Esistono
temi molto controversi, per non dire spinosi, lungo il percorso della
Storia. Per poterli analizzare a dovere è necessario avere una
visuale, la più ampia possibile, su questi accadimenti. Sarà
necessario conoscere bene le fonti, il periodo storico, valutare i
diversi risvolti e le diverse versioni dei fatti, collocandosi sempre
al di sopra delle parti. Tutto l'opposto di ciò che accade oggi,
dove una “morale umorale” detta le linee guida della storiografia
a suon di luoghi comuni, dicerie e partiti presi.
Sicuramente
uno di questi temi spinosi, se non il più spinoso, è quello delle
leggi razziali emanate dal Fascismo nel 1938. Basta avere
l'intenzione di parlarne che si chiudono tutte le discussioni o le si
fanno scadere in sterili risse verbali.
Abbiamo
così deciso di proporre su tale, difficile argomento, una lettura il
più possibile scevra da condizionamenti ideologici, in poche parole
equilibrata, a cura della nostra collaboratrice Maria Cipriano. Un
articolo divulgativo teso a dimostrare come la storia non sia
costituita da comparti stagni da cui attingere per costruire tesi
distorte, piegate alle correnti del momento, ma sia una materia ben
più complessa e sfaccettata.
Ci
auguriamo in questo modo di gettare uno spiraglio di luce intorno
ad un argomento così delicato e doloroso .
Gruppo
di Studio AVSER
L'ORDINE NELLA STORIA
Se
partiamo dal presupposto che la Storia è una scienza, dobbiamo
dedurne che il disordine e la confusione non le si addicono di certo.
Fra
le tante caratteristiche della Scienza, infatti, spicca quella che la
rende una rappresentazione il più possibile ordinata della realtà,
cioè rispondente a quei requisiti di razionalità, logica e
chiarezza che servano a far capire il più possibile la realtà
oggettiva a cui ci si riferisce, avvicinandosi il più possibile alla
verità di questa: sia che si tratti di atomi, di vita animale, di
galassie o di qualsiasi altra realtà obiettiva, il compito di
qualsiasi studioso è quello di scandagliare, analizzare e valutare
la complessità che ha davanti con quella onestà, diligenza e
capacità che ciascuno può augurarsi di avere, o quantomeno di
ricevere da chi ne sa di più. Se in un consesso di astronomi
nessuno oserebbe aprir bocca in mancanza di cognizioni adeguate, non
si capisce perché nella Storia invece lo si possa
fare, e qualunque incompetente possa svegliarsi una mattina e dire,
per esempio, che il Risorgimento fu una farsa o un complotto
massonico. L'errore di credere che la Storia, al contrario della
Scienza propriamente detta, sia una disciplina di serie b nella quale
tutti più o meno possano cimentarsi, ha portato a conclusioni
aberranti e completamente sballate.
Contrariamente
a quel che si può pensare, è tutt'altro che facile leggere
correttamente gli eventi storici. E' difficile afferrarne gli
intrecci, discoprirne i percorsi, talvolta tortuosi, nascosti o
addirittura segreti, chiarirne i collegamenti, enucleare le cause dei
vari accadimenti, descrivere i fatti e i personaggi in maniera
esauriente e veritiera o quantomeno verosimile, ma il compito dello
storico, come dello scienziato, è proprio questo: una sfida costante
a capire sempre di più e sempre meglio, affinché l'umanità ne
riceva impulso a migliorare se stessa e correggersi, perché nella
comprensione del passato è la chiave anche per affrontare il
presente e apparecchiarsi al futuro. Tuttavia, soprattutto quando
siamo coinvolti emotivamente, politicamente, o cointeressati
personalmente, ecco che la lettura e interpretazione dei fatti
subisce una distorsione. L'obiettività assoluta ovviamente è
impossibile e una dose di personalizzazione è inevitabile, ma essa
deve mantenersi entro limiti accettabili. Non è chi non veda a quali
conclusioni errate ha portato una lettura di parte della Storia,
completamente sbilanciata a favore o contro qualcuno. Ne è un
esempio eclatante la demonizzazione del fascismo attuata dalla
storiografia antifascista, che per decenni ha rifiutato una qualsiasi
lettura obiettiva del fenomeno, agitando costantemente lo spauracchio
del Duce, benché morto e sepolto, mescolando il Fascismo al nazismo
al punto da farne un tutt'uno quando invece si trattava di due entità
comunque diverse, il tutto per scopi e motivazioni politiche, o
spinte emotive date dall'odio.
E'
ovvio che nessuno pretenderà da un povero ebreo che ha salutato per
l'ultima volta la mamma sul binario di Auschwitz e non l'ha mai più
rivista, di dare una lettura obiettiva del fascismo (e tanto meno del
nazismo). Nessuno pretenderà dal parente di una qualsiasi vittima
degli eccidi nazisti o fascisti, una pacata lettura degli eventi.
Chiaramente queste persone, profondamente coinvolte e travolte da
quei fatti, non potranno avere la capacità storica di analizzarli e
studiarli scientificamente, e si porranno piuttosto drammatiche
domande metafisiche, esistenziali, morali, e, se si porranno
interrogativi storici, saranno spontaneamente portate a vedere il
male assoluto dalla parte di chi le ha colpite, e il bene assoluto
dalla parte di chi le ha salvate. Tutto ciò è perfettamente umano e
anche logico. Chi di noi, trovandosi dalla parte degli ebrei
perseguitati, non odierebbe il nazismo, e, unitamente a questo, il
suo principale alleato, il fascismo italiano? Chi, trovandosi fra
quei milioni di ebrei catturati e portati via come sacchi di patate,
trattati come merce senza valore, non avrebbe fatto in fretta e furia
le valigie a guerra finita per trasferirsi in Israele o in America?
