Perché
ricominciare da Trieste? Forse perché nel novembre del 1953 ben sei
dei suoi concittadini - il settimo morì alcuni mesi dopo per le
ferite ricevute negli scontri - persero la vita rivendicando il
sacrosanto diritto di tornare a far parte dell'Italia? O forse perché
tanti di quei Dalmati e Istriani esuli dalle loro amate terre
occupate dallo straniero trovarono qui rifugio, dimostrando di fonte
alla Nazione di non provare vergogna, bensì orgoglio, professandosi
Italiani? Si.. probabilmente anche per questo. A Trieste affondano le
più tenaci radici della nostra Identità nazionale. Eppure anche
nella splendida Piazza Unità d'Italia, dove sul finire dell'ottobre
1954 centinaia di migliaia di cittadini sventolarono il tricolore per
festeggiare il tanto agognato ritorno alla Madre Patria, negli ultimi
anni i triestini hanno visto avanzare sigle indipendentiste capaci di
suscitare interesse tra la popolazione. Gruppuscoli vogliosi di
ribalta, pronti a sfruttare il malcontento, ma dietro cui si celavano
i soliti loschi affari e che sono via via scemate, ridimensionandosi,
nel breve arco di un paio d'anni. Questo non solo per intrinseca
fragilità interna, ma grazie anche, e soprattutto, al costante
impegno di un'associazione cittadina, Trieste Pro Patria, a cui va il
grandissimo merito di aver saputo riportare nella propria città
l'Italia in primo piano.
Ma
crollato il nemico del momento, che fare? Ecco il più grande
dilemma. Ed al contempo la maggior sfida: come sconfiggere
l'indifferenza? Pure nella patriottica Trieste sfidare la noncuranza,
la sfiducia e il menefreghismo dei cittadini odierni resta il più
grande ostacolo da superare. Anche di questo abbiamo parlato gli
scorsi 21 e 22 ottobre nel capoluogo della Venezia-Giulia, dove
Trieste Pro Patria in collaborazione con il gruppo facebook Essere
Italofoni, sorto per riunire e dar voce a tutte le comunità
italofone che ancora vivono in territori un tempo italiani come
l'Istria, la Dalmazia, Fiume, Nizza o che con l'Italia hanno sempre
avuto uno strettissimo rapporto (Corsica e Ticino), si è fatta
promotrice di una due giorni all'insegna di tematiche di primaria
importanza, quali Sovranità, Lingua e Identità. Teatro delle
conferenze la storica sede della Lega Nazionale, un vero e proprio
monumento vivente innalzato al patriottismo, che sarebbe auspicabile
avere in ogni capoluogo d'Italia. Venerdì sera, Federico Zamboni e
Valerio Lo Monaco de La Voce del Ribelle, ci hanno intrattenuto su
Globalizzazione e Sovranità; sabato mattina, sotto l'egida del
presidente della Lega Nazionale, l'Avv. Paolo Sardos Albertini, vari
esponenti delle comunità italiane d'Istria, Ticino e Dalmazia hanno
fatto un resoconto delle loro esperienze di italiani fuori dai patrii
confini.
La
nostra Maria Cipriano, presente con noi a Trieste, ha voluto con
l'occasione raccogliere le sue impressioni su questa esperienza ed
elaborare delle considerazioni in merito, al fine di farci riflettere
sul cammino da intraprendere. Lo pubblichiamo in occasione della
Festa della Vittoria, con la speranza che non solo sia di buon
auspicio, ma foriero di proficue decisioni, affinché gli oltre
seicentomila morti della Grande Guerra e i martiri di Trieste di
sessanta tre anni or sono non abbiano versato il loro sangue invano.
Sandro
Righini
RICOMINCIARE
DA TRIESTE
Si
potrebbe ricominciare da Trieste.
Si
dovrebbe ricominciare da Trieste, a ricucire i fili dispersi e
spezzati dell'identità nazionale, ferita oramai, e non da oggi, da
una valanga di oltraggi a conteggiare i quali non basterebbe un
intero ufficio di ragionieri. La natura stessa si è levata a simbolo
delle nostre fratture interiori, e guarire le faglie vacillanti dello
spirito sarà fondamentale per guarire anche quelle della materia.
