Ritorniamo
a parlare dell'Alto Adige e lo facciamo approfondendo un argomento
poco conosciuto: le opzioni del 1939.
A
seguito dell' Anschluß
dell'Austria al Reich tedesco, il governo italiano si trovò di
fronte ad una situazione difficile da gestire nella provincia
atesina. La popolazione di lingua tedesca, fino al momento ben
inserita all'interno dello Stato italiano, cominciò a guardare con
interesse verso la Germania di Hitler.
L'Italia,
da poco alleata della Germania, per dirimere la questione offrì la
possibilità ai cittadini dell'Alto Adige di optare per l'uno o per
l'altro Stato.
In
occasione del 50° anniversario delle opzioni uscì, nel 1989, un
libello a cura del Gruppo di Studio Isarcus, animato dal nostro
fondatore Ferruccio Bravi e interamente incentrato sulla questione.
Lo
riproponiamo oggi con l'intento di riaccendere i riflettori su quella
pagina di storia. Pagina che mette in risalto il differente modo che
ebbe l'Italia nella gestione delle minoranze linguistiche e che
ridimensiona inoltre diversi luoghi comuni sull'interesse tedesco nei
riguardi dei territori alto-atesini. Questa è l'ennesima riprova di
come la storia sia ben più complicata di quanto si possa credere.
Per concludere vorremmo evidenziare che soltanto pochi anni dopo i
nostri connazionali istriani e giuliano-dalmati non ebbero a
disposizione alcuna possibilità di scelta: non ci furono opzioni, ma
solo la vendetta feroce delle bande titine.
Auguriamo
a tutti una proficua lettura
Gruppo
di Studio Avser
CINQUANT'ANNI DOPO
Finalmente,
a mezzo secolo di distanza, si può parlare in modo obiettivo e
pacato della tragedia che nel 1939 sconvolse l'Alto Adige. Il termine
«tragedia» non è spropositato se si considera l'esperienza
dolorosa d'una comunità che decide di abbandonare la terra alla
quale era tenacemente legata per andare a vivere, a soffrire e in
molti casi a morire in terra straniera. Tragedia, anche se l'esodo
dei Sudtirolesi non è da paragonarsi a quello ben più massiccio
degli Istriani e dei Dalmati o alla diaspora dei 14 milioni di
tedeschi orientali cacciati senza alcun indennizzo: infatti i
sudtirolesi che avevano abbandonato il loro paese vi ritornarono e,
anziché essere mortificati, ottennero anche speciali diritti e
privilegi che non sarebbero mai stati concessi dall'Italia di allora.
Le
cosiddette «opzioni» furono conseguenza di un accordo, fra l'Italia
fascista e la Germania hitleriana. In base a tale accordo coloro che
con brutta e inesatta espressione eran detti «allogeni» (la
corretta definizione sarebbe «alloglotti»); potevano esercitare la
facoltà di optare fra la cittadinanza germanica e il mantenimento
della cittadinanza italiana. Nel primo caso l'optante sarebbe andato
a stabilirsi nel territorio del Reich, previo indennizzo, equo, delle
proprietà che non potevano essere trasferite; nel secondo poteva
rimanere nella sua terra con tutti i diritti e i doveri che
competevano ai cittadini italiani.
Tra
questi diritti non era contemplata, purtroppo, la facoltà di poter
usare la lingua tedesca nella scuola e nei pubblici uffici, poiché
in Italia - Stato unitario e non plurinazionale - mancava del tutto
una normativa a tutela delle minoranze linguistiche. Anche se il
governo fosse stato democratico, l'uso del tedesco nella nostra
provincia non sarebbe stato tollerato più di quanto non fosse sotto
il regime fascista che lo consentiva nella stampa di almanacchi e
giornali locali, oltre che nell'insegnamento religioso. In quel
periodo, che la rapidità dei mutamenti ci fa sembrare distante
anni-luce anziché cinque decenni, l'apertura ai problemi delle
minoranze era scarsissima, anche in paesi di reputata esemplare
democraticità. Ad esempio la Francia, paese tuttora rigidamente
monolinguistico.
Il
nostro Vico definisce acritica e antistorica la tendenza a giudicare
con il metro d' oggi gli avvenimenti di ieri. Parlare di «catacombe»
e di «diritti conculcati» nel Sudtirolo fra le due guerre è
comunque fuori di proposito; è quanto meno eccessivo, anzi suona
ridicolo solo che si pensi a certo «collaborazionismo» di vaste
fasce della popolazione, solo che si pensi alla professione di fede
fascista di importanti famiglie atesine, vuoi per convenienza, vuoi
per convinzione, vuoi per tutte e due le cose, come spesso avviene
nelle vicende umane.
La
parziale adesione al fascismo può anche far sorridere, ma quella ben
più massiccia al nazismo lascia seriamente perplessi. Perché in fin
dei conti le «provvidenze di regime» (ONMI, colonie marine, etc.) e
la carica di podestà non eran cose proprio da buttar via e molti se
ne accontentavano al di qua come al di là della stretta di Salorno;
ma chi non se ne contentava e guardava ad Hitler come ad un
liberatore era del tutto fuori della realtà o fingeva di ignorare
ciò che sapeva benissimo.
Concediamo
che a quei tempi Hitler non appariva il diavolo oggi dipinto: però
il suo sovrano disprezzo per Sudtirolo e Sudtirolesi era più che
manifesto. Di certo non tutti gli atesini erano a conoscenza d'un
certo articolo in cui il Führer
assicurava che avrebbe prontamente fatto arrestare e riconsegnare
all'Italia un eventuale emulo di Andreas Hofer; ma molti di loro
avevano sullo scaffale della Stube il Mein Kampf, volume
allora diffusissimo, anche in edizione italiana di cui circolavano
più di centomila copie. Ebbene, in quel volume che molti leggevano
come la Bibbia, Hitler aveva espresso in chiare lettere che teneva
molto di più all'amicizia con l'Italia che non al riscatto del
Sudtirolo.
Diciamolo
pure: l'accordo sulle opzioni venne stipulato con una buona dose di
cinismo. Da parte fascista si calcolava che ad andarsene, dietro ai
diecimila stranieri indesiderati per i quali era sorto il problema,
sarebbero state solo poche migliaia di malcontenti e di antifascisti
irriducibili; da parte nazista si desiderava invece un'opzione
pressoché totale, in vista del recupero delle terre tedesche
dell'est dove gli oppressi sudtirolesi sarebbero stati utilizzati ad
opprimere a loro volta altre minoranze.
Ufficialmente
l'opzione doveva essere libera, con divieto d'ogni forma di
propaganda pro o contro. La parte italiana si attenne rigorosamente
ai patti, almeno in primo tempo; ma quella tedesca si adoperò fin
dal principio per indurre i sudtirolesi a optare in massa per il
Reich. Allo scopo servì ogni mezzo, dal terrorismo alla persuasione
occulta. I gerarchi nazisti non si vergognarono di esercitare essi
stessi quei ricatti psicologici e quei subdoli espedienti
elettoralistici che il loro Führer aveva bollato a fuoco nel Mein
Kampf come «degenerazione democratica».
I
cosiddetti Dableiber, cioè quelli che avevano scelto di
restare in Italia, dovevano subire il disprezzo e l'isolamento da
parte di parenti e compaesani che avevano optato per il Reich
nazista; eran messi alla berlina con epigrammi e canzonette oscene e
non di rado si ritrovavano con il fienile incendiato.
All'intimidazione si aggiungeva la menzogna spicciola. Fra l'altro si
faceva circolare insistente la voce che il regime era intenzionato a
deportare nel Meridione e in A.O.I. i sudtirolesi che non fossero
espatriati. La diceria correva di bocca in bocca, amplificata da
agenti del Reich e anche di paesi terzi interessati a creare motivi
di frizione fra i due regimi. A ben poco valsero le smentite a mezzo
stampa contro l'arrogante propaganda nazista che imperversava in
tutto il territorio.
