Prefazione
Un
evento di grande portata storica e militare, quale fu la Vittoria del
4 novembre 1918, dovrebbe essere già di per sé sufficientemente
valido a porre fuori discussione il diritto dell'Italia all'Alto
Adige, in quanto è diritto scaturito dalla forza delle armi e dal
sacrificio cruento e quindi non meno valido del diritto originato da
altre fonti; ma purtroppo il trascorrere del tempo e lo scadimento
dei costumi vanno attenuando nella coscienza degl'Italiani il
significato storico e morale della Vittoria, mentre l'Alto Adige
diviene oggetto di discussione, mentre la carenza dei pubblici poteri
e il lassismo della generalità degl'Italiani incoraggiano una
minoranza linguistica a reclamare a sua volta – con la parola, con
gli oltraggi, con gli attentati – il diritto di rescindere il suo
destino da quello dell'Italia. Nasce così la necessità di
rievocare, al di là della Vittoria di quarantaquattro anni orsono,
quei fatti di più remota origine che sono alla base del diritto
dell'Italia alla terra atesina e trascendono anche la santità del
principio secondo cui i confini politici degli stati nazionali devono
coincidere con i confini geografici: intendo le tradizioni storiche,
culturali ed economiche attraverso le quali l'Italia ha espresso la
sua presenza morale in Alto Adige nei secoli passati. L'Italia è a
Bolzano, è al Brennero, non già dal 4 novembre 1918: a dimostrare
che l'Alto Adige non è terra tedesca, ma terra latina e neolatina,
basta qualche considerazione più approfondita di quelle comunemente
acquisite. Non pretendo di affermare cosa nuova nel ricordare, ad
esempio, che il cosiddetto gruppo etnico tedesco non è affatto un
gruppo compatto, bensì la risultante di una mescolanza di stirpi in
cui l'elemento germanico ha un'entità trascurabile: la maggioranza
dei sud-tirolesi è di stirpe neolatina, ne più ne meno come i
trentini e i cosiddetti ladini, sovraimposta alla stirpe retica (
composita e non germanica ) e rinvigorita da nuclei italiani rifluiti
dal sud in varie epoche, non l'apporto etnico di trascurabili gruppi
immigrati dalla Germania alla spicciolata ( baiuvari, e più tardi
bavaresi, svevi etc. ) ma le particolari condizioni politiche imposte
dal germanesimo nel corso di otto secoli alla nostra regione, hanno
sottoposto la popolazione atesina ad una progressiva germanizzazione,
prima occasionale e infine sistematica. Che la popolazione dell'Alto
Adige sia di stirpe in gran prevalenza non tedesca è facilmente
dimostrato – oltre che dagli studi specifici del Tolomei prima, del
Battisti ed altri poi - dalla schiacciante maggioranza di cognomi
atesini di origine neolatina e, in parte, di forma prettamente
italiana.
Perciò
quando oggi, più o meno a sproposito, si parla di un diritto etnico
in base al quale si devono difendere e conservare i caratteri della
lingua, dalla cultura e dal folklore altoatesino, ci si dimentica che
tali caratteri sono tutt'altro che originari e sono invece
soprattutto acquisiti attraverso un processo di assimilazione
linguistica che, con il venir meno delle condizioni politiche che
l'hanno determinato, è suscettibile non di conservazione ma di
ulteriori mutamenti. Malgrado tutto questo, vive e prospera il dogma
di un Alto Adige « compattamente
tedesco per lingua e per tradizioni, strappate a non si quale madre
patria tedesca (1) » su questo dogma
vivono di rendita i più insigni cervelloni d'oltralpe ai quali nulla
manca per bandirlo ai quattro venti: dalle più svariate associazioni
politiche e culturali istituite sia in Germania che in Austria, alle
pubblicazioni d'ogni genere largamente sovvenzionate, alla stampa
periodica e quotidiana attraverso la quale essi battono e ribattono
il chiodo del sud tirolo tedesco in clima di rifiorente
pangermanesimo. A questo punto s'impone una domanda: cosa si fa dalla
nostra parte? Poco e niente. Ad una « cultura » aggressiva e ben
foraggiata di parte tedesca, l'Italia ufficiale oppone il culturame
degli pseudo-intellettuali e degli pseudo-politici permeati da quella
« cupidigia di servilismo » scaturita dalla disfatta: costoro
mettono in dubbio, quando non misconoscono o rinnegano, il diritto
dell'Italia all'Alto Adige. Ai pochi studiosi seri, pensosi e
documentati l'Italia ufficiale nega protezione e incoraggiamento,
ignorandoli o addirittura contrastandone l'attività che essi
svolgono in umiltà francescana. Dalla constatazione di questa grave
carenza che tanto nuoce alla causa dell'Alto Adige è nata l'idea
della nostra collana « I Quaderni della Clessidra » i quali hanno
lo scopo di divulgare in forma piana ed accessibile ciò che
gl'Italiani non possono ignorare, anzi debbono rammentare
costantemente, a meno di non disertare una lotta che per l'Alto Adige
non è soltanto di posizioni politiche, ma soprattutto di posizioni
morali. Ferruccio Bravi apre la collana con una monografia sulle
“Fiere di Bolzano”. L'argomento, da altri in passato trattato in
forma discontinua e frammentaria, ha trovato in lui un documentatore
accorto e vigile, oltre che un espositore spassionato e arguto che
riesce a trattare con briosa vivacità una materia di per sé arida e
piatta. Ci auguriamo che a questa iniziativa arrida un meritato
successo che possa giovare, non già a noi della “Vetta d'Italia”,
ma agli italiani e a l'Alto Adige. Ne trarremmo conforto e
incitamento per moltiplicare le nostre energie e i nostri sforzi
affinché il seme da altri maggiori gettato non vada perduto.
