Diffondo questo ricordo personale
estratto da “Letterine al Barone” di Silvestro De Dominis (mio eteronimo) in memoria di “sorella Carla”, amica indimenticabile recentemente
scomparsa: l’italianissima Carla Menapace di Bolzano, segretaria del centro di
studi atesini negli anni della mia presidenza.
F.Bravi
F.Bravi
Torre del Lago, 16 giugno 2008
Nobile illustre
amico,
La
modestia è virtù ad uso e consumo dei cialtroni. Secondo i moralisti il parlare
di sé è stupida vanità e il non parlarne è riservatezza che spesso cela
superbia agghindata di umiltà. Quale sarà il giusto mezzo? La riflessione non è
mia, è d’un fraterno amico che mi dedicò l’ultimo suo libro, una lirica
rievocazione del suo passato, edita allo spirare d’una esistenza difficile e
dignitosa. Era carico d’anni, quasi cieco, eppure sereno. La sua discrezione
era riflessa nella sua scrittura "currenti calamo", scorrevole nel
parlare degli altri, ma stenta nel narrare di sé.
L’amico scrittore era
Guido Canali che nel dopoguerra diresse l’Archivio di Stato di Bolzano. Era
prudente studioso, esperto nella lettura dei codici medievali, oculato
nell’indagine storica, narratore fine e sensibile*.
Lo conobbi nel ’50 quando, gli subentrai come reggente. Ci demmo il cambio: io
venivo da Roma, lui ci tornava per assumere un prestigioso incarico.
Proprio ieri, dal mio mare cartaceo, è emerso un
polveroso scatolone zeppo di lettere e materiale vario risalente agli anni
vissuti in quell’Istituto. Fra l’altro un quadernaccio ingiallito contenente
gli appunti didattici dell’ultimo Corso di paleografia che tenni colà
nell’anno accademico 1968-69. Tu, Barone mio, conosci per filo e per segno la
mia vita di archivario trascorsa fra polvere sospiri e sudori nel decrepito
Castel Mareccio fra il Talvera e il parco dove cavalcava il castellano, Conte von Toggenburg,
famoso più per le favolose ricchezze che per il suo ascendente, il cavaliere di
San Gallo che nella celebre ballata dello Schiller si fa eremita per una
delusione d’amore. In quella sede trascorsi anni di vita intensa altalenante
fra eventi lieti e difficoltà, soprattutto in cattedra.
Rivangando nel pensiero mi vien l’uzzolo di
raccontarla, sia pure un po’ esitante come l’amico Guido nel parlare di se
stesso, dicendo di sé appena quel tanto, senza alzarsi l’altarino, quanto basta
ad inserirsi da spettatore nell’ambiente e nei panni altrui. Al di là
dell’umana legittima ambizione, osservava il ferreo dovere – lui, specchio del
tempo vissuto – di restare in ombra per non togliere luce agli altri. Nel
rispetto di questi sentimenti rievoco i ricordi legati al vecchio quaderno
imponendomi i limiti del Canali narratore.
Tra gli appunti è compiegato un biglietto augurale
firmato da tre maturi allievi della Scuola di Paleografia, a me assai affezionati. I discenti erano in tutto nove: una piccola squadra di varia condizione ed età. Nella mia mente sfilano nitidi e vivi; li passo in rivista, al modo di Omero nella rassegna degli achei “rutilanti di cimieri scarlatti di polito rame”. Eccoli qua:
firmato da tre maturi allievi della Scuola di Paleografia, a me assai affezionati. I discenti erano in tutto nove: una piccola squadra di varia condizione ed età. Nella mia mente sfilano nitidi e vivi; li passo in rivista, al modo di Omero nella rassegna degli achei “rutilanti di cimieri scarlatti di polito rame”. Eccoli qua:
Ermete L. e Claudio
N., presidi di liceo. Il primo gioviale e loquace, l’altro contegnoso e
riservato, col tanfigno da socialista salottiero sotto il naso. Infatti
parcheggiava in area rossa. Ambedue maturi d’età e d’intelletto, interessati
alla materia, ma esigenti e uggiosi nel porre quesiti pignoli e imbarazzanti.