Quando
una delegazione di Dableiber si risolse a chiedere una udienza
chiarificatrice a Mussolini, il capo della polizia del Reich,
Himmler, protestò con una vibrata lettera presso il collega italiano
Bocchini, dicendosi indignato per la violazione dell'accordo sulla
propaganda. A tanto si può spingere certa improntitudine.
L'incontro,
rinviato all'ultimo minuto, ebbe luogo ad opzioni ormai concluse,
quando tutto il latte era già stato versato. Le smentite ebbero
scarsa efficacia, almeno fino a quando nella Prefettura di Bolzano,
nel febbraio 1940 vi fu un importante avvicendamento: al Prefetto
Giuseppe Mastromattei, destinato ad altro incarico, subentrava
Agostino Podestà.
Il
nuovo Prefetto, giovanissimo, era ben convinto dell'italianità della
nostra provincia e la volle, anzi, documentata nei tre poderosi
volumi Alto Adige - Alcuni documenti del passato: ma era anche
rispettoso delle tradizioni locali e seppe creare dal nulla i
presupposti d'un dialogo e di una convivenza senza sospetti. Restaurò
di fatto l'autorità dello Stato, togliendo l'iniziativa ai nazisti e
smentendo le voci tendenziose della loro propaganda; andò di valle
in valle, soffermandosi nei paesi, avvicinando con umanità la gente
comune e i notabili, dando loro animo e fugando il dubbio; e protesse
i Dableiber dalle violenze degli «Auswanderer», noncurante
dei nazisti che lo accusavano di violare i patti.
S.E.
Podestà aveva svolto un'opera meritoria, ma purtroppo tardiva e di
limitata efficacia, avendo soltanto impedito un ulteriore
assottigliarsi del già esiguo numero dei sudtirolesi che volevano
restare italiani. I suoi meriti sono riconosciuti anche da autorevoli
Dableiber come Friedl Volgger - nelle sue memorie dal titolo
Sudtirolo al bivio - e, ora, dagli organizzatori della
stupenda mostra «Option-Heimat-Opzioni» che una volta tanto hanno
saputo affrontare il difficile tema con raro equilibrio.
La
Mostra, aperta dal 18 novembre '89 al 24 febbraio 1990 nei locali del
Museo d'Arte Moderna di Bolzano (vecchio Ospedale, in via Sernesi)
mette a nudo una realtà che non si può sbrigativamente liquidare
attribuendo tutte le colpe ad una sola delle due parti, dimenticando
che «la ragione o il torto - come ammonisce il Manzoni - non si
dividono mai con taglio cosi netto che ogni parte abbia soltanto
dell'uno o dell'altro». Il maggior merito di questa obiettiva
rassegna storica è la manifesta volontà di porre finalmente una
pietra sopra gli antichi risentimenti. Non si può protrarre
all'infinito il conto delle colpe e degli errori del passato, né si
può continuare a frugare fra le pieghe della storia per giustificare
le colpe e gli errori del presente.
Se
proprio si dovrà cercare nel passato, non sarà per trovare alibi -
ché per ogni azione, anche la più vergognosa, una giustificazione
si potrà sempre allegare - ma per giovarci dell'insegnamento della
storia, per penetrare nella logica delle marche di confine di cui
bisogna conoscere la problematica, eternamente oscillante da un
opposto all'altro: dai moti irredentistici spesso strumentalizzati,
alla volontà di assorbire una minoranza allogena o - paradossalmente
- non allogena rassegnata a perdere la sua identità; dalla legittima
difesa dell'integrità territoriale al cedimento che tende a creare
le premesse d'un distacco «indolore» o magari ad una soluzione
«europea» che cancellando le identità nazionali dia spazio alle
«realtà regionali». Da questo altalenare nasce una instabilità
con scelte obbligate per cui spesso la minoranza deve decidersi fra
l'esser pecora o lupo e lo Stato fra l'essere «golpe e lione»,
ovvero non essere né questo, né quello, e quindi non essere
affatto. Cosi è accaduto e continua ad accadere in Italia e anche
fuori. Son cose che succedono anche nelle migliori famiglie.
C'è
chi si straccia le vesti o adduce necessità contingenti e
motivazioni remote, a seconda di dove si trovi il tartassato.
Non
serve arrampicarsi sui vetri o nascondersi dietro la propria ombra,
per amor di tesi. Occorre mettersi nei panni del tartassato, non
importa quale, quando e dove: non importa la nazionalità o
l'ideologia. Che il tartassato sia il tedesco di Bolzano ieri o
quello di Königsberg oggi, sia
l'italiano del Ticino ieri o quello di Bolzano, di Fiume, di Zara
oggi, noi ci sentiamo dalla sua parte. E se per disgrazia ci fossimo
trovati dalla parte dell'oppressore, ne saremmo pentiti, onestamente,
o ne avremmo almeno vergogna.
Per
questo apprezziamo la pellicola Verkaufte Heimat («Patria
venduta») con cui Karin Brandauer ha voluto celebrare la ricorrenza
cinquantenaria. Ci piace la regia ci piacciono gli interpreti, e
soprattutto ci piace la splendida Christina Mayr a fianco del
simpatico Paolo Magagna perché convincenti nel mostrare come con un
po' di comprensione e d'affetto reciproco si può costruire la
convivenza fra i due gruppi linguistici.
DI
CHI LA COLPA
L'Italia
avrebbe potuto risolvere la questione atesina con un colpo di spugna,
semplicemente «cacciando in blocco gli alto-atesini e confiscando le
loro proprietà come aveva già fatto la Polonia nei confronti di
centomila tedeschi». Lo disse Hitler nel '32 a un fuoriuscito
sudtirolese per richiamarlo alla realtà (Corsini-Lill, 295).
Una
soluzione del genere non fu mai progettata nel nostro paese. L'idea
di trasferire in massa le minoranze tedesche e slave nelle rispettive
nazioni di appartenenza non fu mai seriamente considerata. L'Italia
ha sempre respinto rimedi estremi come quelli praticati da altri
paesi - la Grecia, la Turchia, la Russia, la Polonia - che
eliminarono con l'esodo totale il problema degli allogeni; ha
preferito piuttosto seguire l'esempio della Francia che non
estromette le minoranze, ma le assimila.
L'assimilazione
era la via suggerita da Ettore Tolomei, il quale la intendeva non
proprio come la si intende oggi (quando, ad es. un gardenese o un
trentino si fa tedesco e taglia le proprie radici), bensì come
«viaggio di ritorno»: cioè, come «restituzione» di una identità
che le genti latine dell'Alto Adige avevano perduto sotto la lunga
dominazione austriaca. Il principio è discutibile, ma non
condannabile. Al Tolomei, si deve rimproverare non tanto l'aver
accanitamente perseguito questo obiettivo, quanto invece l'essersi
acconciato alla soluzione dell'esodo completo quando, nel 1939, i
suoi disegni furono scavalcati dai fatti. E attirò su di sé tanto
odio, da essere deportato nel campo di Dachau e dannato in memoria.
Nessuno
aveva mai pensato seriamente all'esodo prima dell'Anschluß
del 1938; ma appena il Regno d'Italia venne a trovarsi a confine con
il Reich di Hitler la possibilità d'un trasferimento degli
«allogeni» fu più volte ventilata. Le prime avvisaglie risalgono
infatti alla primavera di quell'anno: le troviamo in un Memorandum
del 24 marzo sottoscritto dal Console generale del Reich Max Lorenz
(Corsini-Lill, 275) e in un appunto di poco posteriore (3 aprile)
conservatoci nel Diario di Ciano. Il conte Ciano, allora Ministro
degli Affari Esteri, non escludeva l'eventualità di «restituire»
gli atesini di lingua tedesca alla Germania: a suo vedere, essendo
l'Alto Adige terra geograficamente italiana e non potendosi spostare
le montagne e il corso dei fiumi, conveniva traslocare gli uomini
(Diario, p. Corsini-Lill, 301).