Andrea
Mitolo
Bolzano,
4 Novembre 1962
LE
FIERE DI BOLZANO
E
LE ATTIVITÀ MERCANTILI ITALIANE
NEL PASSATO
ORIGINI
LEGGENDARIE: DA ARRIGO IL SANTO AL POVERELLO D'ASSISI
Una
tradizione fondata su una scrittura del tardo settecento fa risalire
agl'inizi del mille l'istituzione delle fiere di Bolzano per effetto
d'una carta mercantile concessa da Arrigo II il Santo. Era questi un
imperatore di Germania noto ai tedeschi per mitezza e specchiata
virtù, ma ancor più noto agl'italiani per aver spodestato Arduino
primo re d'Italia e per la ferocia con cui aveva represso la rivolta
antitedesca divampata a Roma nell'anno della sua incoronazione.
Ambita o meno che sia, questa sanzione germanica posta alle origini
dei mercati bolzanini è da relegare nel mondo della leggenda : se si
pensa che la nostra città agli albori del mille era nulla più che
un oscuro villaggio incastrato fra la nebbia e gli acquitrini, è
facile immaginare che il santo imperatore, discendendo e risalendo la
val d'Adige al fianco della sua illibata Cunegonda, non abbia neanche
notato i quattro tuguri divisi da un crocicchio che, con la chiesa,
costituivano tutta la Bolzano di allora. Non meno dubbia appare certa
documentazione indiretta secondo la quale Bolzano sarebbe stata città
mercantile già nel 1070 ; città lo era forse quanto Petramala che
Dante chiama argutamente «amplissima urbs» o quanto Novgorod ai
tempi di Gogol, sorta attorno ad una “magnifica pozzanghera".
Gli ampliamenti del nucleo primitivo del villaggio nel corso del
dodicesimo secolo furono di entità cosi trascurabile che
difficilmente potremmo ambientare in quelle mura ristrette una fiera
o un mercato locale d'una certa importanza. Di conseguenza non ha
fondamento la pur suggestiva tradizione, generalmente accolta,
secondo la quale Francesco d'Assisi avrebbe dimorato per qualche
tempo a Bolzano col padre Bernardone, ricco mercante di panni, e
avrebbe servito la Messa all'altare di S. Ingenuino sul luogo dove fu
poi edificato il convento dei Francescani.
CARATTERE
ITALIANO DELLE PRIME FIERE
Senza
tanto dilungarci su leggende e notizie di scarsa base, passiamo
senz'altro alle prime documentazioni dirette delle fiere bolzanine
che risalgono agil'inizi del duecento. Si tratta di elementi scarsi e
frammentari da cui si può agevolmente dedurre che a Bolzano, non
meno che in altre città d'Italia, le più antiche manifestazioni
nundinali avevano carattere italiano. Basti l'accenno ad un
particolare privilegio goduto anticamente dalla Comunità di Riva che
inviava a Bolzano una sua rappresentanza con il proprio stendardo ;
la presenza dei rivani nella nostra città era la «conditio sine
qua» non potevano celebrarsi le fiere. Questa circostanza sembra
confermare il carattere locale di tali fiere che saranno in grado di
uscire dall'angusto ambito dell'economia regionale soltanto più
tardi, nel duecento inoltrato, quando si sviluppano i grandi traffici
e gli scambi tra il nord e e il sud dell'Europa. Da questo sviluppo
procede la fortuna economica dei centri favoriti dalla posizione
geografica, come la nostra città situata sulla grande arteria
commerciale che collega l'Italia alle terre d'oltralpe. Questa realtà
crea i presupposti della funzione economica di una Bolzano destinata
a divenire punto di sutura – un "ponte" si direbbe
oggi – delle nazioni latina e germanica; punto di sutura,
beninteso, dei rispettivi interessi commerciali e non già dei due
popoli, che restano fatalmente separati – ad onta dei deliri
europeistici di casa nostra – da una profonda diversità di cultura
e di tradizioni, oltre che da una barriera naturale insopprimibile.