In
un secondo Risorgimento che è il grande miraggio della nostra sete
di liberazione, Trieste sarebbe il principio, l'input, il segnale di
un'aurora o quantomeno di una fiamma che non è morta e non sa
morire.
Adesso,
questa città che in 500 anni di dominazione asburgica mai divenne
austriaca, questa città simbolo che nel 1813 gli Austriaci
dichiararono terra di conquista, che Francesco Giuseppe nel 1915
dichiarò territorio nemico, e i cui abitanti il 30 ottobre 1918
abbatterono le aquile asburgiche per innalzare il Tricolore, è solo
un bel capoluogo di regione ricco di palazzi e negozi eleganti,
splendido sotto il sole, rigurgitante di giovani che vogliono
divertirsi, ma clamorosamente assente e latitante a certi doveri. Una
città a cui la globalizzazione e le astuzie della politica hanno
tarpato le ali della memoria, una città interiormente spenta dietro
l'apparente vivacità e l'andirivieni di un turismo in crescita
costante.
Il
rischio grave è quello di estinguersi in questa vetrina delle
apparenze, di languire nell'assuefazione all'inevitabile, di
guardarsi allo specchio di un presente che ha tradito e sconfessato
il passato, nel disordine delle idee creato apposta per sballottare e
disorientare gli spiriti che potrebbero ridestarsi.
La
denigrazione del Risorgimento, la rinnegazione dell'Irredentismo, la
banalizzazione della Grande Guerra, lo strizzar l'occhio agli
indipendentismi, la propaganda della nuova dittatura, il finto
pacifismo, l'ipocrisia dell'accoglienza, le doppie scritte a pochi
passi dal Sacrario di Redipuglia, il sussiego del nuovo
individualismo egocentrico, edonista e depresso che ha orrore di
qualsiasi impegno patriottico, tutto ha congiurato e congiura contro
il dovere della memoria, tutto congiura contro l'Italia. Coloro che
si oppongono sono pochi, isolati, in un certo senso braccati,
costretti a gridare, magari disordinatamente, la loro opposizione, la
loro fedeltà all'Italia, la loro identità. I soliti fascisti , dirà
la gente, che della politica ne ha piene le tasche, ma che proprio
per questo dovrebbe partecipare e mettersi in mezzo, invece di
mandare, appunto, i soliti fascisti in avanscoperta. Basterebbero
poche idee chiare e da mettere in chiaro. Anzi una sola idea:
l'Italia. Che viene prima di qualsiasi europa, che è al di sopra di
qualsiasi europa e a prescindere da qualsiasi europa. L'Italia sulla
cui dignità di popolo e nazione si è rovesciata recentemente
l'invettiva becera e arrogante di un rappresentante delle attuali
istituzioni: “Se gli italiani non vogliono accogliere i
profughi, se ne vadano ad abitare in Ungheria, staremo meglio senza
di loro.”
Siamo
ridotti a questo. Come disse il padre del grande patriota napoletano
Luigi Settembrini, inorridito di fronte allo spettacolo dei carbonari
fustigati a sangue per le strade della città partenopea affinché
tutti vedessero e tremassero. “A tanto ci siamo ridotti!”
A subire cioè simili offese, che dovrebbero scoperchiare le tombe di
chi è morto per la Patria. In Ungheria ci vada chi ha pronunciato
questa frase, anche se non credo che l'accoglierebbero.
Ma
ciò che manca a Trieste è ciò che manca al resto della nazione: la
forza, la volontà e il coraggio di reagire per rifondare un secondo
Risorgimento. E poiché sono dei giganti quelli che diressero il
primo, magistralmente combinati insieme in una misteriosa alchimia
vincente, oggi come oggi non si vede né intravede non dico un
gigante, ma nemmeno un qualcuno di spessore e levatura medio-alta che
potrebbe emulare o riprodurre in qualche modo il principio di quelle
gesta. Gesta che richiesero una fatica immane e uno smisurato
dispendio di energie che a noi, stanchi e depressi ancor prima di
cominciare, mancano totalmente.
