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mercoledì 18 settembre 2013

LA SCUOLA DI PALEOGRAFIA



Diffondo questo ricordo personale estratto da Letterine al Barone di Silvestro De Dominis (mio eteronimo) in memoria di sorella Carla, amica indimenticabile recentemente scomparsa: l’italianissima Carla Menapace di Bolzano, segretaria del centro di studi atesini negli anni della mia presidenza.

 F.Bravi



Torre del Lago, 16 giugno 2008


Nobile illustre amico,

La modestia è virtù ad uso e consumo dei cialtroni. Secondo i moralisti il parlare di sé è stupida vanità e il non parlarne è riservatezza che spesso cela superbia agghindata di umiltà. Quale sarà il giusto mezzo? La riflessione non è mia, è d’un fraterno amico che mi dedicò l’ultimo suo libro, una lirica rievocazione del suo passato, edita allo spirare d’una esistenza difficile e dignitosa. Era carico d’anni, quasi cieco, eppure sereno. La sua discrezione era riflessa nella sua scrittura "currenti calamo", scorrevole nel parlare degli altri, ma stenta nel narrare di sé.
L’amico scrittore era Guido Canali che nel dopoguerra diresse l’Archivio di Stato di Bolzano. Era prudente studioso, esperto nella lettura dei codici medievali, oculato nell’indagine storica, narratore fine e sensibile*. Lo conobbi nel ’50 quando, gli subentrai come reggente. Ci demmo il cambio: io venivo da Roma, lui ci tornava per assumere un prestigioso incarico.
Proprio ieri, dal mio mare cartaceo, è emerso un polveroso scatolone zeppo di lettere e materiale vario risalente agli anni vissuti in quell’Istituto. Fra l’altro un quadernaccio ingiallito contenente gli appunti didattici dell’ultimo Corso di paleografia che tenni colà nell’anno accademico 1968-69. Tu, Barone mio, conosci per filo e per segno la mia vita di archivario trascorsa fra polvere sospiri e sudori nel decrepito Castel Mareccio fra il Talvera e il parco dove cavalcava il castellano, Conte von Toggenburg, famoso più per le favolose ricchezze che per il suo ascendente, il cavaliere di San Gallo che nella celebre ballata dello Schiller si fa eremita per una delusione d’amore. In quella sede trascorsi anni di vita intensa altalenante fra eventi lieti e difficoltà, soprattutto in cattedra.
Rivangando nel pensiero mi vien l’uzzolo di raccontarla, sia pure un po’ esitante come l’amico Guido nel parlare di se stesso, dicendo di sé appena quel tanto, senza alzarsi l’altarino, quanto basta ad inserirsi da spettatore nell’ambiente e nei panni altrui. Al di là dell’umana legittima ambizione, osservava il ferreo dovere – lui, specchio del tempo vissuto – di restare in ombra per non togliere luce agli altri. Nel rispetto di questi sentimenti rievoco i ricordi legati al vecchio quaderno imponendomi i limiti del Canali narratore.
Tra gli appunti è compiegato un biglietto augurale
firmato da tre maturi allievi della Scuola di Paleografia, a me assai affezionati. I discenti erano in tutto nove: una piccola squadra di varia condizione ed età. Nella mia mente sfilano nitidi e vivi; li passo in rivista, al modo di Omero nella rassegna degli achei “rutilanti di cimieri scarlatti di polito rame”. Eccoli qua:
Ermete L. e Claudio N., presidi di liceo. Il primo gioviale e loquace, l’altro contegnoso e riservato, col tanfigno da socialista salottiero sotto il naso. Infatti parcheggiava in area rossa. Ambedue maturi d’età e d’intelletto, interessati alla materia, ma esigenti e uggiosi nel porre quesiti pignoli e imbarazzanti.
Due ecclesiastici di lingua tedesca: il rubicondo Monsignor Nepomuk e un parroco di montagna segaligno e ritto come un palo. Del secondo mi sfugge il nome, ricordo solo che, bontà sua, si appagava di vaghe risposte a domande di teutonica pedanteria; anzi esclamava spesso «ich gratuliiiiiire» perché, pur straziando il tedesco, ero preciso nella terminologia specifica.
Due laici di lingua tedesca: un Kasseroler del contado, erudito genealogista in rigoroso assetto di bacàn de l’Écchen**, minuscolo e paffuto come un angelo trombettiere e Hans P., badiotto serioso e compito, fiero della parentela con la Medaglia d’Oro Giovanni Ruazzi volontario in AOI. Nondimeno era tedescante fra il mesto ricordo del Carléto, ultimo degli Asburgo in trono, e una vaga inquietante nostalgia del Baffino.
Due italiani schietti: Stefani Raimondo e Menapace Carla. Raimondo era economo dell’Istituto, maresciallo d’artiglieria in congedo, un po’ sordicchiolo. Esperiva le brighe burocratiche con scrupolo e senso del dovere. Sorella Carla– così la chiamavo – era un’insegnante della Val di Non vecchia amica di famiglia. Tutta sale e pepe come ogni anaune di buon sangue, intelligente e spigliata, di battuta arguta spesso pungente. Mi chiamava ‘Capo’. Una volta, notando segni di affaticamento negli allievi, dissi: «Facciamo una pausa: non vorrei stancarvi». E lei, con uno zinzolino di malizia: «Ma che pausa e pausa! A me il Capo non stanca mai...».
Dulcis in fundo, la crême de la crême, un immigrato di fresco dal profondo Sud. Lo presento con le precise parole con cui si presentò a me, previa spagnolesca riverenza: «Io sono il Dottor Salvatore F., alias Sįculus da Catanįa dove mi laureai in legge con 110 e lode. Di due blasoni mi fregio: il sole ţrípodo della Ţrinacrįa che diede i natali a me e allo svastica įndiano e l’arma dei miei maggiori iberici di Alįcante. Onoratįssįmo di frequentare il Suo corso!»
L’eponimo Siculus ("Ssécolosso", nell’ortoepia catanese) se lo era autoconferito e, per recondita trafila, l’aveva insinuato perfino nell’elenco della Telve; ma i colleghi lo chiamavano "Saccommodasse". C’era un perché e lo dico. Fu alla prima lezione. All’ingresso Hans il badiotto gli aveva dato la precedenza con riguardoso inchino e lui, maestro di buone maniere, gli aprì una porta interna, in penombra, che credeva desse nell’aula «Prego: cottesia chiama gentelezza. S’accommodasse!». E lo sospinse nel vano che non era l’aula, ma il bugigattolo della spazzatura.
Era assiduo nella presenza, ma assente nell’ascolto. Nel suo intelletto ingombro di femmine lascive e riflessioni futili, non c’era posto per le ostiche e stantie nozioni paleografiche. Disturbava spesso con osservazioni peregrine. Una volta fu sul più bello della lezione. Presentavo la minuscola mozarabica di Spagna esaltandone l’eleganza con estasiato compiacimento e lui, di brutto, mi interrompe: «Professòre, oggi è giòrno lavorativo . . .». E io, stizzito: «Beh? Certo che è giorno lavorativo . . .». E lui, col dito puntato verso la mia cintura: «Infatti. Noto che tįene aperta la bottega...».
Il prestigio del docente non crollò. Il corso filò liscio tutto l’anno, con discreto profitto ad eccezione di Don Salvatore. A giugno calammo giulivi a Bologna per gli esami. I miei allievi se la cavarono senza infamia, tutti meno lui promosso per il rotto della cuffia, con la spintarella. Ti dirò come.
Sapendolo impreparato l’avevo soccorso alla disperata con una estrema infarinatura nel vestibolo dell’albergo, ma lui, l’incosciente, si distraeva al va e vieni d’una formosa cameriera e a ogni passaggio mormorava un salace apprezzamento. Il meno osceno era: «Miiízzeca, zetèlla appetetósa è!».
Digiuno di femmine e nozioni si presentò impavido all’esame. Fu l’apocalisse. La commissione, unanime, era interdetta: bocciarlo rincresceva, diplomarlo era uno sfregio agli altri allievi e alla cattedra. In extremis il presidente mi sussurrò «Provi a fargli una domandina facile facile». «Ci proverò».
Ce la misi tutta. La domandina aveva la risposta implicita: «Mi dica, dottore: da dove proviene la beneventana di Zara?». E lui, pronto: «Dall’affabbeto cirílleco!». Risposta raggelante. E dire che avevo calcato il tono sul beneventana’, ma quel balordo pretenzioso, di quelli che sanno una parola più del libro, giustificò la topica col dire che nella Dalmazia – slava, per concezione conformistica che occulta il passato – l’alfabeto non poteva essere se non quello di San Cirillo.
In sede di scrutinio il presidente si rivolse a me allargando le braccia: «Dica Lei cosa fare». «Sono perplesso anch’io confessai. D’accordo, il diploma non lo merita, però tiene ad averlo. Non per utilità professionale: vuole arricchire la sua collezione di attestati, brevetti, onorificenze e patacche da esibire ad amici e concubine. È un allegro scapolo, un po’ rompiglioso, ma non fa male a nessuno. Suvvìa, diamogli ‘sto diploma: lo facciamo felice senza far danno ad altri. Contento lui, contenti noi che ci togliamo di torno il flagello. Diversamente il prossimo anno sarà qui di bel nuovo a seccarvi l’anima . . .». «È un ricatto?» fece il commissario più anziano in tono più scherzevole che irritato. «Lo si chiami come si vuole, ma non vedo altra via».
Ebbi ascolto e fu promosso. «Sic nos servavit Apollo».
La vita trascorsa, per quanto disseminata di spine e delusioni, a rivisitarla col pensiero si trasfigura comunque in un’aura di festevole primavera. Condividi, Barone?