DAL
PREDONE MAINARDO A ENRICO «RE»
FANNULLONE
Le
condizioni politiche dell'Alto Adige nella seconda metà del
tredicesimo secolo determinano un arresto al naturale evolversi delle
fortune mercantili di Bolzano. Il dominio dei conti di Tirolo che si
sovrappone alla signoria dei vescovi di Trento e di Bressanone -
vassalli dell'Impero dagli albori del Mille - crea profondi
rivolgimenti in tutta la regione fra il Brennero e il Garda:
usurpazioni, eccidi, razzie e rovine segnano l'affermarsi dei nuovi
padroni, i conti tirolesi, e raggiungono il culmine sul finire del
duecento con Mainardo II, predone tre volte scomunicato come il
tiranno Ezzelino di cui egli emula le gesta. Bolzano, teatro
dell'estrema contesa fra il vescovo di Trento e il conte di Tirolo,
insorge contro l'usurpatore nel 1277; ma dopo un breve assedio è
costretta alla resa. Il muro di cinta è abbattuto, la torre
diroccata, l'abitato ridotto in un cumulo di macerie; gran parte
degli abitanti periscono nelle stragi o trovano scampo nella fuga. Un
disastroso incendio semina nuove distruzioni e lutti nel 1291. Dopo
tante vicissitudini, la città comincia a risorgere, si rianima,
anche la sua vita commerciale riprende. Spento ormai il ricordo degli
orrori legati alla conquista di Mainardo, i bolzanini si acconciano
al nuovo ordine di cose. Del resto il nuovo conte tirolese è
abbastanza tollerabile: regna ma non governa, come si addice appunto
ad un sovrano quale egli, Enrico, era stato prima di essere deposto
dal trono di Boemia. Il conte Enrico piace: è uno spendaccione
gaudente che ama i banchetti e le cacce, s'indebita fino al collo,
vive e lascia vivere. E' in questo clima di beata distensione che i
commerci tornano a fiorire e gl'italiani rifluiscono a Bolzano.
L'ETA'
DI DANTE : I BIANCHI, I NERI... E I ROSSI
Mentre
Bolzano risorge, un'altra città più a sud va in rovina : è
Firenze, « la città partita», sconvolta dal furore delle fazioni,
prossima a diventare preda del primo arrivato. Come Dante, molti
fiorentini di parte Bianca lasciano le rive dell'Arno volgendo i
passi verso il nord con la patria nel cuore e una disperata
nostalgia. E' proprio in questi anni, i primi del trecento, che la
comunità fiorentina di Bolzano si dilata: ai molti concittadini
sospinti in Alto Adige dal naturale espandersi del ceto mercantile,
si uniscono gli esuli e coloro che non sono compromessi con la
politica, ma desiderano concludere in santa pace gli affari loro. Fra
gli immigrati di vecchia data è Lambertuccio Frescobaldi, banchiere
mercante e anche poeta, parente di quel Berto spaccone che - narra il
Compagni - «disse forte villania a Giano della Bella» e
barcamenandosi fra Bianchi e Neri non prese mai posizione nelle
grandi contese. In Alto Adige il Frescobaldi non fa poesia: fa
lucrosi affari come banchiere dei conti di Tirolo. Dopo la sua morte,
seguita nel 1304, ascende a grande fortuna un'altra importante casata
mercantile di Firenze: è quella dei Rossi, originari del sestiere di
S. Felicita, che a Bolzano, ad Egna a Trento e in seguito anche ad
Innsbruck posseggono gabelle, mute e «casane». La casana - banco di
prestito su pegno - è peculiare istituzione dei fiorentini che la
introducono a Bolzano verso il 1290 (ne è titolare un «prestitor
Caspar»); esisteva già a Merano - ove la comunità fiorentina era
altrettanto numerosa che nella nostra città - fin dal 1287 ed era
gestita da un «Filipus Tuscanus de Florentia» e dai suoi fratelli
Morsello e Nasone.
PRODIGHI
E USURAI I MERCANTI FIORENTINI
Ai
Rossi, poi intedescati in Botschen, si deve in parte
l'abbellimento della città di Bolzano risorta dalle rovine del 1277
e del 1291. La loro munificenza e attestata dallo stemma di famiglia
che si trova in S. Giovanni in Villa ; qui, come pure nelle chiese
cittadine, molte pie fondazioni si intitolano al loro nome. Numerosi
altri fiorentini esercitano la mercatura a Bolzano nell'età di
Dante: nella nostra città si trovano a loro agio, come a casa loro,
italiani fra italiani poiché tali erano i bolzanini in quegli anni,
non ancora contaminati dalla lingua e dai costumi dei tedeschi. In
questa seconda patria commerciano, si arricchiscono e non lesinano il
soldo nel contribuire ai restauri della città che rinasce più
estesa e più bella attorno al rettifilo dei Portici. Investono
capitali ingenti acquistando o costruendo edifici; diventano
proprietari di vasti fondi rustici nel contado bolzanino come pure
nel Meranese e nel Burgraviato; gravano d'ipoteche i beni stabili di
famiglie locali borghesi e magnatizie. Perfino Castel Macina,
proprietà del conte di Tirolo ingolfato nei debiti, è pignorato da
una società di banchieri di Firenze che vi eserciscono l'appalto del
dazio e vi installano un banco di prestiti ad usura tanto malfamato
che la tradizione ne ha consacrato il soprannome «Casa degli
Strozzini ».
LA
FIERA SOTTO I PORTICI
Al
tempo dei Rossi e dei Frescobaldi le fiere di Bolzano erano soltanto
due : quelle di mezza Quaresima e di S. Egidio, poi chiamata di S.
Bartolomeo. Più tardi se ne aggiunsero altre due: quella di S.