Io certamente l'avrei fatto e il mio odio avverso i persecutori e i
loro alleati -compresi gli italiani- sarebbe stato implacabile.
Ricordo di aver letto il libro di una deportata italiana a
Ravensbruck la quale raccontava di una signora danese dentro il campo
che la riguardava con odio e non riusciva a trattarla come compagna
di sventura perché italiana, e dunque ai suoi occhi corresponsabile
(anche se era finita lì pure lei) dei crimini del nazismo. Tutto
ciò, ripeto, è umano e comprensibile.
Ma
lo storico non può permetterselo: a costo di sembrare freddo e
insensibile, deve salire le scale e guardare le cose dall'alto, a una
distanza sufficientemente giusta da non perdere di vista e veder
sfumare i contorni di molteplici dettagli importanti, anzi
fondamentali. A questo proposito, non si possono storicamente non
riconoscere le differenze tra nazismo e Fascismo che tanto
infastidiscono la lettura partigiana di quest'ultimo che lo vorrebbe
una succursale passiva del medesimo, anche perché il Fascismo nacque
molti anni prima del nazismo, e il fatto che nella seconda metà
degli anni trenta si alleò con esso, non autorizza a suggellarne il
reciproco livellamento. Così come non si può stabilire
un'equiparazione con l'imperialismo giapponese, anche se il patto
Tripartito del 1940 li comprendeva insieme. L'ambiente totalmente
diverso in cui nacquero tre ideologie apparentemente uguali, rende
assai diversi tra loro il Fascismo, il nazismo e l'imperialismo
nipponico incentrato sulla figura sacra dell'imperatore. Né
bisogna confondere le alleanze di cui è costellata la Storia -
alleanze che continuamente si fanno e si disfano per i più svariati
motivi, e sono tutte temporanee, labili e opportuniste -, con
l'identità ideale e politica, e con la effettiva reale
corrispondenza di sentimenti, vedute, opinioni, fini e moventi di
governati e governanti. Anzi in molti casi questa corrispondenza
con gli alleati di turno non esiste affatto, e l'alleanza è solo uno
strumento utile in un dato momento o frangente storico, si pensi a
quella tra i paesi anglo-sassoni e la Russia di Stalin all'unico
scopo di combattere Hitler. Si trattava di nazioni che non avevano
assolutamente nulla in comune, ma per circostanze contingenti
combatterono insieme, né, per questo, alcuno storico si sognerebbe
di colpevolizzare gli Stati Uniti o l'Inghilterra per i milioni di
morti causati da Stalin. Peggio, prima dell'invasione della Russia da
parte di Hitler, Stalin era alleato con questo, i due dittatori si
erano spartiti tranquillamente la Polonia, e i russi avevano
consegnato gli ebrei polacchi della zona da loro occupata ai nazisti.
Per inciso, va detto che nel suo libro “Stalin against the Jews”
(Stalin contro gli ebrei), lo storico russo Arkadi Vaksberg ha
affermato che il regime comunista ha eliminato 5 milioni di ebrei nei
gulag o in altre maniere. E il regime zarista non li trattava tanto
meglio.
E'
pertanto molto discutibile l'atteggiamento di quegli studiosi i quali
agitano continuamente questioni morali nella Storia, facendone
una palestra dove esibire i propri sentimenti, pulsioni e opinioni
personali, oppure giudizi e proclami altamente etici - e dunque
rispettabilissimi e anche doverosi-, ma che esulano dal campo
propriamente storico e sono fondati per lo più su ragionamenti a
posteriori, fatti col senno del poi, maturati in contesti del tutto
mutati rispetto a quelli in cui si produssero i fatti. Tornando con
l'esempio alla persecuzione nazista degli ebrei, il fatto che essa
non scatenò quella corale reazione umana e morale che tutti noi oggi
ci aspetteremmo, è la riprova che anche la morale subisce
oscillazioni e cambiamenti, che ciò che è valido in un'epoca può
non esser valido in un'altra, o comunque percepito in modo
differente, e che, se anche la religione e la morale forniscono
alcuni fondamentali imperativi kantianamente categorici che
dovrebbero valere sempre, la Storia s'incarica inevitabilmente di
relativizzarli nel tempo, sottoponendoli a modifiche, variazioni e,
perfino, stravolgimenti. Ciò spiega perché non si concretò a
favore degli ebrei quella mobilitazione umana che sarebbe stata
necessaria: non si concretò perché verso di essi una buon parte
della gente non avvertiva una sufficiente empatia, anzi nutriva il
contrario, considerandoli intrusi e invadenti. Ciò spiega dal punto
di vista storico - anche se non giustifica certo dal punto di vista
morale -, perché essi poterono essere portati via e massacrati in
così gran numero nel cuore dell'Europa del XX° secolo. La
persecuzione degli ebrei non pioveva dal cielo, non era percepita
come un'astrusaggine incomprensibile, ma, per quanto violenta e su
larga scala fosse quella attuata dai nazisti, appariva come
l'ennesimo manifestarsi di un secolare atteggiamento di ripulsa, odio
e pregiudizio nei confronti del popolo ebraico, condiviso,
direttamente o indirettamente, da molta più gente di quel che oggi
si possa pensare. Ciò non impedì che molte persone aiutassero gli
ebrei in quei tragici frangenti, ma lo fecero a titolo e rischio
personale, e raramente si segnalarono prese di posizione estese a
gruppi collettivi significativi o a un'intera nazione. Non solo, ma
fra coloro che aiutarono gli ebrei in quelle terribili
circostanze, vi furono gli individui più disparati, compresi molti
fascisti, anche di alto livello, il che è la riprova che i
rigidi giudizi morali applicati al campo concreto della Storia
portano a conclusioni false e contraddittorie, non attendibili, e
confutate dai fatti. Poiché la morale - e in particolare la morale
cristiana - si basa sui fatti concreti molto più che sulla
proclamazione astratta di un principio, il trovarsi di fronte a
salvataggi di ebrei attuati da fascisti, pone gli osservatori
inavveduti che agitano vessilli morali o politicamente allineati, in
una posizione piuttosto difficile da districare; né può servire
alzare le spalle e obiettare che gli aiuti prestati dai fascisti non
valgono niente perchè essi combattevano “dalla parte sbagliata”.