Dentro
il nostro animo noi vorremmo in linea teorica poter ripetere quelle
vicende, e scoprirci pure noi eroi, guerrieri, martiri, statisti,
condottieri, congiurati, rivoltosi, agenti segreti, cospiratori, ma,
diciamo la verità, non ne siamo proprio capaci. Come non bastasse,
non siamo neanche uniti e compatti in ciò che vorremmo, dal momento
che metà della nazione nemmeno si accorge – o finge di non
accorgersi – della realtà, e comunque ci ha capito ben poco, e,
dell’altra metà che ne ha sentore, i più sono convinti che tanto
non c’è più niente da fare, i tempi sono cambiati, e non resta
che subire passivamente gli eventi. E nella spoliazione della Patria
cui assistiamo è stata presa di mira anche la famiglia: infatti, con
la scusa di difendere gli omosessuali, che noi rispettiamo, ma che
sono sì e no il 5% della popolazione mondiale, si cerca di sradicare
un'istituzione fondamentale che proprio in Italia, con le sue
inesauribili risorse, sta tenendo testa alla crisi economica e al
decadimento morale generale. Il Governo forse si occupa e preoccupa
della famiglia italiana?
Il
nostro panorama è diventato insomma così desolante, che, proprio
per questo, la psiche tende a sfuggirlo, per rifugiarsi in una
quotidianità spicciola dove le più ampie questioni, anche
istituzionali, non ultima quella di un Parlamento cui la Costituzione
attribuiva un ruolo centrale, garante della democrazia e legiferante,
sono destinate a rimanere un pallido ricordo.
Se
la nostra debolezza è palese, viceversa il Risorgimento era forte, e
per questo vinse. Erano forti le persone. Loro agivano. Noi facciamo
il contrario: ci chiudiamo in casa, isolandoci in un bozzolo di
silenzio, aspettando non si sa cosa, consolandoci coi tanti
palliativi che la società moderna offre – per esempio gli inutili
sfoghi sulla rete – sperando in un indefinito “deus ex machina”
che verrà dal cielo a risolvere i nostri macroscopici problemi, cui
s’è aggiunto anche il terrorismo islamico, saltato fuori in
concomitanza a un’invasione extracomunitaria sconsideratamente
programmata.
Tre
anni fa, qualcuno cercò di alzare la voce con il movimento 9
dicembre di cui nessuno più si ricorda, durato lo spazio di una
stagione. In quanto alle “sentinelle in piedi”, organizzatrici di
veglie silenziose e pacifiche in pro della libertà di pensiero
contro la legge sull’omofobia imbastita dal solito deputato del
solito partito che nel suo DNA ha la noncuranza della libertà
altrui, sono a rischio costante di sputi, bestemmie, insulti da
trivio e pugni in faccia in tutte le piazze in cui si presentano.
D'altra
parte, se c'era qualcosa che il Risorgimento non faceva, era
spezzettare le proteste in tanti rivoli diversi, staccati l'uno
dall'altro. Mancanza di unità e di coordinazione, dunque.
Confusione, disordine e divisione negli obiettivi da raggiungere.
Quando l'abate Vincenzo Gioberti, che era cattolico, si presentò da
Mazzini gli disse: “Nel mio cattolicesimo c'è posto per tutto.”
Con ciò intendeva sottolineare che bisognava unirsi per rifare la
Patria, e se i cattolici avessero perseguito fini separati, non ci
sarebbe stato nessun Risorgimento. Oltre a ciò, la gente di allora
non faceva caso ai prezzi da pagare (lo stesso Gioberti era esule ed
era stato anche in galera), prezzi che venivano messi tranquillamente
in conto (e a quell’epoca erano elargiti a piene mani torture,
esili, confische dei beni, pene capitali, ritorsioni alle famiglie),
ma per noi è diverso: protettivi come siamo verso i figli e la
famiglia, abituati a viver bene, anelanti alla tranquillità,
democraticamente ingenui, per noi è impensabile correre certi
rischi, e perciò rinunciamo, evitiamo come la peste di metterci nei
guai, stiamo attenti a tutto, giacché anche un diverbio con un
immigrato può risolversi a nostro danno, anche la legittima difesa
contro un malvivente può metterci nei guai, anche una parola contro
l’islam o i gay può comprometterci, addirittura la difesa del
Tricolore può costar cara, com’è avvenuto due anni fa a Casalduni
in provincia di Benevento, dove due giovani orgogliosi difensori
della bandiera italiana si sono ritrovati denunciati assieme ai
nordafricani che l’avevano oltraggiata, messi sullo stesso piano di
quelli.