 * G. Canali, Tre quarti di secolo: avventure nel tempo di un uomo qualunque (luoghi e personaggi d'Italia, in particolare di Roma, di Zara, dell'Alto Adige), Roma (Eiles) 1991. 

** Così, nel dialetto di mia Madre, a significare: ‘villico della Val d’Ega / Eggental’.




"Chi ancora non lo conosce si chiede: “Ma chi sarà mai ‘sto Barone che nell’annuario araldico non è manco nominato?”. Infatti: il Barone de Fabriciis esiste solo nella mia fantasia. È la mia bella copia, è colui che vorrei essere e non sono, o non son più: giovane, bello, aitante, tutto fosforo, olimpicamente sereno. Il Barone è il paziente muto interlocutore in grembo al quale riverso delusioni e dubbi; nessuno mi può comprendere, confortare, consigliare meglio di lui che è connaturato in me.
Le mie effimere Letterine sono una confessione resa in tono minore, ben al di sotto della saggezza, dello stoicismo, dei pregi letterari che rendono immortali i Colloqui con me stesso d’un tal Marco Aurelio Antonino, filosofo nato a Roma come me, di professione imperatore. A ogni modo, con qualche granello di pepe, le mie pistolate mi alleggeriscono l’animo e svagano gli amici lontani che le ricevono ‘per conoscenza’."
 
 
 

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