La Spagna di Franco aiutò molto gli ebrei ed esecrò apertamente
la politica antisemita di Hitler, così la Bulgaria che pur faceva
parte, come la Spagna, del blocco filo-tedesco. Non risulta che il
Vangelo si ponesse domande su come la pensasse il buon samaritano:
egli aiutò il viandante derubato, bastonato e abbandonato
sanguinante per strada dai briganti, e ciò basta. Anzi, se vogliamo
esser pignoli, la buona azione risplende di più trattandosi di un
qualcuno che combatte “dalla parte sbagliata”, così come appare
più riprovevole la cattiva azione compiuta da qualcuno che è
schierato “dalla parte giusta”. Proprio su questo versante, gli
storici arroccati nelle piazzeforti della morale, si trovano per le
mani non poche gatte da pelare e nodi da sbrogliare, per esempio di
fronte a partigiani sanguinari e violenti che a tutto pensavano
fuorchè alla libertà e alla democrazia, a “liberatori” che
radevano al suolo città intere senza far caso a donne e bambini, e a
2.000 morti causati in Italia solo a seguito di guida spericolata,
spavalda e negligente di veicoli da parte dei “liberatori” che
spesso nemmeno si fermavano a prestar soccorso.
Il
mio discorso, ben s'intende, non vuole togliere alla morale il
diritto e il dovere di dire la sua sui fatti della Storia, e la
condanna della persecuzione nazista degli ebrei e delle leggi
razziali fasciste che formalmente l'avallarono, va affermata e
ribadita in modo chiaro, è superfluo dirlo: ma distinguendo il piano
prettamente morale da quello storico. In altre parole, lo storico non
deve fare il censore morale, ma analizzare la realtà dei fatti in
connessione tra loro, evitando di ergersi a giudice etico sopra una
piazzaforte eburnea dalla quale dispensare patenti di buona o cattiva
condotta. Se così non fosse, e pretendesse di trovare la morale
nella Storia, meglio farebbe ad appendere gli “arnesi del mestiere”
al chiodo, perché la morale nella Storia è merce piuttosto rara.
Ciò non toglie che i giudizi storici possono all'occorrenza essere
altrettanto severi di quelli morali, ma, a differenza di questi, sono
calati nella realtà concreta cui si riferiscono, sono partecipanti
del contesto specifico, parte viva di questo. A differenza della
morale che prescinde dalla realtà, il giudizio storico tiene conto
della realtà dei fatti: e non è una differenza da poco. Ciò rende
quel giudizio più ponderato, più ragionato, più articolato, più
esauriente e sfaccettato. In definitiva, la morale emette il suo
verdetto “a prescindere da”, mentre la Storia emette il suo
verdetto “in dipendenza da“, insomma attenendosi ai fatti
concreti e al loro complesso svolgimento, il che rende quel giudizio
molto più completo e soddisfacente proprio perché aderente alla
realtà, dipendente da questa. La sentenza di condanna sarà magari
uguale, ma ben diversa la prospettiva da cui si diparte. Di
conseguenza, sarà inaccettabile asserire che gli aiuti prestati dai
fascisti agli ebrei non contano niente perché i fascisti
combattevano dalla parte sbagliata, così come sarà antistorico dire
che il Fascismo e il nazismo erano la stessa cosa, o che solo i
nazisti e i fascisti commisero crimini mentre gli altri erano
apportatori di pace e di bene. Ma ripeto: per un povero ebreo
deportato ad Auschwitz sarà vera solo una faccia della medaglia,
perché inevitabilmente la Storia di fronte ai sentimenti personali
si sbilancia e per così dire deforma a favore di questi. Così come
la madre di uno dei bimbi che andavano sulla giostra a Grosseto e
vennero mitragliati di proposito a bassa quota dagli aerei
angloamericani, ben difficilmente potrà festeggiare la liberazione
del 25 aprile. Compito dello storico è pertanto quello di
raddrizzare le molteplici “deviazioni personali”,
quali che siano, restituendo una panoramica obiettiva complessiva,
pur nell'inalterabilità dei giudizi morali visti però in una
prospettiva rigorosamente contestualizzata ai fatti.