C’è
una dura realtà che ci sovrasta, che però non è peggiore di quella
che sovrastava l'Italia pre-unitaria, anzi è migliore, considerando
i mezzi odierni che i patrioti di allora non avevano, e considerando
che la superpotenza americana sulla quale semplicisticamente qualcuno
scarica tutte le colpe, non è detto sia la causa di ogni male,
perché in molti casi questi mali la nostra classe dirigente li ha
creati e voluti da sé. Essa è un'oligarchia che non si può più
definire di destra, di sinistra o di centro, perché non è più
politica, non ha più in sé nulla di politico nel senso etimologico
del termine, ma semplicemente fa e disfa, impone e dispone, briga e
disbriga senza che il popolo italiano sia non solo minimamente
chiamato in causa ma nemmeno considerato: del resto si tratta di un
popolo ormai facilmente malleabile, ben lontano dal popolo che fece
il Risorgimento.
Dunque
non s'intravede nessun Risorgimento all'orizzonte né qualcosa che
possa lontanamente assomigliargli, anzi le voci gracchianti che
ciarlano contro, portano acqua al mulino opposto, contribuendo ad
aumentare il disordine delle idee che blocca ogni possibile azione,
facendo il gioco di chi vorrebbe un'Italia ridotta allo stadio
pre-unitario. Di fronte a tutto questo ci scopriamo impotenti.
Stanchi e sconsolati ancora prima di cominciare. Sta qui la grande
differenza tra noi e coloro che fecero l’Italia.
Se
Mazzini non avesse mosso un dito, il Risorgimento non ci sarebbe
stato, e con esso tutta la folta schiera di patrioti, combattenti,
cospiratori, fiancheggiatori, sostenitori e finanziatori, che, al
contrario, si sacrificarono, spesso morirono, ebbero i beni
confiscati, la famiglia distrutta, la vita compromessa, le carriere
stroncate, gli affetti sciupati, la salute rovinata. Mazzini stesso
visse da braccato, sempre nascosto, cambiando dimora in
continuazione, costretto a sacrificare perfino la sua vita
sentimentale. Garibaldi visse inseguito da sei Polizie che gli davano
la caccia, spesso separato dai figli, e con una taglia salatissima
messa sulla sua testa dagli Austriaci. Cavour stesso morì
prematuramente, stroncato dalle fatiche spese per l’Italia e dal
dolore per aver dovuto sacrificare ai pesanti ricatti francesi la
Contea di Nizza e la Savoia, territori storici della dinastia
sabauda. Baldi giovani ancora nel fiore degli anni marcirono nelle
segrete con le catene ai piedi, affrontarono torture e interrogatori,
si suicidarono per non parlare, furono avvelenati in carcere,
perirono o rimasero feriti e mutilati nelle tre guerre
d’indipendenza, e soprattutto nei moti e insurrezioni pressoché
continue sparse a macchia d’olio in tutta la penisola, dove, contro
le bombe dei cannoni, i ribelli opponevano solo qualche fucile e la
spanna di un coltello, le nude mani sulle barricate e un Tricolore
stracciato.
Né
l'analfabetismo di gran parte della popolazione impediva di capire:
come avvenne a Cosenza nel 1844, quando tutti gli abitanti, anche i
bambini, alle sei di mattina assisterono muti, addolorati e commossi
al passaggio dei condannati a morte vestiti di nero condotti verso il
macabro vallone di Rovito. Avevano capito perché quegli uomini
valorosi erano sbarcati in Calabria, perché morivano, perché erano
giunti da così lontano. Nessuno glielo aveva spiegato, non avevano
letto libri, consultato archivi, udito conferenze: semplicemente il
sentimento li guidava, una voce ancestrale, la coscienza antica di
essere italiani, un tutt'uno col resto della penisola.
