con la sua nota del febbraio 1860.
Il Cavour capì che doveva anzitutto liberarsi del corpo militare francese e trattare con Napoleone III, e, dopo aver cercato di evitare la cessione di Nizza e della Savoia offrendo altre contropartite, fu costretto a cederle come “merce” di scambio per lasciare a Torino campo libero, come infatti precisamente accadde. Una volta ritirate le truppe, Napoleone III si trovò impossibilitato a reagire quando capì che i programmi di Torino andavano molto al di là del previsto e prevedibile. Inoltre, la cessione di Nizza e della Savoia, perfezionatasi fra il marzo e l'aprile di quello stesso anno, aveva messo di malumore tutta l'Europa, anche l'Austria, creando dissapori con Parigi e una situazione difficile per Napoleone III. Tutti i giornali europei contestarono l'”accaparramento” da parte della Francia dei territori nizzardi e savoiardi che per secoli erano stati parte integrante del Ducato di Savoia, sbugiardando i plebisciti falsi e truccati e le “sceneggiate” messe in piedi da Parigi, mentre più di 10.000 italiani abbandonavano la Contea di Nizza, e quasi altrettanti la Savoia, costernati per quell'annessione. La ragion di Stato aveva sacrificato quegli aviti e bellissimi territori, abitati da popolazioni miti, operose e fedeli, ed è doveroso rivolgere ad esse, ancora oggi, un pensiero deferente e un ricordo permanente, soprattutto di fronte alle volgari prese di posizione anti-Risorgimentali del nostro tempo, o a chi crede addirittura Nizza e la Savoia fossero più francesi che italiane. A testimonianza di quanto fosse vero il contrario, già nel gennaio del 1860, la popolazione savoiarda, messa in allarme da voci circolanti di un passaggio alla Francia, aveva organizzato una imponente manifestazione di molte migliaia di persone nella piccola Ciamberì capitale della Savoia (così allora si chiamava l'odierna Chambery francese), in cui, pur sotto una fitta neve, con alla testa i 24 delegati di tutta la regione (che era vasta il triplo della Valle d'Aosta) ognuno reggente un Tricolore, si presentarono dal governatore, il marchese Orso Serra, per esigere ragguagli e leggergli una dichiarazione in cui si affermava testualmente la volontà dei savoiardi “di continuare a far parte degli stati della casa di Savoia di cui la nostra terra è stata la culla e di cui i nostri padri hanno seguito per otto secoli i gloriosi destini.” Il marchese in buona fede rispose che era impossibile che la Savoia fosse ceduta alla Francia e lesse a sua volta un telegramma di Cavour in cui recisamente questi negava la cessione (essendo allora anche lui convinto di poterla senz'altro evitare).
A questo proposito, è d'uopo precisare che l'idioma del ceppo franco-provenzale simile al valdostano in uso in quelle zone non significava che quelle zone non si sentissero italiane, trattandosi di territori il cui gravitare verso l'Italia era dovuto al persistere di reminiscenze Romane, le quali avevano creato un baluardo ideale al prevalere della Francia che, in quanto territorio dei Franchi, era sempre stata considerata estranea e straniera dalle popolazioni di origine provenzale a ridosso del confine occidentale dell'Italia, che si vantavano Romane. Non a caso le rivolte contro i Franchi in quelle terre continuarono fino alle soglie del Medio Evo, e il prevalere della lingua fu un fatto solo contingente. La Savoia e la Contea di Nizza, dopo la caduta di Roma, si volsero spontaneamente alla madre-Italia, e cederle fu come cedere un pezzo di quel cuore Romano che ancora batteva. Ciò nonostante esisteva un partito separatista francese molto attivo, lautamente foraggiato da Parigi e telecomandato dai servizi segreti francesi, il quale senza