In
questo senso sono senz'altro da censurare gli atteggiamenti di quegli
studiosi che danno in escandescenze quando si nominano i fascisti,
quasi fossero il diavolo, non vogliono riconoscere lo status di
combattenti ai militi della RSI, e pontificano costantemente di
principi morali, parti giuste e parti sbagliate, prescindendo
completamente dai dati concreti e dall'analisi attenta di questi, non
considerando il fatto imprescindibile che un milite della RSI era
inserito in un particolare contesto, esattamente come il partigiano,
e assai difficilmente l'uno e l'altro si saranno posti ponderosi
interrogativi morali, men che meno relativi alla persecuzione degli
ebrei di cui peraltro era ignota la sorte e si sapeva ben poco. La
voce diffusa era che venivano semplicemente trasferiti a est, anche
se, a giudicare dal modo in cui venivano trattati, ciò appariva una
mera copertura. Più facilmente, sia il milite della RSI che il
partigiano, più che la morale, avranno seguito la “voce del
cuore”, l'istinto, ciò che a loro sembrava giusto al momento,
magari influenzati da qualcuno (un amico, una persona autorevole, un
insegnante, un superiore), convinti entrambi di far bene, quando
ovviamente fossero in buona fede. Come giustamente disse Edmo
Fenoglio: “bastava poco per schierarsi dall'una o dall'altra
parte.” Non a caso vi furono militi della RSI che poi divennero
partigiani e partigiani che poi divennero militi della RSI o che
cessarono di fare la Resistenza attiva dopo le due amnistie concesse
del Duce nel 1944. Ciò si evince anche dall'esame delle lettere
lasciatici dagli uni e degli altri, in molti casi sorprendentemente
simili. Tracciare perciò un arcigno solco morale netto fra le due
parti è antistorico, un arbitrio ideologico e una mistificazione.
Sussistono già dubbi e interrogativi sul perché Mussolini - che
comunque, in quanto capo del Fascismo e dittatore, era il primo
responsabile delle sue decisioni - si sia alleato strettamente con
Hitler nel 1939 con quel malaugurato Patto d'acciaio, e l'anno prima
abbia voluto assecondarlo con le leggi razziali, non essendo affatto
scontato che fosse rimasto affascinato dal dittatore tedesco, come
detto da molti. Piuttosto, l'alleanza del Fascismo col nazismo avrà
seguito gli stessi criteri di tutte le alleanze della Storia: criteri
di utilità, opportunismo, calcolo. Che poi questo calcolo si sia
rivelato sbagliato e tragico, deleterio per l'Italia, lo giudichiamo
a posteriori, da una visuale diversa, da un punto di osservazione
ottimale in cui lucidamente possiamo renderci conto, tra l'altro,
quanto pericoloso fosse stringere alleanze troppo strette con un
individuo come Hitler, affetto da turbe psicologiche, da patologie
isteriche e da un odio morboso verso gli ebrei, nonché da
un'ossessiva invadenza nei confronti del duce e del Fascismo col
quale si era intestardito a voler stringere un'alleanza anche contro
il parere dei suoi collaboratori, Goebbels in primis.
I
nostri giudizi a distanza di spazio e di tempo hanno perciò un
valore relativo, e ancor più relativi saranno i giudizi “altamente
morali” di quei politici opportunisti che, accortisi solo dopo
svariati decenni che negli anni quaranta ci fu un genocidio degli
ebrei, si esibiscono oggi in roboanti dichiarazioni di scandalo,
condanna e riprovazioni antifasciste e filoebraiche, e magari
filosioniste. Personalmente, poiché m'interessavo all'argomento
quando nessuno ne parlava, moltissimi anni fa, provo un senso di
nausea nei confronti di queste scenografie parlate dei nostri giorni.
Il contesto degli anni trenta, quando tutti più o meno volevano
allearsi con Hitler, ci mostra che nessuno -a parte l'Ebraismo
internazionale- gli dichiarò guerra per le leggi di Norimberga
contro gli ebrei, e le olimpiadi di Berlino del 1936 si rivelarono un
grande successo d'immagine per la Germania nazista che si presentò
al mondo in forma smagliante, risorta dalla prostrazione economica
della sconfitta del 1918. I rapporti con la Francia, l'Inghilterra e
gli Stati Uniti si guastarono in un secondo tempo, e non certo a
causa degli ebrei perseguitati, in difesa dei quali si levarono
tiepide voci a livello internazionale. Non si può negare che papa
Pio XI fu una di queste voci, e tra le più nette (durante la visita
di Hitler in Italia nel maggio 1938 si ritirò a Castel Gandolfo per
non incontrarlo), ma già il suo successore Pio XII, salito al soglio
pontificio nel 1939, preferì una linea più morbida e diplomatica,
pur aprendo tutte le porte dei conventi agli ebrei.
Alla
luce di queste considerazioni, la Storia appare come un prisma,
cioè una figura geometrica complessa, al cospetto della quale le
inappellabili sentenze morali che tanto piacciono all'antifascismo
militante sono destinate fatalmente ad andare incontro a brutte
sorprese ed errori. Nulla osta a che si debba fare la morale al di
fuori della Storia. Ma chi vuole rimanere in ambito storico deve
agire da storico, e riservare le sue condanne, i suoi anatemi e i
suoi odi di parte altrove, o comunque esprimere un giudizio
rigorosamente attinente ai fatti, e quindi ben più preciso e
articolato. Coloro che si comportano diversamente, sono costretti a
imbrogliare le carte della realtà, imponendo la propria visione
politica e ideologica su di essa, distorcendo i fatti, raccontando
solo ciò che si armonizza con la propria posizione personale e le
proprie convinzioni. E' ciò che molta parte della storiografia
ufficiale precisamente ha fatto: la criminalizzazione del
Fascismo, che ha raggiunto estremi ridicoli, parossistici e
addirittura risultati controproducenti, cui per reazione taluni
hanno reagito con la santificazione di Mussolini e l'idealizzazione
della Repubblica Sociale, atteggiamenti sbagliati anch'essi, perché
né Mussolini fu infallibile - anzi sbagliò più volte - né la
Repubblica Sociale fu quello Stato modello verso cui qualcuno
nostalgicamente propende. E però, nel costante rifiuto da parte
della storiografia ufficiale di svolgere un discorso storico
obiettivo, vanno ricercate le cause della deformazione della Storia
da ambo le parti.