Fra
il dire e il fare c'era una buona distesa di mare. Ma qualcuno trovo
modo di campare arditi ponti sulla malferma dichiarazione di Ciano. E
di campata in campata un autore arriva ad affermare che «il
proposito di allontanare la minoranza tedesca è stato tenacemente
perseguito da parte italiana e la possibilità di realizzarlo si
offerse al governo fascista come contropartita alla sua acquiescenza
all' Anschluß (
(Schmitz-Esser, 1, 101) : un mercato tutto da provare e quanto al
proposito «tenacemente perseguito» bene obietta altro autore che un
progetto del genere, posto che vi fosse, «non ebbe a tradursi mai in
una prospettiva concreta d'azione» e «non dette luogo nemmeno ad
una tendenza diffusa in seno alle sfere dirigenti italiane, né in
quel momento, né durante lo stesso periodo fascista» (Toscano,
199).
E
se di necessità l'Italia avesse dovuto adottare un provvedimento
d'espulsione, esso non avrebbe comunque colpito una intera comunità,
ma solo un limitato numero di individui, al più diecimila cittadini
stranieri indesiderati e qualche migliaio di «allogeni»
irriducibilmente ostili.
Su
questo punto l'Italia, fascista o no, deve essere assolta. E non
sembra nemmeno che si possa rimproverare allo Stato italiano di avere
abbandonato alla loro sorte coloro che per istigazione nazista gli
voltavano le spalle. Osserva il Battisti che, quando una minoranza
allevata col veleno del Südtiroler
Volksbund fa per un ventennio una vera e propria guerra fredda ad
un popolo di 45 milioni essa non può pretendere, in periodo di
fascismo e di nazismo, che lo Stato se ne preoccupi più di tanto.
«Chi ha messo in crisi l'Alto Adige ed è responsabile delle opzioni
è in ultima analisi il Südtiroler
Volksbund». Parole decisamente severe, quelle del Battisti, ma
aderenti alla dura realtà di allora. Una realtà che in parte
sopravvive ancor oggi, ma con soddisfazione di tutti va sfumando per
manifesti segni di schiarita.
LA
CONDOTTA DELL'ITALIA
Roma
e Bolzano non erano in sintonia neanche al tempo del fascismo. Cosi,
nel '39, a Roma si auspicava una larga opzione per l'Italia che
smentisse l'asserita disaffezione di gran parte della comunità di
lingua tedesca, mentre a Bolzano si sperava in un esodo massiccio che
liquidasse in modo risolutivo il problema d'una convivenza
impossibile.
Vivere
accanto non è lo stesso che vivere insieme ed è umano che ciascuno
desideri che l'altro tolga l'incomodo. Non si può negare che molti
di noi intendessero le opzioni come l'occasione d'oro per chiudere il
problema una volta per tutte e deplorassero poi la revisione
degasperiana come una iattura che avrebbe riaperto la piaga. È una
mentalità parallela a quella dell'alloglotto irriducibile che
intende l'autonomia come il mezzo più spiccio per cacciare dal
«sacro suolo sudtirolese» chiunque vi parli ancora italiano, non
importa se vi sia nato o stabilito da tanti anni. Possiamo
rallegrarci comunque che certo oltranzismo, dalla nostra come dalla
loro parte, sia in fase di superamento.
Tornando
alle opzioni va detto che malgrado la diversità di vedute la
condotta italiana fu lineare, nella capitale come nel capoluogo
atesino, almeno a livello d'autorità. Se un peccato vi fu, esso fu
il peccato di sempre: una ingenuità a volte imperdonabile, per non
dire colpevole, alla quale faceva riscontro la malizia
dell'interlocutore.
Autorità
e stampa fecero il possibile per rassicurare quanti intendevano
restare tranquilli a lavorare nella loro terra, smentendo decisamente
la voce di un trasferimento in altre province o nell'A.O.I. Ad una
«chiarificazione» in tal senso pubblicata dal Prefetto Mastromattei
nel periodico «Atesia Augusta» (5 agosto '39) seguì, parecchi mesi
dopo, la nota «allocuzione» del Capo del governo. Era questa
l'attesa risposta all'indirizzo che l'avvocato Max Markart aveva
rivolto a Mussolini durante l'udienza concessa ad una delegazione di
optanti per l'Italia (Option, 265).
Il
dott. Max Markart fu l'ultimo sindaco di Merano democraticamente
eletto nel 1922. Nominato Commissario straordinario per
l'amministrazione del comune, fu poi podestà fino al 1935. Come
altri alloglotti era stato inserito nella vita pubblica come elemento
idoneo e maturo, secondo l'intendimento di Mussolini («Istruzioni
di M. al Prefetto Ricci», 15 gennaio 1927. - R. De Felice,
Mussolini, il fascista, 500).
Il
Battisti definisce la dichiarazione di Mussolini «franca e univoca,
ma tardiva» (2, 35): in effetti fu espressa quando i nazisti,
che la sapevan lunga, avevano già tratto ogni possibile vantaggio
dalla scarsa informazione di Roma. «Il lupo sa i fatti dell'agnello
meglio dell'agnello» soleva dire il Tolomei, a sottolineare la
cronica incompetenza romana sulle faccende alto-atesine.
L'indirizzo
del Markart e la risposta di Mussolini ci persuadono che da parte
italiana l'esodo in massa non era affatto desiderato e nemmeno
previsto. Fin verso la chiusura delle opzioni l'ascendente delle
sirene naziste su gran parte dei sudtirolesi fu decisamente
sottovalutato: a richiamare i nostri alla realtà non servi neanche
l'eloquenza delle cifre che sul finire del '39 assegnavano una
schiacciante maggioranza agli optanti per il Reich.
Chi
scorre il testo dei due documenti - qui riprodotti in appendice -
coglie appena un'eco di quella realtà, un'eco fievole, sommersa dal
martellare della retorica del tempo. Si respira, nelle parole
dell'uno e dell'altro, un clima di normalità e di sicurezza pur
giustificato da una solida economia e da grandi opere pubbliche; vi
si sente soprattutto una sconfinata fiducia nel futuro. Chi non
credeva, allora, nel promesso avvenire di «tranquillità, ordine,
benessere»?
Eravamo
al 21 marzo 1940 e nessuno sentiva ancora l'appressarsi del principio
della fine: ancora poche settimane e tutto, opere e progetti, ideali
e speranze, tutto sarebbe stato travolto dalla guerra.
IL
CONTEGNO DEI NAZISTI
Voci
di un'annessione dell'Alto Adige alla Germania nazista furono diffuse
nei mesi che seguirono l'«Anschluß»,
ossia l'annessione dell'Austria al Grande Reich, proclamata il 13
marzo 1938. Incidenti si verificarono nella nostra provincia fra
cittadini germanici ed esponenti del partito fascista, stando ad un
rapporto del Federale di Bolzano in data A ottobre 1938
(Corsini-Lill, 272). Fra l'altro il capostazione di Corces e suo
figlio furono aggrediti e feriti da elementi nazisti, a loro volta
affrontati da fascisti provenienti da Merano e dintorni: nello
scontro furono sparati anche colpi d'arma da fuoco e dalla parte
germanica ci scappò il morto.