Andrea, istituita verso il 1357, e quella del Corpus Domini che ebbe
origine dal mercato di Pentecoste di Merano trasferito a Bolzano
agl'inizi del sedicesimo secolo. Le quattro celebrazioni si
avvicendavano a intervalli quasi regolari nel corso dell'anno e
duravano almeno due settimane ciascuna. Più solenne e meno
strepitosa di oggi ne era l'apertura: non diversamente che a Roma, a
Napoli e in altri centri della Penisola, le grandi fiere di Bolzano
erano annunciate da un suono festoso di campane e proclamate da un
magister nundinarurn parato a festa preceduto da un pittoresco
tamburino che accompagnava il suo passo cadenzato. Il mercato si
teneva nella via dei Portici dove i « fonteghi » e i magazzini
rigurgitavano d'ogni ben di Dio : lungo i cosiddetti «portici
italiani» (a settentrione) si esponevano le pregiate sete di Lucca,
le «pezze» di Milano e quelle di Firenze col sigillo dell'Arte
della Lana, i prodotti orientali importati da Venezia, oggetti di
squisita fattura creati dalle botteghe artigiane della Toscana, di
Napoli, di Roma, della lontana Calabria; dirimpetto, lungo i «portici
tedeschi », facevano bella mostra oggetti d'oro e di ferro battuto,
pellami e cuoi a sbalzo, merci d'ogni genere provenienti dai paesi
nordici. Rare le insegne e non ispirate al cattivo gusto della
bilinguità ad oltranza. Sotto i portici si contrattava in italiano,
in tedesco o in dialetto senza instralci o inibizioni freudiane ;
poiché a quei tempi l'on. Volgger non era ancora nato e il «diritto»
di fingere d'ignorare l'italiano a Bolzano era ancora di là da
venire.
SOPRUSI
CONTRO I MERCANTI ITALIANI
Il
promettente svolgimento delle fiere bolzanini subisce. un duro colpo
verso la fine del quindicesimo secolo in coincidenza con un grave
avvenimento politico: l'apertura delle ostilità contro Venezia, nel
1487, da parte di Sigismondo il Danaroso arciduca d'Austria.
Insediata politicamente nel basso Trentino, presente nella stessa
Bolzano con i suoi mercanti, la potenza veneziana costituiva una
costante minaccia ai domini degli Absburgo al di qua delle Alpi. Fu
la guerra, breve e travolgente, che ebbe sfortunato epilogo a
Calliano dove la Serenissima fu battuta e umiliata. A Bolzano, già
nell'aprile di quell'anno, Sigismondo aveva fatto imprigionare
qualche centinaio di mercanti veneziani; dopo Calliano, egli dette un
secondo giro di vite emanando un privilegio per le fiere di Bolzano
che nella sostanza danneggiava i nostri commercianti. La nuova carta
mercantile, datata 1488, disponeva testualmente all'art. IV: «Dato
che i Welschen (ossia i forestieri italiani), acquistano molte case e
vi collocano persone di scarso conto è nostro intendimento che essi
abitino personalmente gli alloggi o li cedano a gente più adatta
agli affari e ai bisogni della città». A questa disposizione
restrittiva, in apparenza di scarsa portata, si ispirarono una serie
di provvedimenti iniqui che le autorità locali emisero a danno
degl'italiani dal 1488 fino oltre la metà del cinquecento. Con uno
zelo degno di causa migliore, i tirolesi dell'amministrazione civica
adottarono misure energiche per impedire l'afflusso di italiani a
Bolzano e per estromettere quelli che già vi risiedevano, rendendo
inoperante lo statuto del 1448 che concedeva il diritto di
cittadinanza agli italiani e ai ladini. Per effetto delle nuove norme
anche quei mercanti italiani che possedevano case in città ed erano
regolarmente iscritti nei registri d'incolato furono trattati come
stranieri e privati d'ogni beneficio goduto dai bolzanini.
VIA
GLI ITALIANI! LA CITTA' DIVENTA TEDESCA
«Mandare
fuori dai piedi gli italiani » - anweck pack'n zum taiffl -
era lo slogan alla moda: una deliberazione comunale del 1524 ne dava
pratica attuazione negando tassativamente ai nostri connazionali il
diritto di risiedere a Bolzano. La deliberazione, riconfermata ben
tre volte fino al 1568, appare ancora in vigore nel 1579: è infatti
in quest'anno che il Comune rifiuta la residenza a un gruppo di
commercianti italiani (Raffaele Marco da Firenze, Domenico Avancini
da Riva, Cristiano Visintin da Trento e molti altri) che si
proponevano di impiantare a Bolzano un istituto di credito e
un'industria per la lavorazione della seta in cui avrebbero trovato
occupazione parecchi operai italiani e tedeschi. Il rifiuto era
motivato dal timore che le progettate attività
richiamassero
a Bolzano altri italiani «con grave pregiudizio per il carattere
tedesco della città». Bolzano
era infatti diventata tedesca nel corso degli ultimi cento anni,
tedesca nelle architetture e nel linguaggio : fin dal 1483, anno del
disastroso incendio che aveva distrutto la città vecchia, si era
intensificata la costruzione di edifici in quello stile gotico che
altrove aveva già fatto il suo tempo, specie in Italia dove le città
erano state «riempite - scrive il Vasari - di questa maledizione di
fabbriche»; non diversamente, alla lingua usuale che a Bolzano era
stata italiana fin verso la metà del quattrocento - cosi riferisce
P. Felice Faber da Ulma e conferma Gian Pirro Pincio - si era
sovrapposto, sguaiato e duro, il dialetto tirolese. La città aveva
assunto un volto diverso, la comunità italiana si era assottigliata,
ristagnavano i commerci e le attività delle fiere sulle quali era
fondato il benessere della cittadinanza. Cosi piaceva ai tirolesi di
allora; cosi piacerebbe anche a certi tirolesi di oggi che pur di non
convivere con gl'italiani ridurrebbero la nostra città nello
squallore d'un paesone privo di risorse, miserabile, ma tutto
tedesco.