Un'eccezione
in questo panorama fu rappresentata dall'eminente storico reatino
Renzo De Felice, il quale ebbe il coraggio, fra minacce e ostracismi,
di opporsi gradatamente alla lettura ideologica del Fascismo, negli
ormai lontanissimi anni sessanta-settanta, proponendo uno studio del
tutto diverso, basato sull'esame rigoroso dei documenti. Pur
proseguita tiepidamente da altri, questa opposizione all'uso politico
e strumentale della Storia, tacciata sprezzantemente come
“revisionismo”, ha lasciato però inalterato lo zoccolo duro
della condanna morale e senz'appello del fascismo, accusato di
aver commesso errori imperdonabili e mostruosità indicibili, di
esser stato una terribile dittatura che si alleò col nazismo
condividendo con esso la persecuzione contro gli ebrei, la guerra
d'aggressione, lo schiacciamento dei popoli conquistati e
l'annullamento di tulle le libertà.
Ogni
storico serio sa che ciò è vero in parte o non è vero affatto, e,
anche per quel riguarda la questione più spinosa - le leggi razziali
del 1938 -, esse rientrano in quella talvolta criptica realpolitik
Mussoliniana intorno alla quale non si possiede una documentazione
sufficiente a sviscerarla nelle sue vere cause. Il che non toglie
nulla alla condanna morale, sia chiaro. Ma non senza tener conto di
tutti i dati a disposizione, in primo luogo delle contraddizioni
del regime Fascista, che, mentre approvava le leggi razziali
da una parte, dall'altra metteva in campo una serie di atti i quali
sostanzialmente le contraddicevano: basti pensare a quanti ebrei
polacchi il regime fascista salvò e cercò di salvare in faccia ai
tedeschi all'indomani dell'occupazione della Polonia, al punto che i
funzionari governativi italiani furono costretti ad andarsene in
fretta da Varsavia se non volevano essere arrestati anche loro. Un
numero elevato di ebrei dell'europa occupata dai nazisti trovò
scampo nel paese del principale alleato della Germania che apriva le
sue frontiere a quella che, allora, fu una vera accoglienza. Quasi
15.000 ne giunsero solo dall'Austria e dalla Germania. Senza dire di
quelli che si trovavano già in Italia per varie ragioni e che la
Germania reclamò invano dalle autorità fasciste. Anche nei
territori occupati dal Regio Esercito italiano, furono nell'ordine di
molte migliaia gli ebrei salvati dalla furia nazista. L'ebreo croato
di Zagabria Ivo Herzer, trasferitosi dopo la guerra negli Stati
Uniti, ha valutato in non meno di 6.ooo. i soli ebrei croati che
trovarono scampo sotto le ali protettrici del nostro esercito, tra i
quali lui stesso. Con dovizia di particolari Herzer ha raccontato
l'umano accoglimento ricevuto dagli italiani nel pieno infuriare del
conflitto e sotto il naso dei tedeschi, accoglimento che certamente
non poteva avvenire senza il beneplacito del Governo di Roma (e senza
esborso di danaro), tanto più che gli ebrei rifugiati beneficiavano
di un vitto normale, scuole, giornali, libri, cure mediche, e, nei
casi di salute più gravi, venivano trasferiti altrove. Almeno mille
di loro vennero portati in Italia. Lo storico israeliano Menachem
Shelah, nel suo libro “un debito di riconoscenza”,
essendosi anche lui salvato grazie al nostro esercito, ha scritto tra
l'altro: “In Jugoslavia il sangue scorreva a fiumi, migliaia di
donne venivano violentate, i bambini fatti a pezzi, i campi, i
villaggi, le città dati alle fiamme. Il comportamento degli italiani
in confronto a tutti gli altri fu il meno pesante, e si sforzarono
di salvare gli innocenti.” A questo proposito, giustamente lo
storico ebreo Leon Poliakov ha osservato che gli italiani non avevano
nessun obbligo di salvare gli ebrei stranieri, né tantomeno di farli
entrare in Italia.
Il
politologo ebreo americano Edward Luttwak (anche lui tra i salvati)
ha precisato: “L'esercito italiano in Jugoslavia non si limitò
a proteggere gli ebrei, ma agì come forza d'interposizione fra le
parti in conflitto. Fu uno slancio umanitario che accomunò tutti,
dai comandanti fino all'ultimo caporale.”