Così
avvenne a Perugia, quando l'insurrezione del 1859 che si concluse in
un massacro, non poteva contare che su qualche fucile sgangherato
inviato clandestinamente da Firenze, e tanto meno poteva contare su
Cavour, legato alle clausole del trattato con Napoleone III.
Questo
è stato il nostro Risorgimento: un'infinita carrellata di anime
elette, l'elevazione corale riscattatrice di un popolo.
La
contessa milanese Erminia Frecavalli, arrestata dagli austriaci,
tenuta segregata in casa, sorvegliata notte e giorno per mesi, riuscì
a portare oltre il Ticino una lettera dei congiurati lombardi
nascosta nelle sue trecce.
Andando
a visitare il fratello nelle carceri di Mantova, il dottor Battista
Maggi restò così impressionato dalle condizioni del congiunto che,
rientrato casa, mentre riferiva ai familiari si commosse al punto che
morì d’infarto.
L’ingegnere
veronese Paolo Caliari venne tenuto per giorni sepolto al buio, nelle
terribili celle della Mainolda, il peggior carcere austriaco in
Italia, affinché parlasse. E non parlò.
Il
patriota irredentista istriano Carlo De Franceschi, mentre gli
austriaci urlanti ad armi spianate gli circondavano la casa, rimase
impassibile in poltrona a leggere un libro.
Il
patriota Cesare Braico, di Brindisi, che studiava medicina a Napoli,
venne arrestato e processato con altre quaranta persone, e condannato
al carcere duro dove la sua pur giovane e forte fibra ne fu
compromessa. Nelle sue memorie racconta di come gli insetti più
schifosi e repellenti piovessero di notte e di giorno sul suo
pagliericcio. Commutata dopo dieci anni la pena dell’ergastolo in
esilio perpetuo, rifiutò un rifugio sicuro all’estero per tornare
in Italia a combattere a fianco di Garibaldi.
Un
minuscolo paese siciliano di contadini, Vita, in provincia di
Trapani, si prodigò durante l’impresa dei Mille per ricoverare i
garibaldini feriti nelle proprie case, privandosi anche del
necessario pur di salvarli, al punto che molti dei combattenti, pur
ridotti in gravi condizioni, sopravvissero proprio grazie alla
generosità di quella povere gente che spese ben 170 onze (una cifra
ragguardevole per l’epoca) per assisterli e curarli.
Nella
stessa Trieste, che fu la conclusione del Risorgimento e ora dovrebbe
esserne il principio, una lapide affissa sulla facciata del Teatro
Verdi ancora ricorda che da lì, il 23 marzo 1848, il patriota
Giovanni Orlandini, impugnato il Tricolore, marciò valorosamente
alla testa degli insorti contro le immani forze nemiche.
Era
la trascinante forza ideale del Risorgimento che accorpava insieme
ricchi e poveri, nobili e plebei, religiosi e laici, di tutte le
regioni d'Italia, verso un'unica meta. Era una forza immensa, che
infondeva coraggio e volontà inesauribili.
Ma
oggi bisogna guardare in faccia la realtà, ciò che siamo. Di fronte
a nemici numerosi e potenti, sicuri e baldanzosi d’aver già vinto,
bisogna riflettere gravemente sulla Storia e misurarsi col destino.
Beato
chi ha il coraggio di scegliere, perché la Patria bussa alle nostre
porte, e noi non dobbiamo aver paura ad aprire. Fuori, c'è il mare
aperto che ci aspetta, il mare azzurro dei destini vaticinati da
D'Annunzio, la speranza di un mondo nuovo, della vita nuova, dove
niente e nessuno potrà impedirci di armare la nostra piccola vela
sotto il Faro della Vittoria, sperando che tant'altre si uniscano, di
più e sempre di più, per ricominciare. Ricominciare da Trieste.
Maria
Cipriano