Le
voci, sparse a scopo provocatorio, erano manifestamente infondate, e
a smentirle poteva bastare la solenne dichiarazione di Hitler: «È
mia incrollabile volontà ed è anche mio testamento politico al
popolo tedesco, che consideri intangibile per sempre la frontiera
delle Alpi eretta fra noi dalla Natura». La dichiarazione era stata
resa pubblica a Palazzo Venezia il 7 maggio 1938 e i due dittatori,
notoriamente astemi, l'avevan resa solenne levando il calice
(Corsini-Lill, 268). L'inviolabilità del confine rappresentava la
premessa al «Patto d'Acciaio» stretto di lì ad un anno a Berlino,
a coronare quell'alleanza con l'Italia che da tempo era nei progetti
di Hitler.
La
dichiarazione fugava ogni sospetto, ma lasciava insoluto il problema
sostanziale, quello d'una comunità in parte ostile all'Italia e
istigata di continuo. Occorreva allontanare dall'Alto Adige gli
agenti provocatori e su questo punto anche Hitler era d' accordo: si
sarebbe ripresi i diecimila cittadini germanici residenti nella
nostra provincia e con loro anche qualche migliaio di Querulanten.
Cosi Göring chiamava i
sudtirolesi che scalpitavano più degli altri.
Sarebbe
stata una epurazione da poco, senza lacerazioni né drammi. Ma gli
stessi agenti provocatori ne trassero lo spunto per dare corpo a una
presunta volontà nostra di cacciare tutta la minoranza alloglotta.
Nella
storia non mancano esempi di popoli sradicati dalle loro sedi e ve ne
furono di recente soprattutto nei paesi slavi, da Stalin in poi.
Altre deportazioni erano state pianificate e portate addirittura
davanti alla Società delle Nazioni: fra esse, nel 1927, la balorda
proposta di trapiantare gli altoatesini nel Ticino e i ticinesi in
Alto Adige allo scopo di italianizzare questo e intedescare quello
(L. Lichtenstädter, Südtirol
und Tersiv, Monaco 1927) E non fu l'unico progetto di barattare
il Ticino: si veda A. Garobbio, Gabriele D' Annunzio e i «Giovani
Ticinesi», edizione nostra, Bolzano 1989, 88-89.
Un
disegno altrettanto bizzarro e crudele fu il ventilato insediamento
degli optanti per il Reich nella Borgogna, occupata dai tedeschi nel
1940: le città di Besançon, Chalon, Dôle,
Pontarlier e Auxonne avrebbero preso il nome di Bozen, Meran,
Brixen, Bruneck e
Sterzing, la popolazione francese sarebbe stata cacciata e le
spese di trasferimento sarebbero state sostenute dalla Francia
sconfitta. Era la proposta di Hitler ad un Memorandum 18 giugno 1940,
inoltrato da certi sudtirolesi che proponevano invece il baratto del
Sudtirolo con Nizza e Savoia da assegnare all'Italia (Option,
270).
Lo
sradicamento dei popoli è una barbarie altrui, inconsueta nel nostro
album di famiglia. Un raro episodio di casa nostra è la deportazione
degli Apuani che risale a oltre duemila anni fa. Gli Apuani erano
predoni sanguinari, guerriglieri irriducibili, «gens semper victa
semperque rebellans»: Roma fu
riluttante nel decidere, il Senato discusse a lungo finché si
risolse ad accogliere la proposta del proconsole Bebio Tanfilo, un
oriundo etrusco che andava per le spicce e si assunse l'incarico di
trasferirli tutti nel Sannio. Fu una dura necessità imposta da una
situazione senza sbocco. Ne parla diffusamente il Pais nella sua
Storia di Roma.
La
vicenda degli Apuani deportati nel Mezzogiorno doveva esser presente
nella mente di Mussolini quando affermò, ancor prima che si parlasse
di opzioni, che il problema dei sudtirolesi «si risolverebbe molto
più facilmente se essi abitassero in Puglia». Era una battuta
innocente legata alla ovvia «constatazione che i problemi della
minoranza sudtirolese erano resi più gravi dalla sua contiguità
fisica con gli Stati di omogenea nazionalità» (Corsini-Lill, 298) ;
ma qualcuno la ingigantì e cosi nacque la diceria, che i nazisti
fecero circolare insistente, d'un trasferimento oltre il Po di tutti
i sudtirolesi che non avessero optato per la Germania (Option, 155).
Si parlò anche di una «lista nera», fatta compilare dal prefetto
Mastromattei, nella quale erano elencati ventimila nomi, un primo
scaglione destinato al trasferimento giù per l'Italia o addirittura
in Etiopia (Toscano, 68).
Queste
e altre voci correvano di bocca in bocca e gli agenti nazisti le
indirizzavano ai loro fini lasciando intendere che una opzione
totalitaria per il Reich avrebbe dimostrato la volontà dei
sudtirolesi di restare «buoni tedeschi» ; di conseguenza essi non
sarebbero dovuti nemmeno partire, perché la Germania stessa sarebbe
venuta da loro. Questo gioco subdolo coglieva l'alleato italiano del
tutto impreparato, trasformando cosi quella che poteva essere una
ritirata in una vittoria della diplomazia del Reich (Battisti, 2,
31-32).
Per
non essere intralciati nell'opera di propaganda, i nazisti volevano
ridurre al silenzio le ultime voci d'espressione tedesca ancora
libere nella provincia, i due fogli cattolici «Volksbote» e
«Dolomiten». Ci riuscirono solo ad opzioni concluse: il «Volksbote»
sospese infatti le pubblicazioni il 18 ottobre 1941 (Volgger, 79) e
il «Dolomiten» dopo l'armistizio badogliano, con l'occupazione
germanica. Fu introdotto un organo d'obbedienza nazista, il
«Landeszeitung» (poi «Bozner Tagblatt» che usci fino al '45
(Brunner, Cavini).
Va
detto che in ogni circostanza, e non solo in Alto Adige, il contegno
dei germanici nei nostri riguardi fu scorretto, per non dire
ignobile. I tedeschi, e anche certi italiani, mettono quel contegno
sul conto del tradimento badogliano. Concediamo che il voltafaccia
dell'8 settembre – non per l'armistizio in sé, ma per il modo come
fu chiesto e per il rovesciamento di fronte che ne seguì -
giustifichi una reazione anche brutale; ma non è ammissibile che
debba giustificare tutto, anche la condotta arrogante e sleale tenuta
dai nazisti prima di quel tradimento. Per tale condotta, secondo
alcuni, avremmo avuto diritto di uscire al più presto da quella
funesta alleanza; altri convengono che ci si dovesse togliere quella
camicia di Nesso l'8 settembre, in obbedienza al Re; altri ancora
sostengono, e sono nel giusto, che ogni obbligo morale nei riguardi
dell'alleato è venuto meno alla fine d'aprile del '45, allorché la
parte d'Italia che non aveva tradito fu tradita nel modo più infame
dal generale nazista Wolff.
È
storia, questa, ancor oggi incandescente e dovrebbe essere appresa
innanzitutto da certi nazistelli di casa nostra che, lontani nel
tempo e nello spazio, proclamano permanente e indissolubile la
«fedeltà al camerata germanico» e rinfacciano a noi, e solo a noi,
di non essere stati ai patti.
La
slealtà e la tracotanza dei nazisti non sono finite con la
catastrofe del '45. Chiusa la parentesi dell'occupazione militare era
sperabile un mutamento di condotta nei riguardi dell'Italia,
soprattutto dopo che l'Italia aveva riaperto le porte, generosamente,
a coloro che se n'erano andati bestemmiandola. E invece no: altri
tedeschi, raccogliendo l'eredità nazista, e armati della stessa
malafede, hanno rimesso a nuovo gli stessi argomenti, le stesse
imposture.
