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giovedì 19 dicembre 2013

LE RADICI PRECRISTIANE DEL NATALE


DIES NATALIS SOLIS
DIES NATALIS CHRISTI
di Ferruccio Bravi – 11 XII 13

Il Natale ha radici precristiane. In antico non era una novità in Italia dove, ab immemorabili, si celebrava il dies natalis Solis.
La sovrapposizione del dies natalis Christi’ non è l’unica acquisita e consolidata nel nuovo culto che poco alla volta si è appropriato di riti e consuetudini pagane 1. Questa assunzione di elementi del Sacro altrui è definita ‘o-blitteratio’; riguarda precipuamente la figura del Cristo figlio di Dio accomunato a Krišna, il figlio di Višnù dal parto divino, dall’assonanza del nome e dalle vite parallele: nascita nel solstizio invernale, padri putativi e despoti infanticidi (Kamsa ed Erode) 2.
L’identità Sole-Dio era saldamente radicata nei popoli dell’antichità. Perfino i cristiani credevano che il loro Dio fosse il Sole «essendo noto che noi preghiamo rivolti verso il Sole che sorge e nel Giorno del Sole ci diamo alla pazza gioia». Così Tertulliano 3. Anche Papa Leone I deplorava «che certi cristiani, prima di entrare nella basilica di San Pietro dopo aver salito la scalinata, si volgono verso il Sole e piegata la testa s’inchinano in onore del fulgido astro» 4.
Nel culto di Mitra ritroviamo altri riscontri, a cominciare dal Sole che nasce da una vergine in una grotta; per cui taluni autori sostengono che il Cristianesimo è una derivazione del Mitraismo, “padre di tutte le religioni” contaminato dal credo giudaico 5.
All’Almo Sole si riconduce anche il nimbo, l’aureola sul capo del Cristo, della Ma­donna, de­gli angeli e dei santi: nelle raffigurazioni delle divinità solari era distintivo di potenza e dignità 6.
L’identificazione del Sole con la divinità suprema è esplicita nell’area reto-italica. Nell’Agro Veronese vennero alla luce lapidi che menzionano «Iuppiter Felvennis» e «Silvanus Fel»: nella “interpretatio” romana la dea retica solare Felvenne corrisponde a Giove e il Sole dei Reti (Fel) a Silvano divinità solare poi retrocessa a silvestre 7.
La data della Natività fissata al 25 dicembre da papa Liberio nel 360 è arbitraria e non senza incongruenze bizzarre, come la veglia dei pastori scombinati all'addiaccio con le pecore in pieno inverno. Anche l’anno è inesatto: presumibilmente il 747 a.U.c e non il 755 8.
Per finire, accenno all’albero di Natale la cui tradizione si definisce “alpino-germanica” ma è di fatto mediterranea: l’uso an­tico di appendere oggetti votivi alle piante è accennato dai poeti classici, come Tibullo che rievoca l'età felice della Roma agreste, quando si ve­devano le giovenche pascere pla­cide sul Palatino e «pendebat vagi pastoris in arbore votum» 9.

PALCHI CERVINI da MAGRÉ
CON DEDICA VOTIVA A REITIA

 
Reitia era la Madre Terra dei Reti e dei Veneti, versione femminile della divinità suprema solare. Era invocata con l’epiteto estuale, conguagliabile etimologicamente con istanu, teonimo solare ittita. Col nome di Esta o Vispa era venerata come protettrice del focolare (cfr. la Vesta romana, l’Estia greca e la Ostara germanica).
Ecdotica ed ermeneutica dei tre corni di Magré Vicentino
1: r. i θ i e k e r r. i nake: p. iθ i e. ker r. inake «Reitiae (hoc) sacrum (donarium quidam) devovi(t)» o sim. Il perf. r. i nake sta per θ i nake ‘ha dato in voto’. L’incisore, di solito, non sapeva leggere e non di rado confondeva i segni alfabetici del modello). 2: ritamne helanu « Reithanae (divae) Velanus (conscravit)». 3: u s t i θ u d. e d e v e «Ustido dedit». Dedica in alfabeto etrusco-venetico e lingua gallo-italica; il nome dell’oblator, Ostidone, è forse gallico, dedeve riflette, più che il venet. doto, il lat. dedit arrangiato sul perf. in –vi. – Bravi 1980 II, 61.