Tutto
ciò, unito a molto altro che non starò a elencare (per esempio il
progettato trasferimento degli ebrei europei in Etiopia, pensato dal
Duce e dai suoi collaboratori che avevano già scelto una zona
appropriata e addirittura iniziato i lavori di costruzione, poi
bruscamente interrotti), contribuisce a riequilibrare almeno un po' i
due piatti della bilancia: così, il peso morale delle leggi
razziali, vieppiù odiosamente attuate verso una minoranza
fortemente integrata che aveva partecipato attivamente al
Risorgimento e poteva vantare meriti di fronte all'Italia, se non è
annullato, è in parte mitigato. Ma chi non poté salvarsi e
malauguratamente si trovò fra quei 7000-8000 ebrei catturati e
portati via dai tedeschi dopo l'8 settembre 1943, di cui ben pochi
fecero ritorno, non potrà avvertire in nessun modo questa
mitigazione e noi lo comprendiamo e ci sentiamo psicologicamente
solidali con lui, anche se la Storia non può non tenere conto di
tutti i dati e metterli in comparazione, ricavandone un quadro il più
possibile logico e chiaro. In questo quadro, non si può non
riscontrare una evidente ambiguità del regime Fascista, sia
nell'alleanza con Hitler sia nella persecuzione degli ebrei fatta
chiaramente per compiacerlo, per quanto presentata come una generica
e peraltro contraddittoria “difesa della razza”. La legge del
“do ut des”, piuttosto, che presiede a
tutte le vicende umane, sarà stata più probabilmente il vero
movente delle leggi razziali in cui gli ebrei italiani vennero
sacrificati alla ragion di Stato per ottenere da Hitler una
contropartita. Quale fosse questa contropartita forse non lo sapremo
mai, e certamente la storiografia antifascista non ha contribuito a
farlo sapere, tutta impegnata a demonizzare il mortale nemico. Ma è
ragionevole ritenere che un passo così forte come le leggi razziali
anti-ebraiche, che contraddicevano tutta la politica fascista
precedente nei confronti degli ebrei d'Italia, culminata nella legge
Falco del 30 ottobre 1930 che sviluppava ulteriormente la
legislazione del Regno di Sardegna in favore delle comunità
ebraiche, non potevano non avere un movente. Esse non a caso
furono emanate a poca distanza dalla visita di Hitler in Italia,
avvenuta nel maggio del 1938. Sappiamo che quest'individuo, per
motivi mai chiariti, odiava gli ebrei di un odio spropositato e
patologico che non ha uguali nella pur lunga storia delle
persecuzioni anti-ebraiche, e pretendeva che il Duce lo seguisse su
questa strada. Pur tuttavia, la tesi avanzata dallo storico De
Felice, secondo la quale il Duce non poteva non seguire il fuhrer
in quanto suo alleato e dunque si trovò costretto a cedere per
“attrazione” ideologica col nazismo, risulta un pò troppo
blanda. Anche la tesi enunciata da Giorgio Pisanò, secondo
cui le leggi razziali furono la conseguenza della frattura venutasi a
creare con l'Ebraismo internazionale che aveva dichiarato guerra al
nazismo, non convince. L'Ebraismo internazionale, infatti,
dichiarò guerra alla Germania nazista, specificandolo espressamente,
non già all'Italia fascista, che era in ottimi rapporti
addirittura coi sionisti e con il capo di questi, Chaim Weizmann. Non
meno di 80.000 ebrei dall'europa occupata dai nazisti non a caso
vennero fatti transitare a Trieste per la Palestina col pieno
appoggio dell'autorità fascista. Non era un mistero per nessuno
che il Duce spingeva per la fondazione di un focolare ebraico
nell'antica terra di Davide, e figuriamoci se l'ebraismo
internazionale poteva dichiarargli guerra. Cadute dunque queste due
tesi che non reggono, resta quella, tanto cara all'antifascismo,
secondo la quale il fascismo fu sempre razzista, fu sempre
antisemita, e dunque le leggi razziali non furono che il logico
sbocco di questa sua anima viziata all'origine. Ma ciò è smentito
da troppi fatti e documenti contrari, oramai di dominio pubblico. Non
restano dunque che altre due ipotesi. Una è quella accreditata
ufficialmente dal regime stesso, secondo cui, con la conquista
dell'Impero, si rendeva necessario un cambiamento di rotta,
presentandosi il problema di tutelare la razza italiana dalla
presunta contaminazione con le altre razze che s'affacciavano dagli
altri luoghi dell'Impero. E questo fu ciò che il Duce precisamente
cercò di far credere onde giustificare e spiegare in qualche modo le
leggi del 1938. Ma quanto ciò fosse falso, è evidenziato da una
serie di fatti: anzitutto che le razze che si affacciavano dagli
altri luoghi dell'Impero (greci, sloveni, albanesi, africani, etc.),
lungi dall'essere estromesse o emarginate, al contrario erano avviate
sulla via dell'integrazione, com'è dimostrato dalle organizzazioni
fasciste che colà s'insediarono coinvolgendo a pieno titolo i
nativi. Anzi proprio il Duce aveva reso pubblico l'indirizzo
politico del regime in tutti i paesi occupati, che doveva essere
ispirato a Roma e a Venezia, famose proprio per l'integrazione e
armonizzazione delle razze. In secondo luogo, anche volendo
accreditare questa tesi, non si vede cosa c'entrassero gli ebrei
italiani, presenti da secoli entro la compagine nazionale, con queste
“nuove razze” che s'affacciavano dai vari luoghi dell'Impero. Il
bisticcio logico insito nella frettolosa legislazione razziale del
regime, è perciò evidente, com'è evidente il suo sforzo invero
piuttosto grossolano di far digerire questa legislazione agli
italiani perplessi e stupiti, usando la solita vetusta
rappresentazione maligna e vignettistica degli ebrei. Non a caso il
giornale “la difesa della razza”, diretto da Telesio Interlandi
(che era sempre stato razzista per conto suo), uscì nell'agosto del
1938, vale a dire con ben 16 anni di ritardo rispetto alla data della
presa del potere del Fascismo, il quale stranamente solo dopo la
visita di Hitler s'accorse che gli ebrei contaminavano gli italiani;
e meglio non trovò da fare che escluderli perfino dalle scuole,
facendo così lievitare stoltamente in seno ad essi un rancore
micidiale che poteva trasformarli in acerrimi antifascisti. Un
regime che nel 1931 aveva ricevuto con tutti gli onori Gandhi
vestito con un khadi e con l'arcolaio al seguito perché a una
cert'ora doveva filare il cotone (il Papa non l'aveva voluto
ricevere in quanto “indecente”), chiesto
agli Eritrei de l'Asmara se preferivano le case all'occidentale o i
tukul moderni (preferivano i tukul moderni), disseminato
l'Africa orientale di ambulatori gratuiti e costruito un sanatorio di
prim'ordine in Etiopia per combattere e debellare la lebbra,
aveva dunque paura delle razze, e in primis, della più famigerata di
tutte: quella degli ebrei italiani!
