Mentre
l'opinione pubblica nazionale era impegnata a disquisire sulle
dinamiche interne al Partito Democratico o a discutere per ore ed ore
su sterili scandali scaturiti all'interno degli sciatti programmi
della “televisione pubblica”, il 7 marzo veniva stilato, nel
silenzio dei più, l'accordo sul prezzo del pomodoro da industria del
Nord Italia per l'anno corrente. Un prezzo che, nell'arco di un anno,
è calato del 15% passando dai 92,00 € a tonnellata agli odierni
79,75 €/ton. Alla stipula dell'accordo hanno provveduto le
Organizzazioni dei Produttori (una nuova forma di aggregazione di
aziende agricole in forma cooperativa o associativa) e i
rappresentanti delle Industrie conserviere. Un accordo che però,
visti i forti risentimenti dei coltivatori, non deve esser maturato a
parità di peso tra le due parti in causa. O le Organizzazioni dei
Produttori non sono state capaci di fare gli interesse dei propri
soci oppure, e sarebbe cosa ben peggiore, dietro tutto c'è qualche
giochino sporco. Non a caso nel Resto del Carlino (
leggi QUI, parte finale) si è evidenziato come ai vertici
amministrativi delle OP, spesso e volentieri, siano piazzati uomini
graditi alle cosiddette associazioni di categoria (Cia, Coldiretti,
Confagricoltura), le quali sono sempre pronte a fare le barricate - si
ma di parole - mentre nei fatti cucinano queste magnifiche frittate,
facendo poi rumore per ripulirsi la coscienza. Ci azzardiamo allora a
pensare che questi vertici non solo siano graditi ai sindacati
agricoli, ma forse anche alla controparte industriale. Sono nostre
personali riflessioni, ma il sospetto c'è. Inoltre, guarda caso, le
OP risultano molto gradite all'Unione Europea, la quale definisce
queste organizzazioni “strutture di democrazia economia”,
puntando molto sul loro incremento non solo nel comparto
orto-frutticolo, ma anche negli altri settori agricoli. Lo scopo
sarebbe quello di permettere al mondo della produzione di affrontare
il mercato con maggiore forza contrattuale, non solo nei confronti
della grande distribuzione e dell'industria di trasformazione, ma
anche nell'ottica di creare ed aprire nuovi canali di distribuzione e
vendita (filiera corta, punti vendita diretti etc etc). E per
incentivare la loro creazione e il loro sviluppo l'UE garantisce
finanziamenti. Per le OP orto-frutticole, come nel caso del
pomodoro da industria, sono previsti contributi a fondo perduto pari
al 4,1% del fatturato, a cui è possibile sommare un ulteriore
contributo dello 0,5% sullo stesso fatturato in caso di situazioni
critiche del mercato. Queste percentuali, però, devono essere pari
al 50% delle spese sostenute. Ovvero sia, una OP che fattura
3.000.000 di euro ha diritto a 123.000 € di contributi a fondo
perduto, ma solo a fronte di una spesa superiore di almeno il doppio
del contributo stesso, quindi 246.000 €. Tante belle parole, tanti
bei propositi, ma nei fatti dov'è questa forza contrattuale? Dov'è
questa capacità di permettere un evolversi ed un espandersi delle
aziende agricole? Dov'è la reale partecipazione alle scelte
gestionali e strategiche delle OP da parte dei soci-agricoltori? A
noi sembra invece uno degli ennesimi sistemi tesi a drogare il
mercato e ad attirare profittatori d'ogni risma, che all'interno di
queste strutture crescono e proliferano sulle spalle dei produttori.
Un sistema che strangola, ma al contempo blandisce, rendendo le
vittime complici della propria stessa lenta ed inesorabile fine.