 
DUE OGGETTI VOTIVI CONSACRATI A DIVINITÀ PRECRISTIANE

LA PALETTA DI PADOVA
Transunto da F.BRAVI, 1980, II, 58-59 e passim
 
 
Spatola votiva in bronzo (28 x 6.5/9.4) ora al Museo cittadino di Padova. Rinvenuta nel 1899 nell'area del "Santo", frequentatissima assai prima dell’attuale culto di Sant’Antonio dai fedeli di Reitia Estuale.
Ecdotica ed ermeneutica della dedica in alfabeto etrusco-venetico (scrittura retrograda):
Traslitterato: < et.sualeutikukaian/nakinatarisakvil/t.i.t.i.a.p
Trascr. interpretativa: estuale utiku kaian nakina (a)tari sakvil ti(u?)ti(s?) ap(nu?)
Traduzione: "alla dea estuale (è) offerto questo alla Gran Madre dono consacrato”; . dono votivo della comunità" (o sim., o altro).
note lessicali: estuale , cfr. gr.cEστία, ittito Istanu (divinità solare), germ. Ostara (Magna Parens), Ateste ( > Esta + Atesis, tipo Tergeste). In altri titoli: estua, es-tual-, estas. ■ utiku 'dedicato', 'offerto', conguagliabile con etr. uti- 'do'. ■ kaian dimostrativo, cfr. etr. cehen 'questo qua'. ■ nakina (a)ta risponde all'etr. ati nac-na 'madre grande' cui si dà anche il significato di 'nonna'; è un tipo di area mediterranea che sopravvive in qualche dialetto del Mezzogiorno (mammaruossa e mossa 'nonna', ambedue da mamma grossa) e nei calchi transalpini grand-mère, Großmutter. ■ sakvil 'dono votivo' (devotio, sacrificium) riconoscibile in etr. sac 'sacer' e cvil 'donum'; altro composto etrusco è tinscvil 'mattutino dono', nel senso di dono della luce o di Morgengabe e comunque anche personale (Tanaquilla) . ■ tiutis 'comunità', salvo diversa lezione (se unito alla siglia attigua, magari anteposta: apnu tinaχe 'donum dicatum'?). – Bravi 1980, II 58-59 .