Cosi
nel lontano 1946, la delegazione austriaca alla Conferenza della pace
non trovò di meglio che motivare la richiesta di «restituzione del
Sudtirolo» con gli stessi argomenti e le stesse menzogne di marca
nazista: dal «plebiscito» alla favola della minacciata deportazione
oltre Po. E ancora per anni, ricalcando la mistificazione nazista, si
continuò a gabellare per plebiscito l'adesione massiccia dei
sudtirolesi al Reich di Hitler. Ora la saggezza si fa strada e anche
la storiografia sembra orientata ad una onesta revisione, al disopra
dei condizionamenti politici e delle passioni di parte.
INCERTEZZE
NELLA CHIESA
Fra
la scarsa informazione del Governo italiano e la disinvolta
intraprendenza nazista si colloca la condotta incerta e non proprio
coerente delle autorità religiose in tutto il periodo delle opzioni.
Non
c'era identità di vedute fra il Vaticano e le Curie di Trento e
Bressanone, né fra queste e il clero che conosceva un po' meglio la
realtà, essendo in assiduo contatto con i fedeli fortemente
condizionati in senso politico.
Hitler
non era ancora satanizzato, ma la Chiesa di Roma aveva già preso le
debite distanze da lui, ben sapendo che nei riguardi del
Cattolicesimo il dittatore tedesco era assai meno tenero del
dittatore italiano, noto a quei tempi - per definizione pontificia -
come «Uomo della Provvidenza».
Mons.
Geisler, vescovo di Bressanone, assunse invece una posizione di
equidistanza che in fondo privilegiava il nazismo. Giudicava che nel
Reich, per il quale moltissimi si accingevano ad optare, il pericolo
per la Fede sarebbe stato «non cosi grande (...) e non più grande
che in Italia» (Corsini-Lill 324). Il contegno di Monsignore fu
loiolesco: egli seppe dissimulare il suo pensiero fino all'ultimo,
fino a quando gli toccò di optare, ed optò per il Reich di Hitler.
Prima di firmare si tolse l'anello pastorale dichiarando che come
tedesco sceglieva il Reich e come pastore andava col proprio gregge.
Questo avvenne il 25 giugno 1940, cinque giorni prima della
definitiva chiusura delle opzioni il cui termine, per il clero, era
stato prorogato al 30 giugno di quell'anno (ivi, 325).
Meno
tortuoso, il vicario generale mons. Pompanin non nascondeva un certo
trasporto per il nazismo e «chiudeva le sue lettere con un sonante
«Heil Hitler» 26 (ivi, 390).
Esplicito
e lineare fu invece il vescovo di Trento, mons. Celestino Endrici,
che andava rinfrancando contro ogni timore di trasferimento al sud
quanti intendevano restare cittadini italiani.
Parroci
e cooperatori non avevano fondati risentimenti contro l'autorità
civile italiana, la quale, instaurando il regime concordatario, aveva
dato, si una limatina agli emolumenti del clero locale: ma aveva però
portato la pace religiosa anche in Alto Adige, ed è quel che conta,
o dovrebbe contare. E aveva consentito l'uso del tedesco nella
liturgia della parola e nell'insegnamento del Catechismo, con
grave disappunto del Tolomei.
Il
teorico dell'assimilazione avrebbe voluto che l'uso dell'italiano non
si arrestasse alla soglia della chiesa, ma penetrasse dappertutto,
come si conveniva in uno Stato unitario; e continuava a rivangare
l'ormai nota cronistoria delle lotte sostenute dai ladini sotto
l'Austria, la quale, pur essendo uno stato plurinazionale, aveva
tentato con ogni mezzo di toglier loro l'insegnamento religioso in
lingua italiana per imporre la lingua tedesca.
Con
esemplare coerenza, i curatori d'anime atesini optavano per l'Italia
in altissima percentuale: circa l'80% nei decanati brissinesi, più
del 90% nei decanati atesini della Diocesi di Trento fra i quali
Bolzano e Merano (ibidem). Quel 10% in meno fu determinato dalla
posizione ambigua di mons. Geisler (Unterkircher).
Nel
complesso il comportamento della Chiesa era stato responsabile e
l'Italia, per allora, poteva accontentarsi. Nondimeno, la scarsa
conoscenza dei fatti soprattutto in determinati ambienti del P.N.F.
portò a deplorevoli malintesi che sfociarono in un'aspra polemica
fra «L'Osservatore Romano» e «Il Regime Fascista», organo del
partito diretto da Farinacci. Un articolo da questi pubblicato il 24
gennaio 1940 dà la misura della disinformazione di allora: si
elogiava mons. Geisler per la sua moderazione e si rimprovaravano i
preti, specie i più giovani, accusati di essere i più scalmanati
optanti per il Reich. « a nulla è valsa
– concludeva l'articolista – l'opera autorevole ed ardua del
vescovo di Bressanone: i parroci dai pulpiti, dai confessionali,
dalle sacrestie hanno svolto un'opera completamente opposta».
Testuale. La verità sarebbe affiorata di lì a cinque mesi, con
sorpresa degli ambienti politici nostri e dello stesso Vaticano.
IL
PREFETTO CHE CAPIVA L'ALTO ADIGE
Di
Agostino Podestà, Prefetto di Bolzano durante i due primi anni di
guerra, possiamo parlare come di un amico. Fu lui ad incoraggiare,
negli anni '60 i nostri primi tentativi di recuperare l'italianità
atesina sul piano della cultura.
Con
l'avvento del regime autonomistico i difensori dell'Italianità
culturale si erano rifugiati negli spazi, sempre più ristretti,
concessi dalla stampa locale. Ne furono estromessi negli Anni 50,
quando Taulero Zulberti fu allontanato dal quotidiano «Alto Adige»
e furono soppressi i periodici «Bolzano Nuova» e «Der Standpunkt».
Il nuovo corso non fu indolore, ebbe anzi risvolti drammatici (Maria
Leveghi, direttrice amministrativa del «Der Standpunkt», fu
stroncata da un ictus). Se da un lato il potere e la stampa da esso
controllata privilegiavano la cultura tedesca, dall'altro
l'opposizione si concentrò attorno ad un periodico italiano di
raccolta, «La Vetta d'Italia» (* 19 marzo 1960), nel quale
confluirono collaboratori di estrazione politica diversa, ma di segno
nazionale, ed anche elementi politicamente non impegnati (fra i
primi: Andrea e Pietro Mitolo, Maurizio Lorandi, Flora Leveghi,
Delfino Ardizzone, Waldimaro Fiorentino, Carlo Casali, Luigi Montali;
fra i secondi; Ferruccio Bravi, Italo Manfrini, Ida Zucchelli e
altri). La «Vetta» usci dapprima quindicinale, ma in seguito, per
crescenti difficoltà economiche, diradò sempre più l'uscita
(attualmente è trimestrale) senza peraltro lesinare lo spazio alla
documentazione dell'italianità atesina nel passato. Otto anni dopo,
ampliandosi l'attività culturale, sorse il nostro «Centro di
documentazione storica per l'Alto Adige» (* 12 ottobre 1967), rifuso
nell'attuale «Centro di Studi Atesini», con sede in Bolzano.
Riuscimmo a raccogliere adesioni fra gli studiosi, della vecchia
generazione, quali Carlo Battisti, Nicolò Rasmo, Giorgio del
Vecchio, Aurelio Garobbio, Guido Canali, Paolo Drigo, Carmelo
Trasselli, tutti più o meno conosciuti per importanti lavori
sull'Alto Adige e sui problemi dell'Arco alpino. S.E. Podestà
incoraggiò la nuova iniziativa culturale sostenendola moralmente e
materialmente. Era l'anima del Centro, l'uomo che infondeva coraggio
e speranza negli inizi difficili. La sua prematura scomparsa, sul
finire del 1969, fu evento tristissimo per tutti.