REALTA'
INSOPPRIMIBILE. LA PRESENZA DEGL'ITALIANI A BOLZANO
Malgrado
le difficoltà e i provvedimenti discriminatori, la vitalità dei
nuclei italiani restati a Bolzano è ancora notevole verso la metà
del cinquecento. Molte case sono ancora in possesso di nostri
commercianti che tendono a concentrarsi nella zona dei Portici. Lo
sviluppo delle fiere riprende, quantunque i nostri mercati siano un
po' dappertutto in decadenza: è ancora una volta Venezia che tenta
la penetrazione economica nell'Alto Adige mirando al monopolio delle
attività commerciali italiane e tedesche. Anche la presenza di
«commedianti welsch» - attori comici e cantanti - in tempo di fiera
a partire dalla metà del secolo è indice di una notevole
consistenza dell'elemento italiano in città. La nostra collettività
diventa ancora più numerosa al principio del seicento: ne abbiamo
conferma in una richiesta, avanzata dai commercianti al Comune nella
primavera del 1609, intesa ad ottenere la nomina d'un giudice di
nazionalità italiana per risolvere le controversie mercantili.
Questa aspirazione sarà ampiamente soddisfatta nel 1633 mediante
l'istituzione del Magistrato Mercantile di Bolzano, speciale
magistratura con attribuzioni e strutture simili a quelle dei fori
commerciali preesistenti in altre città d'Italia. Nel complesso si
hanno favorevoli indizi circa la folta presenza di mercanti italiani
durante i primi decenni del seicento; non è possibile stabilirne il
numero esatto - nella vecchia Bolzano era ancora sconosciuta l'usanza
di «contarsi » giorno per giorno come si fa oggidì - però si può
precisare in base a documentazioni attendibili che le case
commerciali italiane della città, rispetto a quelle tedesche avevano
allora il rapporto di tre a uno, più o meno come ai nostri giorni.
CLAUDIA
DE' MEDICI E IL MAGISTRATO MERCANTILE
Un'arciduchessa
d'Austria d'illustre famiglia toscana, Claudia de' Medici «relicta
vedova» d'un Absburgo e reggente la Contea del Tirolo, concedeva fra
il 1633 e il 1635 privilegi e franchigie ai mercanti che
frequentavano le fiere della nostra città. Per effetto di tali
privilegi - che fra l'altro ponevano su un piano di parità i
commercianti italiani e tedeschi - sorgeva il Magistrato Mercantile
di Bolzano, organismo che per oltre due secoli sarà valido strumento
di prosperità economica non soltanto per la città, ma per tutta la
provincia tirolese. Il Magistrato Mercantile esercitava ampi poteri
giurisdizionali in materia di fiere e di commerci, in specie per la
composizione delle controversie tra fieranti ; era retto da due
consoli - magistrati di prima e di seconda istanza - assistiti
ciascuno da due consiglieri. Consoli e consiglieri -
alternativamente italiani e tedeschi - erano eletti dal corpo dei
Contrattanti costituito dai più reputati frequentatori delle
fiere elencati in una matricola; i candidati alle cariche dovevano
pure essere iscritti nella matricola e la loro elezione doveva essere
ratificata dal Governo provinciale. Per elezione si nominava pure il
personale amministrativo costituito da cancellieri, attuari
(coadiuvati da notai in tempi più recenti), bidelli,
cursori etc. Il Magistrato Mercantile disponeva anche di una
stamperia impiantata nella città da i n tipografo probabilmente
veneziano, Carlo Girardi, nel 1659; si tratta della prima tipografia
di Bolzano, sorta ben centosettanta anni dopo quella del Manuzio (non
soltanto l'arte della stampa, ma tutto in Alto Adige ebbe carattere
ritardatario, specialmente nei periodi in cui ristagnavano le
attività italiane). Alla complessità delle strutture del Magistrato
faceva riscontro l'estrema snellezza dei procedimenti giudiziari,
come esigeva lo spirito pratico dei commercianti che anche allora
detestavano le lungaggini burocratiche e le sottigliezze dei legulei;
a costoro - salvo rare eccezioni - era anzi interdetto l'ingresso nel
foro mercantile. Altra categoria di illustri esclusi era quella dei
baccani tirolesi dediti al commercio del bestiame, del vino, delle
biade e di altre mercanzie villerecce. Esclusione più che giusta:
rifiutandosi di accogliere nel suo seno quei tipici «ornamenti» del
paesaggio tirolese, il Magistrato era coerente al motto della sua
impresa che era, appunto, «Ex merce pulchrior».