Due ecclesiastici di
lingua tedesca: il rubicondo Monsignor Nepomuk e un parroco di montagna
segaligno e ritto come un palo. Del secondo mi sfugge il nome, ricordo solo
che, bontà sua, si appagava di vaghe risposte a
domande di teutonica pedanteria; anzi esclamava spesso «ich gratuliiiiiire»
perché, pur straziando il tedesco, ero preciso nella terminologia specifica.
Due laici di lingua
tedesca: un Kasseroler del contado, erudito genealogista in rigoroso assetto di
bacàn de l’Écchen**,
minuscolo e paffuto come un angelo trombettiere e Hans P., badiotto serioso e
compito, fiero della parentela con la Medaglia d’Oro Giovanni Ruazzi volontario
in AOI. Nondimeno era tedescante fra il mesto ricordo
del ‘Carléto’, ultimo degli Asburgo in trono, e una vaga
inquietante nostalgia del Baffino.
Due italiani schietti:
Stefani Raimondo e Menapace Carla. Raimondo era economo dell’Istituto,
maresciallo d’artiglieria in congedo, un po’ sordicchiolo. Esperiva le brighe
burocratiche con scrupolo e senso del dovere. ‘Sorella
Carla’ – così la chiamavo – era un’insegnante della
Val di Non vecchia amica di famiglia. Tutta sale e pepe come ogni anaune di
buon sangue, intelligente e spigliata, di battuta arguta spesso pungente. Mi
chiamava ‘Capo’. Una volta, notando segni di affaticamento negli allievi,
dissi: «Facciamo una pausa: non vorrei stancarvi». E lei, con uno zinzolino di
malizia: «Ma che pausa e pausa! A me il Capo non stanca mai...».
Dulcis in fundo, la crême de la crême, un immigrato di fresco dal profondo Sud. Lo presento con le precise
parole con cui si presentò a me,
previa spagnolesca riverenza: «Io sono il Dottor
Salvatore F., alias Sįculus da Catanįa dove mi laureai in legge con 110 e
lode. Di due
blasoni mi fregio: il sole ţrípodo della Ţrinacrįa che diede i natali a me e
allo svastica įndiano e l’arma dei miei maggiori iberici
di Alįcante. Onoratįssįmo di frequentare il Suo corso!»
L’eponimo Siculus ("Ssécolosso", nell’ortoepia catanese) se lo era autoconferito e,
per recondita trafila, l’aveva insinuato perfino nell’elenco della Telve; ma i
colleghi lo chiamavano "Saccommodasse". C’era un perché e lo dico. Fu alla prima lezione.
All’ingresso Hans il badiotto gli aveva
dato la precedenza con riguardoso inchino
e lui, maestro di buone maniere, gli aprì una porta interna, in penombra, che
credeva desse nell’aula «Prego: cottesia chiama gentelezza. S’accommodasse!». E lo sospinse nel vano che non era l’aula, ma
il bugigattolo della spazzatura.
Era assiduo nella
presenza, ma assente nell’ascolto. Nel suo intelletto ingombro di femmine
lascive e riflessioni futili, non c’era posto per le ostiche e stantie nozioni paleografiche.
Disturbava spesso con osservazioni peregrine. Una volta fu sul più bello della
lezione. Presentavo la minuscola mozarabica di Spagna esaltandone l’eleganza
con estasiato compiacimento e lui, di brutto, mi interrompe: «Professòre, oggi è giòrno lavorativo . . .». E io, stizzito: «Beh? Certo che è giorno lavorativo . . .». E lui, col dito
puntato verso la mia cintura: «Infatti. Noto che
tįene aperta la bottega...».
Il prestigio del docente non crollò. Il
corso filò liscio tutto l’anno, con discreto profitto ad eccezione di Don Salvatore.