Il
Prefetto Podestà fu un italiano alquanto atipico per i tempi dei
quali parliamo e più vicino alla mentalità dei tempi nostri. Oggi i
prefetti sono avviliti ed esautorati; ma se Bolzano avesse un Podestà
(intendo: un Prefetto con i poteri di allora) la pacifica convivenza
sarebbe una realtà invece che una tela tessuta di giorno dalla buona
volontà di alcuni e disfatta di notte dall'insipienza d'altri.
Un
italiano atipico, era Agostino Podestà, e fatto apposta per smentire
i luoghi comuni del razzismo fisiologico e ideologico: alto, occhi e
carnagione chiara, misurato nel gesto, sobrio nella parola. Come Alto
Commissario per le opzioni frequentava il console germanico piccolo e
bruno, e a vederli insieme chiunque avrebbe detto che era lui,
Podestà, il rappresentante della «razza eletta», il tedesco
sognato da Hitler. Dopo l'8 settembre una pattuglia della Wehrmacht
in rastrellamento lo colse nei pressi di Verona. L'ufficiale che lo
interrogava non voleva credere che fosse italiano. Era certo che quel
bell'esemplare «ariano» fosse una spia inglese; ma poi, chiarito
l'equivoco per una provvidenziale testimonianza, lo lasciò andare
con tante scuse. E fece malissimo, perché il prigioniero era un
pesce grosso, da giorni braccato dai nazisti, e il suo nome spiccava
in cima alla lista nera diramata a tutti i comandi del settore.
L'incauto ufficiale se ne sarà accorto quando ormai l'eccellente
ricercato era lontano e al sicuro. Son cose che succedono quando gli
eventi incalzano e la piccola burocrazia militare non riesce a tenere
il passo.
Agostino
Podestà era colto, signorile e umano. Si può essere tutto questo e
anche fascista? Era stato volontario delle CC.NN. in Africa Orientale
ed era il fiore all'occhiello per il regime di allora che dopo breve
«rodaggio» l'aveva mandato a Bolzano. Era il più giovane prefetto
d'Italia.
Quando
assunse l'incarico la sede della Prefettura era al terzo piano del
Palazzo del Governo, presso la stazione ferroviaria. Quel severo
edificio neorinascimentale sarebbe poi diventato il primo dei tanti
palazzi della Provincia Autonoma sorti come funghi nei dintorni e un
po' in tutta la città.
I
poteri di Sua Eccellenza erano ampi e discrezionali. La burocrazia
non era elefantiaca e impastoiata come ora, per ipertrofia di organi
e clientele politiche; pertanto le questioni si risolvevano sul
tamburo, con procedura estremamente semplice. Il discorso vale,
ovviamente, per le questioni «d'ordinaria amministrazione», perché
i problemi cronici, connessi a situazioni sclerotizzate dal tempo,
sottintendono tutt'altro discorso.
Il
più grave di questi problemi riguardava i rapporti fra i due gruppi
linguistici. A quei tempi ci si guardava in cagnesco, peggio di oggi.
Ed era molto difficile trattare con l'allogeno plagiato
dai nazisti e incattivito, se non da altro, dalla
prospettiva di dover lasciare la sua terra. Eppure S.E. Podestà, con
le sue qualità umane, fece breccia nell'animo degli atesini di
lingua tedesca, li tranquillizzò sulla loro sorte e riusci a
convincere molti di loro che avevano ben scelto restando cittadini
italiani. In qualche sudtirolese diffidente la sua cordialità
insospettiva. Il Volgger vedeva in lui una sorta di flautista di
Hameln (pag. 73), ma ha dovuto poi riconoscere che «ha risparmiato
molte sofferenze. Per questo dobbiamo essergli grati fino alla morte
ed oltre». (pag. 75).
Podestà
era l'uomo giusto al posto giusto; ma arrivò tardi, quando ormai il
dramma delle opzioni era prossimo a consumarsi, e la sua opera fu
breve, Breve, ma non per questo dimenticata dagli atesini, alcuni dei
quali, ormai vecchi, ricordano ancora con affettuosa riconoscenza il
giovane prefetto venuto «di lontano».
La
sua sollecitudine verso il gruppo di lingua tedesca non lo distolse
dall'incoraggiare il nostro gruppo. A dare agli atesini di lingua
italiana la consapevolezza di vivere non in terra altrui, ma nella
propria patria, pro-mosse la monumentale opera Alto Adige - Alcuni
documenti del passato che attesta la presenza italiana in
territorio atesino nei secoli scorsi.
Quest'opera
fu stampata in tre volumi, a tempo di primato, nel 1942. Vi
lavorarono studiosi giovani ma preparati, quali Nicolò Rasmo,
Antonio Zieger, Guido Canali, Carmelo Trasselli, Guglielmo Barblan e
vari collaboratori di lingua tedesca fra i quali il conte Teodorico
Wolkenstein, della insigne famiglia cui appartiene Osvaldo - il più
grande poeta atesino - e varie personalità politiche ed
ecclesiastiche di grande rilievo.
La
pubblicazione ebbe successo, malgrado il boicottaggio nazista. Non è
esatto, come riferisce una pur autorevole fonte, che «l'opera non fu
mai pubblicata ed è assolutamente introvabile» (Battisti). Ne
furono invece dotati a suo tempo i principali istituti di cultura,
dagli Archivi di Stato alle biblioteche di Bolzano e di Trento. Molti
privati ne sono in possesso e alcuni esemplari, messi a disposizione
da S.E. Podestà, furono diffusi dal nostro Centro una ventina d'anni
fa assieme a parecchie copie del Sofisti e dello Zallinger (edizione
italiana e tedesca) due pubblicazioni, queste, che furono
effettivamente tolte di circolazione, ma per volontà di Degasperi e
della Volkspartei.
L'OMBRA
DI HITLER
Non
soltanto le opzioni, ma ogni evento verificatosi nella nostra
provincia fra il 1938 e il 1945 è spesso interpretato in modo
unilaterale e distorto e quindi utilizzato a fini politici.
Così,
con estremo semplicismo, si vuoi far credere che Hitler volesse
annettersi l'Alto Adige abbandonato ai tedeschi l'8 settembre. Lo
sostengono molti altoatesini per dare colore di «patriottismo» alla
loro entusiastica adesione al nazismo e lo si sostiene anche da parte
degli autonomisti italiani, da Degasperi in poi, per accreditare una
versione addomesticata dei fatti che è stancamente ripetuta ad ogni
tornata elettorale, ed è questa: i fascisti avrebbero consegnato
l'Alto Adige ai nazisti, e gli alleati Liberatori l'avrebbero ceduto
alla ricostituita Austria se, a salvare la situazione, non fosse
intervenuto il progetto autonomistico.
Per
la verità nessuno consegnò ai nazisti l'Alto Adige: perché quando
esso fu occupato militarmente dai tedeschi i fascisti non c'erano più
e non c'erano più nemmeno le autorità badogliane, fuggite di gran
carriera all'indomani dell'8 settembre. Non occorreva farselo
consegnare, l'Alto Adige: bastava prenderselo.
Quanto
ai Liberatori, essi eran si propensi a liberarci anche dell'Alto
Adige, ma preferirono lasciarcelo perché cosi esigeva la logica di
Yalta: non si poteva aprire una breccia al Brennero nell'evenienza,
probabilissima, che l'Austria dovesse cadere sotto la Russia di
Stalin.
Questo
è ammesso anche da storiografi politicamente condizionati
(Corsini-Lill, 418).
Si
è detto e ripetuto a suo tempo che Degasperi salvò l'Alto Adige;
non è esatto, è esatto invece che egli trasse vantaggio dalla
situazione per attuare quel progetto autonomistico che era nei suoi
voti già prima del 1919.