LINGUA
ESCLUSIVAMENTE ITALIANA FINO AL 1787
Dell'attività
svolta dal foro mercantile per oltre duecento anni resta una
imponente documentazione costituita da una cinquantina di codici e
circa cinquecento fasci di atti giudiziari e contabili in gran parte
rilegati in volume. Queste scritture sono redatte esclusivamente in
italiano, salvo qualche inserto, fino al 1787; dopo quest'anno - per
effetto della politica germanizzatrice di Giuseppe II - la lingua
tedesca sostituisce gradualmente la nostra fino a diventare lingua
unica d'ufficio nel 1809. Italiano era anche il testo degli originali
delle patenti sovrane concesse al Magistrato, dalla «carta
claudiana» del 1635 - ispirata dagli ordinamenti mercantili della
città di Verona - alle varie riconferme dei successori di Claudia
avanti le riforme giuseppine; questi originali purtroppo non si
trovano più, essendo stati trafugati da nazisti tirolesi nel corso
dell'ultima guerra. Le cariche del Magistrato erano generalmente
ricoperte da italiani: fra il 1633 e il 1800 più della metà dei
consoli e dei consiglieri, quasi tutti i cancellieri e gli attuari
appartenevano alla nostra nazionalità. Fra i cancellieri si
ricordano anche tre Rosmini ascendenti del filosofo roveretano.
L'entità dell'elemento mercantile italiano emerge con maggiore
evidenza dal ruolo o matricola dei contrattanti in cui sono elencati
nomi di commercianti d'ogni parte d'Italia: molto elevato e il numero
dei roveretani, dei trentini, dei lombardi e dei lucchesi; notevole
il concorso dei fiorentini, dei marchigiani, dei romani e degli
umbri; calabresi, pugliesi, triestini, dalmati e siciliani sono pure
presenti. Più numerosi di tutti sono i veronesi che nel 1638
rappresentano quasi la metà dei contrattanti italiani e nel corso di
due secoli di vita mercantile di Bolzano danno al Magistrato ben 71
consoli e 170 consiglieri.
ARTE
ITALIANA E MECENATISMO MERCANTILE NEI LA BOLZANO DEL SETTECENTO
L'apporto
dei veronesi è determinante non solo nell'ambito della mercatura, ma
anche nelle manifestazioni artistiche da esse incoraggiate. Notevoli
sono le tracce dell'attività svolta a Bolzano da artisti della città
scaligera provenienti da ricche famiglie mercantili, quali i Perotti
i Balestra il Pezzi e altri ancora. A un Francesco Perrotti si deve
il progetto della sontuosa sede del Magistrato Mercantile, fra via
Argentieri e i Portici Italiani, che ospita attualmente la Camera di
Commercio. L'opera fu relizata fra il 1708 ed il 1728 dagli
architetti civici di Bolzano Giovanni e Giuseppe Delai, originari
della Lombardia; nelle sale spaziose dell'edificio si ammirano
tuttora opere di artisti veronesi e lombardi, fra le quali tele
pregiate di soggetto sacro, profano e allegorico. Risalgono al
periodo della massima floridezza del commercio bolzanino parecchie
opere d'arte italiana realizzate con il danaro dei nostri mercanti,
la cui munificenza era in stridente contrasto con la proverbiale
tirchieria della civica amministrazione. Accenniamo alle più
importanti: la cappella fatta edificare dai fieranti nella Chiesa dei
Domenicani fra il 1640 e il 1685, con altare e dipinti (la pala è
del Guercino) – opere tutte di scultori e pittori italiani;
l'altare, il secondo, offerto da «mercatores
ad nundinas confluentes» alla cappella di S. Antonio nella Chiesa
dei Francescani, opera dello scultore ed architetto Giovanni Battista
Bianchi, uno dei tanti artisti veronesi che a Bolzano hanno lasciato
orma durevole. Il mecenatismo mercantile finanzia pure manifestazioni
musicali e teatrali di carattere italiano che s'impongono al gusto
del pubblico ormai stucco dei tradizionali Spiele
di
marca nordica. Opere buffe di Paisiello e Cimarosa, rifacimenti di
commedie goldoniane (La
Pamela Nubile)
e altre ancora spengono del tutto il ricordo dei tetri polpettoni
d'ambiente biblico-tirolese, ai quali Aristotele tutto avrebbe
rimproverato salvo il rispetto dell'unità di luogo: ché l'azione di
codesti Spiele
si svolgeva da cima a fondo attorno ad una tavola apparecchiata o
nell'Arca di Noè.