 
IL CINTURONE DI LOTHEN
Transunto da F.BRAVI, 1980, II, 74-75 e passim
 
Cinturone “alla tirolese” in bronzo laminato (23 x 10.5). Arte delle situle e stile figurativo d'area venetica, elementi in comune con la Situla di Nesazio 1). Rinvenuto nel 1941 in Alto Adige (Lothen/Campolino, p. Brunìco), ora al Museo di Bolzano. Dedicato a Felsoria divinità ctonia, nell’aspetto funebre di Reitia divinità solare suprema: il teonimo conserva l’etimo originario *φel- ‘sole’.
Ecdotica ed ermeneutica della dedica in alfabeto etrusco-venetico (scrittura progressiva):
Traslitterato: > camφelsuries.kalaheprušiahil * / klanturus
Trascr. interpretativa: (i)cam φelsuries-kala heprusiahil ap(nu?) klanturus
Traduzione: "io (sono il cinturone) di Felsoria e Cala; dono veprusiale di Clanturo" (o sim.) 2.
note lessicali: estuale , cfr. gr.cEστία, ittito Istanu (divinità solare), germ. Ostara (Magna Parens), Ateste ( > Esta + Atesis, tipo Tergeste). In altri titoli: estua, es. (i)χam 'io' per cui cfr. etrusco arcaico ikam 'io' e ika 'questo' 3. ■ φelsuries gen. dedicativo 'di Felsoria' l’anzidetta divinità ctonia in relazione con l'etrusca Suri, consorte del dio infero Calu 4 riscontrato dal kala seguente che con φelsuri costituisce la diade infera dei Reti. ■ heprusiahil ( = veprusia-vil) 'veprusiale', di Veprusia o, veneticamente, Februsia, con vago richiamo al tipo etrusco tinscvil ‘Tanaquilla’ lett. ‘dono del mattino’. Il segno a cravatta, traslitterato š, è da influsso gallico in area noricense 5. ■ apnu (?) 'dono votivo' conguagliabile con etrusco alpnu ‘dono’ documentato a Chiusi e a Suessula in Campania. ■ klanturus gentilizio o patronimico. Il suffisso -turricorrente anche a Sanzeno in Anaunia (laturus) richiama etr. -θur, indicante appartenenza a collegi e famiglie.
______
1 Nesactium: attuale villaggio di Altura fra Pola e Fiume, già castelliere e capitale degl'Istri, poi munici-pio della X Regione Venezia ed Istria. Necropoli venetica di tipo atestino con tracce di preesistente castelliere degli Istri. Culto di divinità paleovenete quali Eia e Trita, questa comparabile con la Trìava reto-ve­netica.   A. Gnirs, Histria Praeromana, 1922.
2 Giovan Battista Pellegrini, glottologo principe approfondito nel venetico, cabotando fra questa lingua e l’etrusco, legge e interpreta: χam.φel suries-kalahe prušiahil /LI/ kla.n.turus"(cinturone) di Campe (morto d'anni) 51: (la moglie) Prusiaquilla a Suri e Calu (l'ha consacrato); di Clanturo", i lessemi presupposti etruschi, non trovano riscontro in altri titoli retici. Irrisolto il corismo χamφel...LI klanturus fin dal primo tentativo ermeneutico. – G.B. Pellegrini, I rinvenimenti poreistorici di Lothen, II, in “Cultura atesina”, V, Bolzano, 1951, 11-15).
3 Secondo l'uso etrusco e venetico, gli oggetti dedicati parlano in prima persona. Tuttavia in etrusco il distacco fra 'io' e 'questo' non è netto, sì che il personale mi (da *ika-mi 'egomet' da cui anche i-ka 'hoc') fu dapprima inteso dagli ermeneuti come dimostrativo: mi qutun karkanas 'questo (è) il gotto di Carcanas' invece che 'io (sono)...'etc.
4 In Etruria il riscontro di Felsoria, anche etimologico, è Fersu (φersu); in Grecia è Persefone, per noi Proserpina, che fa coppia con Plutone. Il teonimo φelsuri- è composto di φel 'Sole' e di un radicale *sur- 'inferi' o sim. da cui il Suri etrusco. Cfr. φelna-vinutalina nella “Situla di Cembra 1 e φelvinuale nell’anaune “Placca di Meclo (Tn). Per le relazioni teonimiche: Bravi 1994, 29, 31-32.
5 ll Norico fu colonizzato da paleoveneti e celti. A frequentazione e insediamenti venetici risalirebbero i titoli della Val di Zeglia (Gurina e Würmlach).