E
purtroppo quell'autonomia che doveva essere una panacea, un rimedio a
tutti i nostri «mali di frontiera», ha mortificato i sentimenti
nostri senza premiare in termini di libertà i concittadini di lingua
tedesca. È noto come questi siano strettamente controllati da quella
Volkspartei che fino a qualche tempo fa è stata il partito unico per
eccellenza. Ed è pure noto, per quanto ci riguarda, che le
concessioni al gruppo di lingua tedesca vanno ben oltre gli obblighi
previsti nell'Accordo di Parigi.
La
gestione dell'autonomia è nelle mani di partiti che si dicono
«democratici», ma l'ombra di Hitler continua ad aggirarsi inquieta
fra noi. Hitler: «l'uomo pieno di qualità e di buona volontà,
votato al risorgimento tedesco». L'ha scritto Acherer, un nazista di
Bressanone che a suo tempo optò per il Reich. L'ha scritto in una
«confessione giovanile» pubblicata tre anni fa con i soldi nostri
amministrati dalla Provincia autonoma di Bolzano.
Certe
simpatie striscianti o palesi per il nazismo e certi luoghi comuni
trovano appoggi e finanziamenti pubblici, ma nessuno si cura di far
conoscere ai residui nostalgici optanti per il Reich cosa pensasse il
dittatore tedesco del Sudtirolo e della «redenzione» di esso.
Colmiamo questa lacuna riproducendo in appendice il più importante
passo del Mein Kampf in argomento. Il passo è riprodotto in
ristretto, per ragioni di opportunità oltre che di spazio; ma chi ne
ha voglia può andare a leggersi il testo integrale ne La mia
battaglia che dovrebbe pur trovarsi in qualche biblioteca, stante
che il solo Bompiani, a suo tempo, ne diffuse una ventina di edizioni
e nel dopoguerra è stato ristampato in tre edizioni dall'editrice
«Sentinella d'Italia» di Monfalcone.
Altre
dichiarazioni del Führer, pure
qui riportate, non si discostano sostanzialmente da quelle del Mein
Kampf e son tutte coerenti con l'ultima, la più solenne, resa a
Palazzo Venezia il 7 maggio '38 sulla intangibilità del confine al
Brennero. Si potrà obiettare che alla dichiarazione del '38 non ne
seguirono altre ugualmente risolute e che, consumato il tradimento
dell'8 settembre, il Führer
annesse di fatto l'Alto Adige al Reich facendolo governare da Franz
Hofer, suo uomo di fiducia, al quale aveva conferito poteri sovrani.
Certo, ma non si può negare che l'occupazione fu essenzialmente
militare; e che nell'Alto Adige ebbe corso la moneta italiana, mentre
nell'Italia «liberata» erano imposte le Am-lire; e che la
sovranità italiana in Alto Adige, nel '43-45, è ribadita da una
importante sentenza (Cassazione Civile, Sezioni Unite, sentenza 18
giugno 1953, n° 1829, in causa Augustin contro Cassa di Risparmio di
Bolzano). Tale è il tenore della sentenza: benché il controllo
germanico sulla Zona militare delle Prealpi fosse «più esteso e più
penetrante che altrove, i tedeschi non vollero escludere, né
esclusero di fatto nella Zona» i poteri civili della RSI «da
essi formalmente e senza riserve riconosciuta».
Anche
dalla nostra parte c'è chi ha interesse a dar corpo a inconsistenti
Decisioni annessionistiche di Hitler: il corsivo è il titolo
d'una pur seria e documentata opera del Toscano in cui quelle
«decisioni» non sono confermate in modo persuasivo. Nessuno può
affermare che Hitler volesse annettere l'Alto Adige al Reich, o
piuttosto - dopo l'infedeltà dell'alleato - tenerlo in pegno, perché
chi ha questioni non tratta mai a mani vuote. Nessuno può dire quali
fossero le intenzioni del Führer,
ma più d'uno pretende di conoscerle e trae conclusioni su misura per
le proprie tesi. E pone la domanda retorica: «Ma se la Germania
nazista avesse vinto la guerra?» Già, però la storia non si può
scrivere con i se.
La
storia bisogna scriverla con rigorosa aderenza alla realtà dei
fatti, fatti accaduti e non ipotizzati. E va scritta anche nel
rispetto delle buone regole e del contenuto dei documenti.
Non
scrive storia colui che, pur di far prevalere il suo punto di vista,
altera la verità e si comporta da pirata: tipico esempio il Ritschel
che utilizza contro l'Italia documenti a noi inaccessibili e non
controllabili, pescandoli fra le carte del trafugato archivio Tolomei
e nei verbali d'incontri diplomatici che per gli altri restano
segreti. Il volume del Ritschel è del '66 ed è in argomento
l'ultima delle opere tendenziose di qualche rilievo. Ora però, a
cinquant'anni dalle opzioni, tira un'altra aria: gli animi vanno
placandosi, i condizionamenti politici vengono meno, la competenza e
l'obiettività tendono a prevalere sulle passioni di parte. (sic!
ndr)
LE
NORME
Il
trasferimento obbligatorio nel Reich per i cittadini germanici ed ex
austriaci residenti in Alto Adige e la possibilità di opzione per i
c.d. «allogeni» delle province di Bolzano, Trento, Belluno e Udine
erano previsti dall'Accordo di Berlino del23 giugno 1939.
Per
gli «allogeni» in particolare, la Legge 21 agosto 1939, n° 1241,
prevedeva la libera scelta fra la conservazione della cittadinanza
italiana, col diritto di restare nelle sedi storiche d'appartenenza,
e l'acquisizione della cittadinanza germanica, con l'obbligo di
stabilirsi nel Reich, previo equo indennizzo dei beni non
traslocabili.
Le
Norme d'attuazione per il rimpatrio dei cittadini germanici e per
l'emigrazione degli «allogeni» furono firmate a Roma il 21 ottobre
1939 dal Prefetto di Bolzano, Giuseppe Mastromattei, e dal Console
generale del Reich in Milano, Otto Bene.
La
dichiarazione di volontaria rinuncia alla cittadinanza italiana era
resa, accertati i requisiti, nelle mani del Prefetto (art. 2 della
Legge), ovvero nelle mani del Ministro dell'Interno se la
cittadinanza era stata acquistata per Decreto Reale (art. 3).
L'opzione per il Reich comportava l'esenzione dal servizio militare
nel Regio Esercito (art. 4) e l'estensione della perdita di
cittadinanza a tutto il nucleo famigliare (art. 5).
LE
OPZIONI IN CIFRE
Secondo
il comunicato ufficiale del 31 XII 1939 il diritto di opzione sarebbe
stato esercitato da 266.985 abitanti dei territori interessati, vale
a dire: la Provincia di Bolzano nei confini amministrativi di allora,
i distretti di Egna (TN), Ampezzo (BL) e Tarvisio (UD). Risultato
ufficiale: 185.985 optanti per il Reich, 81.000 per l'Italia. Le
cifre di parte tedesca sono alquanto diverse, specie per il numero
degli optanti per il Reich che sarebbero stati più di duecentomila
(211.799, secondo Franz Huter, interessato a far passare per
plebiscito una scelta tutt'altro che serena e libera). Unico dato
abbastanza attendibile per buona approssimazione è il numero degli
optanti per il Reich che raggiunsero le nuove sedi entro il termine
fissato per il trasferimento (31 XII 1942): 78.000 secondo fonte
italiana, 74.500 secondo fonte tedesca. Le cifre e includono circa
10.000 stranieri di lingua tedesca, circa 7.000 ladini e un numero
imprecisato, ma notevole, di trentini intedescati.
L'INDIRIZZO
DI MAX MARKART
«Duce!
I
cittadini italiani di tutte le vallate dell'Alto Adige porgono a voi
il più devoto saluto di quella parte della popolazione che a norma
della convenzione italo-germanica conserva la cittadinanza italiana
e, pieni di fiducia, pongono di bel nuovo il loro destino nelle
vostre mani paterne.