A giugno calammo giulivi a Bologna per gli esami. I miei allievi se la cavarono
senza infamia, tutti meno lui promosso per il rotto della cuffia, con la
spintarella. Ti dirò come.
Sapendolo impreparato l’avevo soccorso alla disperata con
una estrema infarinatura nel vestibolo dell’albergo, ma lui, l’incosciente, si
distraeva al va e vieni d’una formosa cameriera e a ogni
passaggio mormorava un salace apprezzamento. Il meno osceno era: «Miiízzeca, zetèlla appetetósa è!».
Digiuno di femmine e
nozioni si presentò impavido all’esame. Fu l’apocalisse. La commissione,
unanime, era interdetta: bocciarlo rincresceva, diplomarlo era uno sfregio
agli altri allievi e alla cattedra. In
extremis il presidente mi sussurrò «Provi a
fargli una domandina facile facile». «Ci proverò».
Ce la misi tutta. La
domandina aveva la risposta implicita: «Mi dica, dottore: da dove proviene la
beneventana di Zara?». E lui, pronto: «Dall’affabbeto cirílleco!». Risposta
raggelante. E dire che avevo calcato il tono sul ‘beneventana’,
ma quel balordo pretenzioso, di quelli che sanno una parola più del libro,
giustificò la topica col dire che nella Dalmazia – slava, per concezione
conformistica che occulta il passato – l’alfabeto non poteva essere se non
quello di San Cirillo.
In sede di scrutinio
il presidente si rivolse a me allargando le braccia: «Dica Lei cosa fare». «Sono perplesso anch’io – confessai. D’accordo, il diploma non lo merita, però tiene ad averlo. Non per
utilità professionale: vuole arricchire la sua collezione di attestati, brevetti,
onorificenze e patacche da esibire ad amici e concubine. È un allegro scapolo,
un po’ rompiglioso, ma non fa male a nessuno. Suvvìa, diamogli ‘sto diploma: lo
facciamo felice senza far danno ad altri. Contento lui, contenti noi che ci
togliamo di torno il flagello. Diversamente il prossimo anno sarà qui di bel
nuovo a seccarvi l’anima . . .». «È un ricatto?» fece il commissario più anziano in tono più
scherzevole che irritato. «Lo si chiami come
si vuole, ma non vedo altra via».
Ebbi ascolto e fu
promosso. «Sic
nos servavit Apollo».
La vita
trascorsa, per quanto disseminata di spine e delusioni, a rivisitarla col
pensiero si trasfigura comunque in un’aura di festevole primavera. Condividi,
Barone?
* G. Canali, Tre quarti di secolo: avventure nel tempo di un uomo qualunque (luoghi e personaggi d'Italia, in particolare di Roma, di Zara, dell'Alto Adige), Roma (Eiles) 1991.
** Così, nel dialetto di mia Madre, a significare: ‘villico della Val d’Ega / Eggental’.
"Chi ancora non lo conosce si chiede: “Ma chi sarà
mai ‘sto Barone che nell’annuario araldico non è manco nominato?”. Infatti: il
Barone de Fabriciis esiste solo nella
mia fantasia. È la mia bella copia, è colui che vorrei essere e non
sono, o non son più: giovane,
bello, aitante, tutto fosforo, olimpicamente sereno. Il Barone è il paziente
muto interlocutore in grembo al quale riverso delusioni e dubbi; nessuno mi
può comprendere, confortare, consigliare meglio di lui che è connaturato in
me.
Le mie effimere Letterine
sono una confessione resa in tono minore, ben al di sotto della saggezza,
dello stoicismo, dei pregi letterari che rendono immortali i Colloqui con me stesso d’un tal Marco Aurelio Antonino, filosofo nato a Roma come me,
di professione imperatore. A
ogni modo, con qualche granello di pepe, le mie pistolate mi alleggeriscono l’animo
e svagano gli amici lontani che le ricevono ‘per
conoscenza’."
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