posa fomentava il distacco di quei territori dall'Italia. Ma, quanto questo distacco fosse artificiale e forzato, lo dimostrano proprio gli eventi che seguirono alla cessione di Nizza e la Savoia. A Nizza ci volle la proclamazione dello stato d'assedio per domare un'insurrezione popolare che reclamava la riunione all'Italia, e in Savoia furono mandati 10.000 armati per sedare un analogo moto popolare di vaste proporzioni che reclamava il ritorno alla madrepatria. Ancora oggi in entrambi questi territori i malumori non sono cessati e sono sorti movimenti politici che chiedono il distacco dalla Francia e guardano con simpatia all'Italia, proponendo un referendum.
Dunque, a coloro che di fronte al Risorgimento sorridono come fosse una favoletta, sarà bene ricordare che la sua tragicità fu smussata solo dal fatto che si trattò di una vicenda epica, dunque intollerante ai pianti e ai lai, ma degna solo di stoica e perpetua ammirazione. Una tragedia che continuò anche dopo la riunificazione, non solo perché essa non fu completa bensì orbata di diversi territori, ma anche perché le potenze europee, anche quelle che apparentemente avevano fatto mostra di appoggiare il Risorgimento, non vedevano certo di buon occhio il nuovo intraprendente Stato ubicato in posizione strategica al centro del Mediterraneo, ansioso di sedersi al tavolo del potere mondiale rivendicando la propria parte, e cercarono in varie maniere di boicottarlo.
L'anima fondamentalmente repubblicana del Risorgimento, carbonara e democratica, divenne -salvo una fronda di irriducibili- monarchica e fedele alla dinastia e ciò fu determinante per la stabilità e la tenuta dello Stato. La maggioranza degli Italiani si rese conto che senza i Savoia, senza i loro ministri, i loro piani, la loro diplomazia, i loro soldi e il loro esercito organizzato e fedele, sarebbe continuato ad accadere ciò che Cavour rimproverava a Mazzini: “Voi mandate a morire stuoli dei nostri giovani per nulla.” Erano i normali contrasti fra due grandi uomini, s'intende, ognuno dei quali fece la sua parte per l'Italia, contrasti anche forti che però non ebbero mai la meglio sul traguardo supremo da raggiungere: l'indipendenza e l'unità della Patria.
Scrisse a questo proposito Mazzini nella sua opera “I doveri dell'uomo”: “Senza Patria, voi non avete nome, né segno né voto né diritti né battesimo di fratelli fra i popoli. Siete i bastardi dell'umanità. Soldati senza bandiera, israeliti delle nazioni, voi non otterrete fede né protezione: non avrete mallevadori. Né v'illudete a compiere, se prima non vi conquistate una Patria, la vostra emancipazione da una ingiusta condizione sociale.”
E Cavour scrisse nel suo saggio “Des chemins de fer en Italie” (le ferrovie in Italia): “la storia di tutti i tempi prova che nessun popolo può raggiungere un alto grado d'intelligenza e di moralità senza che il sentimento della sua nazionalità sia fortemente sviluppato: in un popolo che non può essere fiero della sua nazionalità, il sentimento della dignità personale esisterà solo eccezionalmente in alcuni individui privilegiati. Le classi numerose che occupano le posizioni più umili nella sfera sociale hanno bisogno di sentirsi grandi dal punto di vista nazionale per acquistare la coscienza della propria dignità.”
Parole che oggi suonano risibili nel clima da Risorgimento perduto in cui ci troviamo: un clima fatuo e babelico di smemoratezza e ignoranza, dove al venir meno dell'identità nazionale si accompagna il relativismo culturale e morale e il tradimento delle classi subalterne, in un fatale sgretolarsi dei valori, dei principi e delle conquiste, sociali e politiche, ottenute fin qui a prezzo di tanti immani sacrifici.