Certamente, ritornando sul prezzo del pomodoro, bisogna tener conto
del fatto che l'eccessiva produzione dell'anno precedente e una
considerevole rimanenza di prodotto nei magazzini, uniti agli
andamenti dei mercati internazionali, hanno sicuramente influito
sulla determinazione di questo prezzo al ribasso. Ma resta il fatto
che ancora una volta gli agricoltori siano costretti a tirare la
cinghia e a pagare le conseguenze peggiori. E qui stiamo parlando di
un comparto produttivo che investe, soltanto in Italia, tra pianura
padana, maremma toscana e laziale e vaste aree del meridione, una
cifra che si aggira attorno ai 60-70.000 ettari all'anno e vale alcuni miliardi di euro di fatturato. Stiamo
parlando di aziende agricole altamente specializzate e
tecnologizzate, che nel corso del tempo hanno investito molto su
innovazione e ricerca, rappresentando oggi un fiore all'occhiello
della nostra agricoltura. Stiamo parlando di una coltivazione a cui è legato un comparto industriale di trasformazione capace da solo, di produrre più del 50% delle passate, dei pelati, dei concentrati di tutta Europa e di garantire lavoro a migliaia e migliaia di addetti. Senza considerare che di pomodoro da industria,
udite udite, siamo i secondi produttori mondiali, superati soltanto
dagli Stati Uniti che in California ne producono più di 11 milioni di
tonnellate di contro ai nostri 5,2 milioni, e superiori,
seppur di poco, all'immensa Cina, dalla quale però continuiamo ad
importare circa 70 milioni di chili di concentrato per l'industria
conserviera. L'ennesima assurdità del sistema italiano che, anche
quando è ai massimi livelli produttivi su scala mondiale, continua
ad importare un prodotto di scarsa qualità e di scarsa sicurezza
(ricordiamo a tutti che il gigante asiatico detiene il primato
mondiale per numero di notifiche su prodotti alimentari irregolari),
con la scusa di lavorarlo ed esportarlo all'estero – principalmente
sul mercato africano, incapace di sostenere i prezzi dell'alta
eccellenza italiana. Ma forse lor signori non si rendono conto di
recare così un inestimabile danno alla nostra produzione? Forse sono
ignari che questi giochetti commerciali alla lunga andranno a
discapito anche di loro stessi e che tirando ognuno l'acqua al
proprio mulino, finisce sempre che a qualcuno poi questa mancherà?
Inceppatasi una macina, a catena ne seguiranno altre ed altre ancora.
E le prime a seguire i coltivatori saranno proprio quelle industrie
conserviere che sono nate, cresciute e si sono fatte grandi sui
nostri territori, attorno ai nostri campi, a fianco dei nostri
contadini. Anche se, ad onor del vero, l'industria può sempre
trovare la scappatoia della delocalizzazione, mentre l'agricoltore
no. Tutto questo mentre non solo viene fissato un prezzo a dir poco
ridicolo, ma si determina pure un tetto produttivo – per il Nord
Italia non superiore a 1,7 milioni di tonnellate – superato il
quale scatteranno multe di 20 € per tonnellata in più prodotta.
Invece d'imporre dazi sulle importazioni, si confezionano multe per
chi produce. Lo stesso destino che è toccato anche al nostro riso,
surclassato dalle importazioni asiatiche, le quali, grazie alle agevolazioni sui
dazi doganali, hanno distrutto il mercato nazionale costringendo i
risicoltori italiani ad adeguarsi a prezzi insostenibili. Altro
comparto agricolo in cui siamo i primi produttori a livello europeo e
che stiamo lasciando scivolare nel baratro, senza un grido, senza
nemmeno un fioco lamento.
Ma
ci chiediamo noi oggi, di tutta questa eccellenza, di tutti questi
primati, che ai politicanti di professione fa tanto comodo
sbandierare a destra e a manca, cosa ne vogliamo fare? Mentre noi
lasciamo che l'Europa, prona ai diktat delle grandi multinazionali
dell'alimentare e degli importatori, assopisca la nostra agricoltura
e la fagociti un boccone per volta, ci sono stati come Israele in cui
agricoltura fa veramente rima con ricerca ed innovazione; dove
nascono centri agricoli nel bel mezzo del deserto i quali, con il
supporto di Università e tecnici specializzati, coltivano ortaggi
laddove, fino a vent'anni fa, sarebbe stato impensabile farlo. E
sapete dove esportano la loro produzione? Proprio in quella Russia a
cui abbiamo imposto le nostre ipocrite, meschine e sottomesse
sanzioni “umanitarie”. Non serve aggiungere altro. Solo ribadire
una volta di più come la costante ricerca di una via sovrana e
nazionale sia l'ultima speranza, l'ultimo spiraglio aperto per
riprendere un cammino malamente interrotto.
Gruppo di Studio AVSER
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