NOTE
1 L’origine pagana, negata soltanto dall’Unione Cristiana Cattolici Razionali, è accettata pacificamente anche da Benedetto XVI che ha testualmente affermato: «Molto presto i cristiani rivendicarono per loro il 25 dicembre il giorno natale della luce invitta, e lo celebrarono come natale di Cristo, come giorno in cui essi avevano trovato la vera luce del mondo».Joseph Ratzinger, Chi ci aiuta a vivere? Su Dio e l’uomo, Queriniana 2006, 97 sgg.
L'obliterazione del preesistente, ossia l'imposizione di una ben congegnata patina cristiana ad una tradizione saldamente radicata nella coscienza dei 'convertiti', fu più rigorosa dove il nuovo credo stentava ad affermarsi. Così nell’Etruria alla quale si attribuirono falsamente una precoce entu­siastica conver­sione, il primo succes­sore di Pietro (Lino da Volterra) e il privilegio della più antica pre­dicazione apostolica in Italia.
Vero è che il Cristianesimo si impose in territorio etrusco e in ogni altra parte d’Italia appropriandosi di forme o parvenze di culti preesi­stenti. – Ivi, 59.
2 Bravi 1994, 28 e 35. Più concorrenziale a quello cristiano fu il culto indo-persiano di Mitra «col quale il Cristianesimo si fuse sincreticamente. A proposito, anche Mitra era stato partorito da una vergine, aveva dodici discepoli e veniva soprannominato “il Salvatore”. […] Il dio sole inca Wiracocha veniva celebrato nella festa del solstizio d’inverno Inti Rajmi (festeggiata il 24 giugno perché nell’emisfero sud, essendo le stagioni rovesciate, il solstizio d’inverno cade appunto in giugno»). – Savino 2004, 55.
3 Ad nationes, apologeticum, de testimonio animae.
4 Settimo sermone nel Natale 460, XXVII, 4.
5 In argomento il Carpenter rileva «analogie tra i miti dei vari salvatori divini: Dioniso ellenico, Ercole romano, Mitra persiano, Osiride, Iside e Horus in Egitto, Baal e Tammuz dei Semiti orientali. Più o meno si asseriva che questi “redentori” fossero nati, esattamente o circa, nel giorno del Solstizio:
·         Da madre vergine.
·         In una grotta in un vano sotterraneo.
·         Affaticati da una vita dura.
·         Invocati con epiteti o epiclesi salutiferi.
·         Tentati dal Maligno.
·         Scesi agli Inferi.
·         Risuscitatori di defunti e guide al mondo celeste.
·         Santificatori tramite il battesimo.
·         Commemorati alla mensa eucaristica.

Ancora: la nascita di Gesù fu annunciata dalla cometa come quella di Buddha, di re Mitridate, di Giulio Cesare e altri. Dei quattro Vangeli solo quello di Matteo ne parla e nessun vangelo pone un bue e un asinello nel Presepe. Questo particolare lo si ritrova nei miti pagani. Cumont 1913, passim.
6 Il Cristianesi­mo adottò anche segni so­lari fra i quali il demonizzato svastica, o croce gammata. Tale simbolo sapienziale, noto in Italia ben prima di essere assunto dal Cristianesimo costantiniano, lo si vede tuttora in absidi e pavimenti di chiese paleocristiane ad Aquileia e altrove.
Caduto in disuso, fu riesumato nel secolo scorso e interdetto come simbolo antisionista. La ‘svastica nazista’ apparsa nella Germania guglielmina già prima di essere adottata dal Terzo Reich – ha gli uncini rotanti a rovescio ed è propriamente un sauvastica, visibile anche in decorazioni etrusche e campane.
Si riconosce, preciso, in una immagine vietnamita di Buddha (santuario in una grotta p. Danang. – Foto Aisalla, VE). Nel primo ‘900 l’aveva già adottato la mondialistica «Società Teosofica» di N.York che – “ahi, fiera compagnia!” lo inserì nel proprio stemma in­sieme con la stella di David. – Ivi, 58.
7 Bravi 1980, I 25 213, II 164 174. Ulteriori dettagli in D’Ambrosio 1995, 7 e sgg.:
«Iovi Soli» è la dedica incisa in un cilindretto d’argento rinvenuto nel 1979 a Stufles nel Brissinese fra i ruderi d’un insediamento retico d’età romana. La o di soli è contornata da una corona di raggi che rappresenterebbe «il disco fiammeggiante del sole, dispensatore di vita in tutto l’universo» con un ideogramma invece che con raffigurazione antropomorfica usuale in altri supporti, specie sulle monete».
8 G. Sermonti, Il grano dal loglio, 2012 – http:// www. rinascita.eu/index.php?action=news&id=16465
9 «All’albero infatti si appendeva l’oggetto votivo se il luogo di culto era all’aperto. Nei boschi, fin da tempi antichissimi, si innalzavano tempietti lignei a Diana alla quale i cacciatori consacravano palchi cervini; era una pratica [italica]assai diffusa presso i Veneti e anche presso i Retoetruschi […]. Quest’uso è oggi del tutto profano, limitato alle locande alpestri e alle taverne della Tuscia dove si appendono corna per tutti i gusti». – Bravi 1975, 55.