Maria Cipriano



martedì 8 settembre 2015

SETTEMBRE 1943 - Emilio Bianchi

A pochi giorni dalla morte del capitano Bianchi, avevamo promesso ai nostri lettori di onorarne la memoria attraverso i suoi stessi scritti. In occasione di questa tragica data per l'Italia abbiamo ritenuto opportuno riportare alla luce le impressioni dell'eroe di Alessandria. Bianchi visse l'8 settembre da lontano, nell'ospedale del campo di prigionia inglese in Sud Africa, ma le sue annotazioni sul diario dimostrano che intuì subito la gravità dell'avvenimento. Comprese in modo repentino quali tristi conseguenze, di lì a poco, avrebbero trascinato l'Italia nel più profondo baratro. E ci sembra quasi di vederlo, solitario, osservare impassibile gli sciocchi gridolini di gioia di tanti prigionieri convinti che la guerra fosse finalmente finita, mentre in realtà si preparavano i giorni più bui della nostra Patria.


SETTEMBRE 1943 ( estratto da Pagine di Diario )


"Intanto, come si temeva, la situazione militare in Italia va precipitando. Conquistata la Sicilia, le armate anglo-americane si apprestano ad invadere la Penisola. Dopo massicce incursioni di fortezze volanti sulle grandi città del centro-sud, sui porti, sui nodi stradali e ferroviari, le forze d'invasione sbarcarono sulla costa meridionale della Calabria il 3 settembre e nel golfo di Salerno l'8 settembre. Alle 19.45 di questo infausto giorno viene annunciato dalla radio la conclusione dell'armistizio fra l'Italia e gli “alleati”.
La notizia 'mozzafiato' arriva al campo già la sera stessa. A mio modesto parere, pur non conoscendo ancora i torbidi retroscena dell'armistizio badogliano, non mi sento di approvare tale soluzione. Si era entrati sconsideratamente in guerra e se ne usciva non certo nel modo più pulito.
Ancora una volta medito sulle parole di Teseo Tesei a Bocca di Serchio, subito dopo l'annuncio del nostro intervento nel conflitto: “Le guerre non si dovrebbero mai fare; ma se si fanno bisogna saperle combattere fino in fondo, anche in caso di sconfitta”.
Così aveva detto in presenza di tutti gli altri operatori subacquei. E coerente a questo principio aveva compiuto il suo dovere, “fino in fondo”, fino all'olocausto. La sorte gli ha risparmiato di vivere la cocente umiliazione che stiamo vivendo.
Sono frastornato: nel mio animo c'è solo una grande confusione di sentimenti, non so più cosa pensare e in che cosa credere. La situazione politica è completamente rispetto alle mie convinzioni e ai miei principi. Un senso di sfiducia mi invade. Mi conforta almeno la certezza di aver fatto sempre il mio dovere, anch'io “fino in fondo”; e comunque con il massimo impegno, nel miglior modo che mi era possibile..
Cerco di farmi una ragione, di rassegnarmi alla situazione senza uscita determinata dalla catastrofe militare; ma non riesco a mitigare il sentimento di sconforto, a riordinare i pensieri che mi turbinano nella mente. Che Iddio abbia pietà di questa Italia, che l'assista in quest'ora grave della sua storia.
Nell'ambiente ospedaliero, e di certo in ogni altro ambiente, la notizia dell'armistizio ha colto tutti di sorpresa. Allo stupore generale, come già avvenuto il 26 luglio, seguono reazioni discordanti, ma stavolta meno contenute e in qualche caso grottesche.
Alcuni prigionieri, fra canti e battimani, ridono e si abbracciano, convinti che tutto sia finito nel modo migliore e che il ritorno sarà imminente: si figurano di riabbracciare i loro cari e di riprendere la vita serena di un tempo, come se la guerra non ci fosse mai stata, come se l'Italia fosse ancora fiorente nella prosperità e nell'ordine, come l'avevamo lasciata. Poveri illusi! Altri piangono per lo sconforto o discutono fra loro con grande animazione. I più sono riservati, si ritirano nelle baracche a meditare sull'incertezza del loro futuro e sulle incognite che gravano sulle loro famiglie in un'Italia dall'avvenire sempre più oscuro."