Non
resta dunque che l'ultima spiegazione, l'unica plausibile, quella
secondo me più logica, che però il Duce e i suoi si guardarono bene
dal far trapelare. E cioè che vi fosse una congrua contropartita da
ricevere dal fuhrer in cambio delle famigerate leggi a lui tanto
gradite, la quale doveva essere così importante e, forse, urgente,
da giustificare un passo simile, che necessitava anche della firma
del Re, cioè del coinvolgimento del buon nome della Casa Reale,
comportando una rottura plateale con il Risorgimento che aveva
emancipato gli ebrei liberandoli dalla ghettizzazione. Mazzini,
l'uomo del Risorgimento più amato dai fascisti, era morto in casa di
amici ebrei che l'avevano amorevolmente ospitato quando la bigotta
sorella cattolica, su consiglio di un prete fanatico, si era
rifiutata di accogliere in casa sua il fratello ormai prossimo alla
fine. Dietro le leggi antiebraiche camuffate da leggi per la difesa
della razza italiana, c'era dunque verosimilmente un preciso e
pressante interesse del regime che era andato maturandosi in quegli
anni, e finì per incontrarsi con la notoria ossessione del Führer
contro gli ebrei. Forse c'era in ballo un'enorme somma di danaro
necessaria a qualcosa, che solo l'affezionato Führer,
sempre allegro e sorridente accanto al Duce, poteva permettersi di
elargire. Possiamo ipotizzare che qualche ebreo, tra quelli più
amici coi fascisti -per esempio il podestà di Ferrara, amico
fraterno di Italo Balbo-, sia stato messo al corrente in tutto o in
parte della verità. Proprio all'indomani della venuta di Hitler in
Italia, infatti, Italo Balbo si recò a Ferrara dal caro amico Renzo
Ravenna per avvertirlo che stava per scattare la politica
anti-ebraica: una doccia gelata su tutta la comunità israelitica
d'Italia, sempre fiera della sua partecipazione al Risorgimento e
alla Grande Guerra. Non gli avrà spiegato null'altro? Nella
costernazione di tutti, Ravenna fu costretto a dimettersi dalla
carica di podestà che tanto egregiamente ricopriva da ben dodici
anni, circondato peraltro dalla solidarietà dei tanti (fascisti e
non fascisti) che lo stimavano, compreso l'arcivescovo. Pur dovendo
affrontare traversìe e lutti (la morte ad Auschwitz di due sorelle e
un fratello), nonché la comprensibile ribellione della figlia che
dopo la guerra scelse risolutamente Israele, egli non rinnegò mai il
suo passato. Dopo le leggi razziali, fu ospitato dall'amico in Libia
-ove le leggi razziali erano quasi disattese-, e poi visse
indisturbato a Ferrara fino all'8 settembre, quando, entrati i
tedeschi a gamba tesa nella questione ebraica, la situazione si fece
drammatica per tutti gli ebrei italiani, in molti dei quali tuttavia
sopravvisse una sorta di fiduciosa e candida speranza nel regime, che
li portò a evitare di nascondersi, confidando che li avrebbe
protetti dai nazisti. Purtroppo il regime poté proteggerli ben poco
o niente affatto, e gli stessi fascisti rischiavano l'arresto e la
deportazione, mentre l'ira funesta di Hitler poteva rovesciarsi sui
capi della RSI quando l'avessero contraddetto. Il Duce stesso era
sorvegliato 24 ore su 24, coi telefoni sotto controllo, e perfino
Claretta Petacci, condotta sul lago di Garda dai tedeschi, era
piantonata dalle SS. La vicenda del generale Amilcare Farina,
comandante della divisione San Marco (una delle più importanti
formazioni militari della RSI), è del resto emblematica della
situazione: egli si trovò addosso le SS urlanti, accortesi che
dentro la divisione era nascosto un ebreo (e chissà quant'altri in
giro nelle varie formazioni fasciste), il quale venne subito
imprigionato, e non si sa con quali salti mortali solo per intervento
del Duce si riuscì a evitare sia l'arresto del generale sia la
deportazione di quel poveraccio.
Si
creò dunque in Italia, dopo l'8 settembre, una situazione davvero
incresciosa, in molti casi scandalosa, come a Trieste, dove la retata
di oltre 700 ebrei da parte dei tedeschi, avvenuta ancor prima di
quella del ghetto di Roma, portò all'arresto di noti irredentisti,
patrioti e reduci della Grande Guerra. L'ingombrante presenza dei
nazisti e il loro spadroneggiare sulla Repubblica Sociale, oltre a
imprimere un marchio sul fascismo repubblicano che molti fanno finta
di non vedere, costituì il più formidabile degli ostacoli anche al
più volonteroso dei piani di salvataggio, come dimostra l'arresto e
la deportazione a Dachau del capo della Polizia della RSI Tullio
Tamburini e del suo vice Eugenio Apollonio, da tempo sorvegliati
dalla Gestapo, avvenuta il 21 febbraio 1945, unita alle contemporanee
dimissioni del ministro degli Interni della RSI Buffarini Guidi, al
corrente dei loro maneggi. Tamburini tornò vivo, ma il questore di
Fiume Palatucci ci rimise la pelle a Dachau per le stesse ragioni.