FONTI
Bravi Ferruccio, Il Sacro dei Mediterranei (Reti ed Etruschi): genesi, evoluzione, sopravvi­venze, Bolzano (CSA) 1994.
stesso, La lingua dei Reti, I-II, Bolzano (CDS) 1980.
stesso, I Retoetruschi, Bolzano (CDS) 1975.
Carpenter Edward, Pagan and Christian Creeds, 1920.
Cumont Franz Valery Marie, Les mystères de Mithria, Bruxelles 1913.
D'Ambrosio Luigi, Un culto solare nel Brissinese Romano,Bol- zano (CSA) 1995.
Savino Elena, Le radici pagane del Natale, 2004 –www.ri-flessioni.It/testi/radicinatale.htm 

sabato 16 novembre 2013

MORE ROMANO




L’esempio è il primo grande maestro. Le parole quando non sono seguite dall’azione si disperdono facilmente nel magma dell’incoerenza. Nell’educazione dei figli, nei rapporti d’amicizia, così come nella gestione del bene comune è di primaria importanza la coerenza. Per tale motivo gli antichi soppesavano con scrupolo religioso ogni atto ed ogni parola. Perché non si consideravano degli atomi separati dal consesso comunitario, liberi di dar sfogo ai più vani capricci dell’ego, ma percepivano se stessi come funzione organica di un corpo ben più vasto. E affinché un organismo possa adempiere al meglio la sua attività è necessario che ogni organo svolga il suo compito con la massima efficienza, soprattutto nei momenti di grande difficoltà, quando si trova allo stremo delle forze. Come la nostra Italia che è precipitata ai minimi storici, prona ad una classe politica ladra, ipocrita e meschina, che fa del vaniloquio il suo vessillo distintivo. Un organismo oramai malato, in cui i centri di comando si ostinano a perseguire una logica di morte mentre di facciata c'illudono che vada tutto a gonfie vele. Uno scenario tra i più desolanti. Ma poiché il disperarsi non si addice alla nostra indole, sarà bene tessere le fila della memoria fino all’origine della nostra Civiltà, a quell’antica Roma che sempre sarà somma maestra di vita. E ciò non per vana nostalgia di un passato perduto, ma come monito augurale per un prossimo futuro in cui torni a scalpitare nei cuori quella nobile fiamma capace d’istruire l’animo alla virtù. Abbiamo scelto a tal proposito un brano emblematico di Tito Livio, in cui si dimostra cosa significhi la grandezza d'animo e quanto il buon esempio, dato da uomini autorevoli, possa contagiare a macchia d'olio il popolo.
In breve l’antefatto: durante la Seconda Guerra Punica, dopo che alterne vicende avevano portato Annibale fin sotto le mura di Roma, mentre Capua e Siracusa ritornavano in mano Romana, la Repubblica vive l’ennesima tensione interna. L’erario langue surclassato dalle spese militari, mentre avanza il bisogno impellente di arruolare nuovi rematori da destinare alle flotte che presidiano i litorali italici. I consoli, con una decisione impopolare, sentenziano che i privati cittadini, a seconda del loro censo, garantiscano per trenta giorni paga e vitto ai rematori. Scoppiano immediate le proteste dei cittadini. Provati da lunghi anni di guerra, con i propri patrimoni ridotti all’osso, arrivano vicini a far scoppiare una rivolta. Il senato decide allora di consultarsi con i Consoli per trovare una soluzione equa al problema. Dopo tre giorni di dissertazioni, sull’orlo di dar seguito alla prima proposta, il console Levino prende parola ed espone la sua autorevole proposta:

Era una situazione molto difficile: ogni proposta si incagliava e sembrava quasi che una sorta di torpore si fosse impossessato delle menti dei cittadini. Espresse allora la sua opinione il console Levino: come i magistrati erano superiori al senato per la dignità della loro carica, e come il senato era superiore al popolo, così dovevano servire da guida per affrontare ogni situazione, per quanto dura e difficile fosse. Disse: <<Se uno vuole imporre una misura di legge ad un suo inferiore, deve prima imporla a sé e ai suoi: è questo il modo per ottenere facilmente obbedienza da tutti. Ed è meno gravosa una spesa quando si vede che i capi se ne assumono il peso in misura superiore a quanto loro spetti. Pertanto se è nostra volontà che il popolo romano disponga di una flotta ben equipaggiata e che i privati forniscano i rematori senza possibilità di rifiutarsi, dobbiamo imporre a noi stessi per primi l'onere. Domani, noi senatori, andiamo a versare oro, argento, tutto il bronzo coniato nelle casse dell'erario; e dunque ciascuno conservi per sé, per la moglie e per ognuno dei figli un anello, e una bolla per il figlio; quelli che hanno moglie e figlie conservino un'oncia d'oro a testa. Coloro che hanno occupato una magistratura curule conservino, in argento, i finimenti del cavallo e una libbra a testa, tanto di che trarne una saliera e un piatto per il culto divino; gli altri senatori conservino soltanto una libbra d'argento e lasciamo poi a ciascun padre di famiglia cinquemila monete di bronzo. E allora consegnamo ai triumviri tesorieri subito tutto l'oro, tutto l'argento, tutto il bronzo coniato, senza nemmeno aspettare un senatoconsulto affinché la spontaneità dell'offerta e la gara per aiutare la repubblica incitino all'emulazione prima gli animi dei membri dell'ordine equestre, poi quelli del resto della plebe. Questa è l'unica strada che noi consoli abbiamo individuato dopo aver a lungo parlato tra noi: intraprendiamola con l'aiuto degli dèi! Se lo stato è indenne, facilmente tutela la sicurezza dei patrimoni privati, ma se uno tradisce gli interessi comuni, non riuscirà mai a difendere i propri!>>. Questa proposta raccolse il consenso con tale entusiasmo che tuti, di loro iniziativa, andavano a ringraziare i consoli. Il senato fu congedato e tutti presero a versare nell'erario, sedcondo le loro possibilità, oro, argento e bronzo in una tal gara che volevano che, nei registri, i loro nomi figurassero per primi o tra i primi, e i triumviri non stavano dietro alle offerte e i segretari alle registrazioni. Questo attegiamento unanime del senato fu emulato dai memebri dell'ordine equestre e poi, di seguito, dalla plebe: così senza un editto, senza costrizione da parte dei magistrati la repubblica rispose al bisogno di rinforzi per gli equipaggi e di paghe. Apprestata ogni cosa che serviva alla guerra, i consoli partirono per le zone di operazioni di loro competenza.

Tito Livio
Libro XXVI cap. 36

lunedì 4 novembre 2013

CESARE BATTISTI E IL CONFINE AL BRENNERO - I sentimenti della vedova


I sentimenti della Vedova
di Ferruccio Bravi





Come il Martire, la vedova Ernesta Bittanti anteponeva l’Italia alla passione politica. Ricordo che, una decina d’anni prima della mia breve disputa con la figlia Livia, mi aveva inviato poche righe per ringraziarmi di averla divertita con certi epigrammi vignettati che avevo diffuso a Trento in occasione della prematura erezione dello sconcio suppositorio ivi innalzato al ‘trentino prestato all’Italia’. Aveva apprezzato la vignetta in cui Dante, “l’eterno esule”, scendeva crucciato con una valigetta ventiquattrore dal piedistallo del suo Monumento brontolando un’invettiva contro i trentini: «Se preferite a me il democristiano / faccio fagotto e me ne vo’ a Bolzano ». In particolare le era piaciuta la ‘sfumatura lirica’ d’una quartina su ‘el ròcol del pôr Cesar’1:

Quando imbruna, sul Doss Trento
scende un angelo dal cielo
e, pietoso, stende un velo
sopra l’altro monumento.