venerdì 21 agosto 2015

IN ONORE DELLA M.O. EMILIO BIANCHI

Seppur in lieve ritardo, dovuto a problemi di varia natura, il Gruppo di Studio AVSER che ha pubblicato, in quattro edizioni, il Suo avvincente diario di guerra, dedica un doveroso ricordo in memoria della M.O. Emilio Bianchi, morto il ferragosto appena passato. Il Suo amico e collaboratore Ferruccio Bravi lascerà poi al capitano stesso l'onore di raccontarci in prima persona le sue gloriose gesta e la sua vita, naturale per lui quanto esemplare per noi.
Nota di F. Bravi:
"Ho avuto il privilegio di essere, oltre che estimatore, costante e affettuoso amico di antica data della M.O. Emilio Bianchi.
Lo conobbi nel luglio del 1971 quando lo intervistai per la “Vetta d’Italia” (‘Taccuino d'estate: incontro con l'eroe” a. XII, n. 8, pg. 3 – Bolzano, 28 VIII 1971).
Il vincolo di amicizia si temprò nel 1996 quando ebbi l’onore di collaborare all'edizione delle Sue “Pagine di diario 1940-1945 - Memorie di guerra e di prigionia di un operatore dei Mezzi d’Assalto”, un massiccio volume in 8° che ebbe successo malgrado il silenzio conformistico della critica (esaurito in breve fu riedito quattro volte).
Per onorare la memoria dell’Eroe tramite il Gruppo di Studio diffonderemo un estratto delle parti essenziali del ‘Diario’ e il testo integrale della pubblicazione in argomento: “Un po’ fuori del tempo e del mondo – Rievocando la splendida avventura di Emilio Bianchi e d’altri arditi del mare” di F.Bravi.
A chi desidera i due testi, riprodotti su carpetta, saranno inviati in omaggio per posta elettronica a richiesta indirizzata a:
silvalentauser@hotmail.it"

domenica 26 aprile 2015

LA CANZONE DI QUELL'APRILE

25 aprile 2015

Con questa bella e semplice poesia di Mario Castellacci, vogliamo ricordare i terribili giorni della guerra civile che infiammò la nostra nazione dopo l'infamia dell'8 settembre. Mentre le autorità di Stato si apprestano a celebrare in pompa magna l'anniversario di una liberazione che è stata tale soltanto nel nome e che per settant'anni, tra alti e bassi, ha significato la sudditanza politica, economica e culturale al colosso americano, noi preferiamo ricordare chi in quei giorni spese la propria gioventù per restare fedele ad un'ideale, che fosse un “mitra libertario” o un “fez da legionario”. In quest'epoca, dove tanti steccati del secolo scorso stanno saltando e si aprono nuove strade e nuove possibilità di riconciliazione, crediamo sia giusto guardare al passato con occhio critico, per saper discernere ciò che vi fu di positivo e di negativo. Proprio come l'autore della poesia, che a distanza di anni ripensa a quei giorni di dolore e in fondo al cuore riconosce una segreta identità tra lui e il suo antico “nemico amico”. Perché loro, nel bene o nel male, avevano veramente lottato, figli di una stessa storia, vittime di un opportunismo cinico e baro.

Sandro Righini

LA CANZONE DI QUELL'APRILE

Vecchio anarchico Failla
di Brigata Malatesta
conosciuto in quell'aprile
di Milano rossa in festa

tu deposto appena allora
il tuo mitra libertario
io da poco appeso al chiodo
il mio fez da legionario.

Ben sapevi tu chi ero,
io sapevo chi eri tu.
E a parlar per giorni interi
di Kropotkin e Gesù.

E trattarsi da fratelli
figli entrambi di una storia
io di qua col cruccio al cuore
tu di là ma senza boria.

Caro mio nemico amico
con la morte a paro a paro
dov'è più quel tempo antico
così fosco e così chiaro?

Dove sono gli ideali
i tuoi sogni contro i miei?
E io stesso dove sono
e tu pure dove sei?

E chi ha vinto in quell'aprile
della rossa primavera?

Forse ha vinto chi non c'era.