DECADENZA
DELLE FIERE
Raggiunta
la massima floridezza nei primi decenni del settecento, le fiere di
Bolzano cominciarono a decadere verso la metà del secolo per varie
cause: la concorrenza dei traffici incanalati su nuove strade aperte
verso i Grigioni e le Alpi Carniche, il mancato sostegno delle
autorità governative e, soprattutto, l'evolversi della situazione
marittima nell'Adriatico. In questo mare la potenza veneziana ormai
al tramonto perde posizioni su posizioni a vantaggio dell'Austria che
inaugura, appunto nell'Adriatico, una propria politica marinara: nel
1719 Trieste e Fiume sono dichiarati porti franchi e nasce la
«Compagnia
Orientale» che assume l'appalto dei traffici fra l'Adriatico e il
Danubio; più tardi, nel 1729, il governo austriaco progetta di
manipolare le tariffe doganali in modo da favorire il transito
attraverso Trieste e Fiume e far dirottare le merci italiane sulla
«via di Villaco» scavalcando a monte la «via del Tirolo». Il
Magistrato Mercantile tenta di correre ai ripari inviando ad
Innsbruck e a Vienna una commissione con l'incarico di
distogliere il governo da tale proposito; vari «botticelli di vin
dolce» e altre «regalie a ministri e paroni» rendono più
convincenti le argomentazioni dei commissari che riescono a spuntarla
con relativa facilità, ottenendo dal governo la proroga delle
vecchie tariffe e l'impegno di lasciare in stato di abbandono e
quindi intransitabili le vie di comunicazione con Trieste. Ciò non
impedisce a Vienna di riprendere, di li a qualche decennio, la sua
politica adriatica che fa di Trieste la grande concorrente di Venezia
e il primo porto dell'Impero. Speciali riduzioni e franchigie
daziarie sono in seguito elargite alla città dal Governo che in pari
tempo provvede a riattivare le vie di comunicazione fra il porto e
l'Hinterland. Di conseguenza sono compromessi i traffici sulla via
del Brennero sempre più disertata; il volume d'affari nelle fiere di
Bolzano subisce una progressiva contrazione che diventa allarmante
quando, nel 1780, Maria Teresa d'Austria impone alla città onerose
tariffe daziarie. Tre anni dopo, entra in scena Giuseppe II con le
sue riforme ed è la fine.
GIUSEPPE
II - RESTAURATORE E AFFOSSATORE DEI COMMERCI
Figura
sconcertante e piena di contraddizioni, Giuseppe II era figlio del
tempo dei lumi: si piccava di essere un sovrano illuminato, ma in
pratica fu un maldestro innovatore che, smanioso di conferire una
impronta personale alle strutture del suo Impero, travolgeva
istituzioni, tradizioni e statuti come un rullo compressore; a parer
suo tutto l'universo, da un capo all'altro, doveva essere riformato e
fatto tedesco. Le alzate d'ingegno giuseppine avevano suscitato una
giustificata apprensione fra i mercanti di Bolzano i quali, già
ridotti a mal partito, erano ormai rassegnati a subire dal nuovo
padrone la mazzata fatale: però, contro tutte le previsioni, il
primo atto di Giuseppe II nei confronti del ceto mercantile fu
magnanimo: «con benigno rescritto» stilato nel 1783, egli dette un
bel colpo di spugna alla gabella teresiana, suscitando entusiasmi e
liriche effusioni. I mercanti benedissero il nume imperiale
salutandolo «restauratore della pristina libertà dei commerci» e
gli dedicarono un'ode prolissa e zuccherosa, nonché un retorico
monumentino in gesso - da ammirarsi ancor oggi nel Palazzo Mercantile
- che raffigura il Cesare austriaco nell'atto di porgere il caduceo a
un Mercurio, piuttosto malconcio, prostrato ai suoi piedi. Tutto
bene, senonché di li a un anno Giuseppe si penti di tanto gesto - si
sa, la generosità degli Absburgo è fatta così e impose al
Magistrato un nuovo regolamento che sopprimeva di fatto lo statuto
claudiano, avocando fra l'altro al Governo la seconda istanza
mercantile. Il provvedimento fu una doccia fredda sui mercanti che ne
invocarono l'abrogazione, ma a nulla giovarono stavolta le
ambascerie, i doni e gli appelli patetici: Cesare fu irremovibile di
fronte alla costernazione dei mercanti, per lo meno quanto lo era
stato di fronte alla Santità umiliata del pellegrino apostolico di
montiana memoria. Per finire, l'Imperatore coronò il suo capolavoro
inaugurando a Bolzano quei santi principi di discriminazione etnica
che da allora in poi avvelenano i rapporti fra le due nazionalità.
FINE
INGLORIOSA DELLE FIERE E DEL MAGISTRATO MERCANTILE
I
provvedimenti giuseppini che avevano bloccato del tutto le residue
risorse dei commerci di Bolzano sono annullati nel 1792 dal
successore Leopoldo II che restaura il vecchio statuto claudiano.
Questa resipiscenza non ripara il danno, né scongiura l'imminente
sfacelo dei commerci della città: dopo tante vicissitudini, le fiere
e il Magistrato hanno perduto la vitalità originaria e il ceto
mercantile è sceso di tono soprattutto per l'esodo degl'italiani
provocato da ostruzionismi e discriminazioni. Quest'ultima
circostanza determina l'ascesa d'una sordida classe commerciale
tirolese che fa capo ai Gumer, famiglia non del tutto oscura avendo
dato alla città un borgomastro tre volte confermato e un console
mercantile, poi consigliere e fabbriciere del Magistrato. Divenuti
grassi borghesi e magnati del commercio, i Gumer tralignano e salgono
agli onori della cronaca e del pettegolezzo come protagonisti di
vicende piccanti che screditano del tutto il ceto mercantile del
tempo: nel 1780 un Francesco Domenico de Gumer s'impegola nella
massoneria e fonda a Bolzano la prima loggia che ospita il fior fiore
dei commercianti; sette anni dopo Francesco e Anton Maria Gumer sono
ingolfati di debiti e travolti da un clamoroso fallimento; tornati
alla ribalta nel periodo italico, i Gumer con altri mercanti sono
implicati nel noto pasticciaccio di Madamigella Menz e nello scandalo
del «sussidio inglese». In questo clima di cabale e intrighi il
commercio di Bolzano agonizza e, con esso, anche il Magistrato
Mercantile che, esautorato e germanizzato fino alle midolla, si
riduce ad umbratile istituzione priva di contenuto e di vitalità. I
grandi eventi del periodo napoleonico lo travolgono: soppresso,
restaurato, rimaneggiato, riprende la sua lenta agonia sotto la Santa
Austria; finché, decadute del tutto le fiere e soppressi gli
statuti, perde completamente la sua ragion d'essere e il governo
austriaco ne decreta la fine, ingloriosa, nel 1850.