Più fortunato fu il podestà di Milano Piero Parini, fascista della
prima ora come Tamburini: i tedeschi mai si accorsero che nascondeva
dentro Palazzo Marino (sede dell'attuale Comune di Milano) un folto
numero di ebrei milanesi. Ciò basta a dimostrare quanto estese
fossero le omertose complicità fasciste. Altrettanto fortunato -più
abile che fortunato per la verità- fu il gerarca fascista Roberto
Farinacci. Con la sua abilità oratoria e i suoi abbaiamenti
antisemiti, buttò fumo in faccia ai tedeschi che gli avevano chiesto
la lista degli ebrei di Cremona. Prima avvertì gli ebrei cremonesi
di nascondersi e alcuni li nascose lui stesso. Poi consegnò la
lista.
Come
dimostra l'arresto di Tamburini, al di là dell'asprezza estrema
della guerra che assorbiva le parti, si tentò di trovare un
temporaneo fronte comune con gli anglo-americani per salvare gli
ebrei dalla grave emergenza umanitaria che si era creata a loro
danno, di cui le più alte autorità fasciste, come quelle
anglo-americane, erano in tutto o in parte al corrente dal 1942.
Purtroppo questo non fu fatto perché gli anglo-americani si
fossilizzarono nella conduzione della guerra affermando trattarsi
della questione assolutamente prioritaria. Si potevano fare entrambe
le cose, forse, senza toglier nulla alla conduzione prioritaria della
guerra perseguita da ambo le parti. Non fu fatto. E altro tempo
doveva passare, d'inaudite sofferenze per tutti, in cui l'Italia non
solo si ritrovò invischiata fino al collo in una guerra da cui, di
fatto, non riuscì più a uscire, ma coinvolta in una persecuzione
odiosa, disgustosa e immotivata avverso i propri connazionali ebrei
che vivevano in Italia da secoli, il che costituisce una macchia
incollata addosso al Fascismo di cui non si è rinvenuta nessuna
plausibile spiegazione, non risultando convincenti le superficiali
dichiarazioni di facciata del Duce e dei suoi sodali. Infatti, come
s'è detto, la pretesa politica razziale fascista preannunciata da un
Manifesto della razza frettolosamente scritto e firmato nel luglio
del 1938, definita dal Duce improvvisamente urgente e
improcrastinabile, era in realtà un pastrocchio, in cui, mentre
si cacciavano insensatamente gli ebrei italiani - ripeto,
italiani da secoli - dalle scuole, dall'esercito e dai
pubblici uffici, di fatto trasformandoli in cittadini di
second'ordine dell' “Impero del Littorio”, si ammettevano gli
albanesi, gli slavi, i libici, gli africani e i greci dell'Egeo nello
stesso Impero, tutti inseriti nelle tradizionali organizzazioni
fasciste. Un albanese poteva entrare in un'accademia militare, e
un ebreo di Firenze e di Roma no. Si trattava dunque, dietro la
risibile difesa della razza italiana che in realtà si difendeva
benissimo da sola, di un'inconcepibile nonché pasticciata
emarginazione degli ebrei italiani dagli italiani stessi. E questo,
oltretutto, mentre si aprivano le porte agli ebrei stranieri di
qualunque nazionalità. I quali, anche dopo l'emanazione delle leggi
razziali che ne decretavano l'espulsione immediata a parole, in
realtà rimasero in larga parte in Italia, raccolti per lo più nel
campo di Ferramonti in Calabria, dove, per loro espressa
testimonianza, “facevano quello che volevano”, ricevendo
anche una somma di danaro giornaliera. Dopo la guerra, alle
commemorazioni degli ex internati di Ferramonti, erano invitati anche
gli ex militi fascisti che li avevano trattati con tanta umanità.
Una
conclusione purtroppo amara possiamo trarre da tutto ciò: e cioè
che l'aver negato ai gerarchi fascisti un regolare processo alla fine
della guerra, preferendo la loro liquidazione spiccia e brutale, ha
fatto giustamente sorgere negli storici più esigenti il sospetto che
si preferì seppellire, piuttosto che far emergere, alcune
presumibili scomode verità, di cui peraltro nessuno può estesamente
provare nulla, potendo tutt'al più vagamente ipotizzarle. Se c'erano
dei segreti, va da sé che i capi del Fascismo li hanno portati con
sé nella tomba. Invece di fare un'inutile mattanza in piazza Loreto
con la popolazione esasperata e inferocita chiamata a raccolta, si
poteva chiedere razionalmente conto al Duce dei suoi errori veri e
presunti (compresi quelli strategico-militari) e delle sue decisioni
che tanto peso hanno avuto sul destino successivo dell'Italia,
vanificando in un colpo solo le vittorie del Risorgimento e della
Grande Guerra. Al posto di centinaia di arruffati processi sommari
davanti alle Corti d'Assise straordinarie contro qualunque fascista
capitasse a tiro, senza discernimento e non di rado con prove false o
montate, era meglio cercare di capire e far capire come andarono le
cose, colpendo veramente quei fascisti o presunti tali che davvero
collaborarono coi tedeschi, disobbedendo perfino al Duce. Forse tutto
ciò fu impedito dallo stato d'animo sovraeccitato della popolazione,
fatto sta che non fu fatto, e se c'era una possibilità di placare
gli animi, gli antifascisti fecero invece di tutto per esasperarli
ulteriormente.
Perciò,
a noi posteri che vogliamo leggere le intricate pagine della Storia
per trovare il bandolo, resta il dovere di mettere ordine, e,
soprattutto in un periodo confuso come questo, dove, con la scusa di
mettere ordine si fa il contrario, di non farci tirare per la manica
da nessuno, ma di giudicare con obiettività, e, nel caso, con
severità, non perché ce lo impone qualcuno, magari con leggi, veti
o minacce, ma perché ce lo impone la nostra coscienza, morale,
storica e civile.
Maria
Cipriano
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