Mario Castellacci

( Tratto da: SEMI DI ZUCCA. Versetti antimoderni. Editrice TAU)

domenica 1 marzo 2015

AVSER 2015

Sono passati ben 15 anni da quando il Gruppo di Studio Avser venne alla luce a Torre del Lago, il “borgo selvaggio” tanto amato dal maestro Puccini. Sorto da una costola del vecchio Centro di Studi Atesini, ne ha ereditato il tenace impegno nel difendere l’identità nazionale contro tutti i negatori di essa. In questo si è prodigato finora Ferruccio Bravi che da sempre si è battuto in difesa delle nostre radici linguistiche, storiche e letterarie. Ferruccio, ormai carico d’anni, continua come può la sua missione a Caracas dove dimora stabilmente presso suo figlio. Ma lontano dall'Italia e desideroso di mantenere vivo ed efficiente l'operato dell'Avser in patria, intende ora passare il testimone.
Negli ultimi anni ho collaborato al Gruppo di Studio in veste di “segretario” e quando Ferruccio accennò di voler passare a me il timone della barca auserina, non nego di essermi sentito inadeguato al compito. Ma se c'è una cosa che ho imparato dal suo vivo esempio, è che non dobbiamo mai perderci d'animo. Così, scemato l'iniziale timore, ho riordinato le idee e mi sono detto: “un Gruppo è formato da più persone e sarà quindi opportuno essere affiancato da validi collaboratori!”. Così è stato. Dopo breve ricerca, due fidati amici hanno mostrato interesse per l'iniziativa e si sono messi a disposizione. Consci dei nostri limiti e delle nostre specificità, abbiamo discusso sul da farsi e siamo giunti ad alcune conclusioni. Fedeli al principio del rinnovamento, elemento costituente dell'etica del Gruppo - ben venga il diverso, ben venga il nuovo, ma sempre nel rigoroso rispetto delle norme statutarie e dei valori che hanno nobilitato il Centro, innanzitutto la difesa intransigente della lingua e della cultura italiana.” ( vedi Etica e Finalità  ) – abbiamo tracciato il nuovo percorso da intraprendere. Se prima la lotta si svolgeva soprattutto in ambito linguistico e letterario, terreno prediletto da Ferruccio, noi giovani successori siamo propensi a privilegiare la storia dell'agricoltura italiana, essendo Periti Agrari e svolgendo un lavoro inerente al nostro titolo di studio. Crediamo opportuno coinvolgere la passione che ci accomuna per la storia patria e gli uomini che l'hanno plasmata, con la nostra professione. Obbiettivo arduo e di ampio respiro, giacché l'ambito di studio è a dir poco sconfinato e vario. Ma ciò non ci spaventa, anzi ci sprona ad accrescere le nostre conoscenze e ad intraprendere un percorso di approfondimento anche e soprattutto personale. Ciò avrà inizio con gradualità e non sarà qualcosa di definitivo. In primis perché fintanto che Ferruccio avrà forza e volontà di scrivere, daremo la precedenza ai suoi scritti e alla riproposizione dei vecchi cavalli di battaglia del C.S.A. e dell'AVSER. Secondariamente perché lasceremo aperte le porte a chiunque voglia collaborare ed apportare un contributo, sia esso letterario, filosofico, scientifico o storico, alla comune causa. Dal canto nostro inizieremo il cammino di studi con profonda umiltà e poco alla volta pubblicheremo articoli. Questo, a grandi linee, il progetto. Tutto ciò s'inserirà però all'interno di un cambiamento subitaneo di cui vogliamo mettere a conoscenza ogni nostro lettore: l'Avser cesserà di chiedere l'annuale quota d'iscrizione. Continuerà a svolgere le sue attività soltanto sul sito in rete, col solo fine di diffondere la sua produzione culturale e quella di eventuali graditi ospiti.
Concludiamo augurandoci che ogni Italiano di buon cuore ascolti il nostro appello e voglia collaborare a questo progetto, per restituire luce, vita e vigore ai migliori esempi della nostra storia.

Sandro Righini