DUE
PAROLE SULLE FIERE ATTUALI
Dopo
circa centocinquanta anni le fiere di Bolzano sono tornate in vita.
Le ha riesumate la democrazia di questo dopoguerra: democrazia
apportatrice di «novità» e di vanità. Naturalmente la Fiera
d'oggi è tutta un'altra cosa: spostata ai margini della città, è
stata ambientata in una magnifica gabbia di cemento su cui si legge
«Fiera-Messe» in identica evidenza, come esigono i sani principi
bilinguistici. All'apertura non più campane, non più tamburi. C'è
il discorso del Sindaco, lungo lungo, che non finisce mai: un
discorso in chiave di patriottismo europeo di «volemose bene»,
spoglio ed involuto secondo i canoni della retorica antiretorica del
tempo nostro. Accanto al Sindaco c'è un vestigio del buon tempo
antico, il magister nundinarunm, che pero non è più italiano
come allora: è un tedesco della intramontabile dinastia dei Walther.
Duro e compassato, fa finta di non voler far finta e inganna il tempo
spiando la noia compatta delle autorità, da Sua Eccellenza in poi,
rassegnate a subire fino in fondo la versione tedesca del discorso.
Qualcuno ridacchia rivangando l'ultima barzelletta su un tal Ministro
- li a due passi in carne e pancia - che impone le tasse e non le
paga... Dopo di che, applausi, mollicce strette di mano, fugace
visita ai padiglioni e finalmente l'exeunt gioioso verso il banchetto
ufficiale che conclude « l'austera cerimonia». Quanto alla fiera
propriamente detta non c'è molto da dire. Le novità sono quelle
dell'anno avanti: dai rappresentanti d' oltralpe - sempre impalati
sullo Stand come sulla torretta d'un Panzer - pronti a «épater le
bourgeois» sui progressi della tecnica tedesca, allo spaccio
gratuito del brodetto sintetico in tazza. Nulla sopravvive del
dinamismo delle vecchie manifestazioni fieristiche. La fiera d' oggi
pare governata dal sonno oltre che dai formalismi: appena aperta
entra in fase di stanca e riesce a vivacchiare si e no una decina di
giorni. E gli affari? Affaronissimi. Basta aprire un giornale
d'osservanza per apprendere che «quest'anno il volume d'affari in
Fiera ha superato tutti i records precedenti». Ogni anno scrivono
cosi, a consolazione del contribuente e a maggior gloria del
«miracolo economico».
Conclusione
Al
termine della nostra fatica, modesta ma non lieve, ci auguriamo che
il paziente lettore apprezzi, se non altro, l'attendibilità della
documentazione che ne è serio fondamento, ad onta della olimpica
strafottenza nostra affiorante qua e là in queste pagine.
Nell'esposizione e nel commento riteniamo di essere stati abbastanza
obiettivi. Obiettivi, certamente, ma niente affatto spassionati e
senza riguardi per nessuno: né per i conformisti, né per i patiti
del «giusto mezzo», né per quei barbassori del campo avverso che
la pretendono a depositari della verità rivelata (intendiamo quegli
studiosi tedeschi, oculati e metodici, cui nulla sfugge – salvo
quello che non fa comodo a loro). I documenti sono quello che sono:
parlano italiano. Anche noi, coerentemente, abbiamo parlato italiano;
se questo scandalizza le vestali del bilinguismo e gli ammalati di
europeite, pazienza. Non è davvero affar nostro il compiacere
agl'idolatri dell'autonomia che plutarcheggiano di «pacifica
convivenza» in questa terra che, grazie appunto all'autonomia, è
tornata ad essere da un quindicennio in qua la terra di cani e gatti.
Leggano, codesti signori, i documenti qui pubblicati e – se sono in
buona fede – convengano con noi nell'ammettere che la «pacifica
convivenza», oggi utopia, fu in altri tempi realtà; che essa non fu
mai intitolata a leggi restrittive e discriminatorie – come quelle
di Sigismondo, di Giuseppe imperatore e, oggi, dei legiferatori
clerico-nazisti – ma al libero espandersi delle attività italiane
in questa nostra marca di confine. Affermiamo questo con perentoria
impertinenza, ma a ragion veduta e senza malanimo. Dopodiché,
statevi bene, amici lettori. Arrivederci e grazie.
L'
AUTORE
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