Nel breve scritto della Vedova traspariva grande attaccamento alla memoria di Cesare e sublime amor di Patria. Dalla voragine cartacea che lo ha inghiottito irrimediabilmente è emerso però un testo di valore storico: il testo d’una lettera datata Laurana, Capodanno 1921, sei giorni dopo il Natale di Sangue. Ernesta era lì, ad una ventina di chilometri da Fiume, dove fra i legionari si trovava il giovanissimo Gigino, il figlio che il Martire avrebbe voluto al suo fianco «presso la Vetta d’Italia » se il germanesimo prostrato avesse rialzato il capo. Affranta per la tragedia della Città Olocausta, così scriveva fra l’altro alla sua cara amica fiumana, Gigetta Gigante, sorella del podestà Riccardo:
«Io da qui ho assistito alla tragedia. Lei che sa con quante lagrime io avessi in precedenza pianto su questi eventi – non so se più tragici in o deprecabili nelle loro remote cause – immagina come l’angoscia mia fosse straziante. Né il mio cuore di donna sia meno straziato del mio cuore di cittadina, che tra quelle mura ove si abbatteva il cannone e crepitavano le mitragliatrici c’era mio figlio.
L’angoscia di Fiume, l’angoscia d’Italia l’ho sentita tutta nel mio cuore. Ma quanto più si soffre, più s’ama. E mi sembra di amare Fiume di sentire il palpito dell’Adriatico assai più di prima. Spero e credo che anche in loro, Fiumani, il dolore per la grave offesa offuscherà la visione dell’Italia, realtà superiore e sopravvivente ad ogni governo, non troncherà l’indomito amore con cui essi l’hanno invocata, non diminuirà la forza di resistenza ora più che mai necessaria.
All’indomani della vittoria di Vittorio Veneto fu l’ebrezza, fu l’improvviso mancare della necessità dello sforzo, fu l’affacciarsi di enormi problemi di ricostruzione, che fecero immemori i più dell’esistenza di un antico nemico interno e disaccorti delle sue insidie. Da quel giorno si iniziò la lotta che ha culminato nella tragedia di Fiume. Ebbene io mi augurò che il dolore recente faccia più saggi della gioia di allora. Che, vincendo i tumultuosi sentimen-ti dell’ora, l’animo dei fiumani riabbia quella calma coraggiosa che è essenzialmente necessaria alla calma visione delle necessità presenti e future, onde non vada totalmente smarrito il frutto di due anni di splendente eroismo. Con essa soltanto e con tenace paziente resistenza, l’animo dei fiumani, così temprato dalla lotta, saprà vincere le innumerevoli insidie, che certo in quest’ora si avvolgeranno intorno a loro… » 2.
Diagnosi ineccepibile del male, in questa lucida esternazione; ma nessuna terapia vi è esplicitamente accennata. Qualche anno dopo quel buio 1921 un compagno di Battisti, da cui certi socialisti non hanno appreso nulla, diraderà le nubi addensate su quella «realtà superiore e sopravvivente ad ogni governo » che si chiama ITALIA, fissandone saldamente i limiti al «Brennero e al Quarnaro » come era nei voti del Martire trentino.


1 Definizione, più affettuosa che irriverente, affibbiata dai trentini al Mausoleo di Cesare Battisti che per la sua forma richiama l’immagine del roccolo da uccellagione.

2 da «la Voce di Fiume », marzo 1991, n° 3, pg. 5.