Noi
sappiamo, Duce, come vi stia a cuore la nostra provincia di confine,
nella quale la natura ha creato il più imponente baluardo, il vallo
alpino del Littorio.
Il
ritmo fascista dei lavori ha trasformato la nostra provincia. Le
numerose e poderose forze idrauliche sono state sfruttate. Sono stati
eretti grandiosi stabilimenti industriali; i frutteti della zona di
Merano e Bolzano hanno raggiunto la più elevata coltura e forniscono
frutta di qualità inarrivabile in tutto il mondo; in mezzo alle
bellezze dei nostri monti e delle nostre valli, l'industria
alberghiera ha creato impianti modello di prim'ordine per il turismo,
fonte principale della nostra vita economica.
Al
nostro più profondo ringraziamento per le provvide cure di voi,
Duce, nell'interesse della nostra provincia, uniamo oggi la preghiera
che voi, Duce, vogliate anche in futuro dare la nostra piena e
paterna cura e il vostro aiuto alla nostra laboriosa popolazione.
Noi
siamo fermamente convinti che le difficoltà del momento verranno
superate e vi promettiamo di servire fedelmente la terra da cui
deriviamo, di essere fedeli e leali verso la Patria che protegge e
promuove il nostro lavoro, grati di essere cittadini di uno Stato a
cui la provvidenza nelle ore storiche della Patria ha dato il nostro
amato Duce».
LA
RISPOSTA DI MUSSOLINI
«Camerati!
Signori!
L'udienza
che oggi ho il piacere di accordarvi avrebbe dovuto aver luogo molto
tempo fa. Ma io decisi di rinviarla a dopo il 31 dicembre 1939, cioè
a dopo l'ultimo giorno fissato per le opzioni, perché non volevo in
alcun modo influire sulle vostre decisioni e su quelle degli altri
vostri comprovinciali.
Sono
passati tre mesi, durante i quali gli accordi del 23 giugno 1939 e i
successivi hanno cominciato a trovare leale e pratica applicazione.
È
forse superfluo ricordarvi che gli accordi del 23 giugno 1939
rappresentano la conseguenza logica di eventi storici, come il
viaggio del cancelliere germanico a Roma e delle definitive parole da
lui in quella memorabile circostanza pronunciate. Parole che ebbero
un suggello ulteriore nel Trattato di alleanza fra Germania e Italia.
Le
frontiere alpine, che ben prima degli uomini furono segnate da Dio
per delimitare il corpo fisico dell'Italia, non dovranno mai più
essere ragione di possibile controversia, ma costituire invece la
linea di congiungimento di due Stati, dei due popoli, delle loro
grandi civiltà e delle loro affini, moderne Rivoluzioni.
In
seguito a tali accordi gli abitanti dell'Alto Adige di lingua tedesca
e desiderosi di farlo, avrebbero potuto trasferirsi oltre frontiera.
Cosi è avvenuto e tutto procederà in ordine sino all'esaurimento
della questione.
La
vostra coscienza vi ha dettato la decisione di rimanere cittadini
italiani, decisione che mi è naturalmente molto gradita.
Ora
accade che qualche voce si faccia ancora clandestinamente circolare
sulla sorte che attenderebbe coloro i quali hanno deciso di
conservare la loro cittadinanza italiana.
Ho
voluto convocarvi qui per farvi nella maniera più esplicita e
solenne questa dichiarazione.
Voi
rimarrete tranquillamente nelle vostre residenze abituali,
continuando nelle vostre occupazioni consuete; e nessuno ha mai
pensato o penserà di allontanarvi dalle vostre case per mandarvi in
altre parti del Regno o dell'Impero.
Queste
mie dichiarazioni sono dirette alla vostra intelligenza e al vostro
cuore. Ad esse sarà data la necessaria diffusione nella vostra
terra, perché rappresentano una categorica affermazione, la quale,
come sempre accade nella politica del governo fascista, i fatti
pienamente confermeranno.
Il
Governo fascista continuerà a fare tutto il possibile per assicurare
alla fedele e leale popolazione dell'Alto Adige tranquillità, ordine
e benessere».
Mussolini
Roma,
Palazzo Venezia 21 marzo XVIII
IL
DISPREZZO DEL FUHRER
1922.
- «Noi non dobbiamo per un sentimento sia pure umano di fratellanza
verso 200.000 tedeschi trattati bene, dimenticare che altrove vi sono
milioni di tedeschi veramente oppressi (...) Noi dobbiamo
dichiarare apertamente e sinceramente all'Italia che per noi la
questione dell'Alto Adige non esiste e non esisterà mai più. E
tali dichiarazioni lealmente mantenere e dimostrare veraci coi
fatti».
(Da
un discorso del 17 novembre 1922 pronunciato a Bad Ems e riferito in
una relazione del delegato italiano della Commissione Interalleata
per la Renania Tedaldi, per cui v. anche Ingram Beikircher. -
Dichiarazioni del genere alienarono ad Hitler le simpatie della
destra conservatrice, inasprita anche dal fatto che, almeno allora,
il NSDAP - Partito Nazional-Socialista Operaio cercava proseliti di
preferenza nei settori della sinistra tradizionale)
1923.
- «I nostri occhi devono essere rivolti al Reno: Strasburgo è
per il sentimento tedesco una città sacra assai più che Bolzano e
Merano».
(Obiezione
ad una lettera di Kurt G.W. Ludecke, pubblicata dal «Corriere
Italiano» il 16 ottobre 1923. Tali sentimenti furono confermati
dieci giorni più tardi a Leo Negrelli giornalista di detto foglio
che si pubblicò a Roma nel 1923-24).
1925.
- «Si, Alto Adige. Se qui mi occupo di questo problema è anche per
chiamare alla resa dei conti quella svergognata canaglia che,
contando sulla stupidità e sulla smemorataggine di nostri larghi
strati, osa simulare un'indignazione nazionale che ai nostri
imbroglioni parlamentari è più estranea di quanto sia estraneo ad
una gazza il concetto di proprietà.
Faccio
notare che io sono uno di coloro che dall'agosto 1914 al novembre
1918 presero posto là dove si difendeva anche questo territorio:
cioè nell'esercito. In quegli anni combattei anch'io, non perché il
Tirolo del Sud andasse perduto, ma perché esso fosse, come ogni
altro paese tedesco, conservato alla patria. Quelli che allora non
combatterono furono i predoni parlamentari, tutta la canaglia
politicante dei partiti (...) Chi oggi crede di poter risolvere il
problema dell'Alto Adige con proteste, dichiarazioni, cortei ecc. o è
un briccone, o è un piccolo borghese tedesco.
È
più facile chiacchierare oggi per il recupero del Tirolo del Sud di
quanto non lo fosse un giorno combattere per la sua conservazione.
Ognuno fa quello che può allora noi versammo il nostro sangue:
oggi costoro fanno andare il becco (...).
Se
un giorno dovremo versare il sangue tedesco, sarebbe delittuoso
versarlo per duecentomila tedeschi quando sette milioni di tedeschi
languono sotto il dominio straniero».
(Mein
Kampf, Capitolo XIII, Ed. Bompiani, 311 - Nel Capitolo VI,
(Bompiani 120), col suo abituale piglio aggressivo, H. aveva definito
la questione atesina una montatura ebraica tesa «ad appoggiare la
lotta contro un sistema che appunto a noi Tedeschi deve apparire,
nella situazione presente, come l'unico raggio di luce in un mondo
che tramonta».
E
per finire; al termine di un comizio sul tema dei territori tedeschi
irredenti, come riferiscono Ingram Beikircher e Valther il futuro
Führer avrebbe esclamato,
volgarmente ma efficacemente, «l'Alto Adige va a fare nel ....»
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