Nel
caos di questi tempi tristi e decadenti, caos creato ad arte, perché
nella confusione e nella zizzania è molto più facile comandare e
raggiungere certi fini, fra le mete niente affatto secondarie
perseguite dalla regia o dalle regie che da decenni sovrintendono
all'andamento della politica e dell'economia, c'è anche quella di
dividere l'Italia. Dividere, come capisce anche un bambino,
significa indebolire, significa sostanzialmente togliere di mezzo una
compagine che fino a pochi anni fa era la quinta potenza mondiale del
pianeta, e la cui vitalità economica, anche dopo la sconfitta del
'45, sbalordì lo stesso Kissinger - segretario di stato
americano durante le presidenze Nixon e Ford -, il quale
testualmente dichiarò che mai avrebbe immaginato l'Italia si sarebbe
rialzata in tal modo da una disfatta come quella subita nel secondo
conflitto mondiale. Allo stesso modo si espresse l'imperatore
Francesco Giuseppe all'indomani della conclusione del
Risorgimento, quando, quasi preconizzando la sconfitta austriaca
del 1918, definì l'Italia una nazione risorta a impensata
floridezza, una nascente potenza che costituiva per l'Austria una
spina nel fianco e una minaccia permanente.
Per
chi conosce a fondo la storia della nostra nazione, ciò non
costituisce una novità: noi ci siamo sempre rialzati,
infatti, da ogni tipo di sciagura, anche se hanno sempre cercato di
tarparci le ali, conquistarci, invaderci, sgraffignare la roba
nostra, impadronirsi delle nostre ricchezze, impedirci di emergere,
avanzare diritti inesistenti sui nostri territori, etc., e spesso ci
sono riusciti, ma senza mai arrivare alla definitiva conclusione,
come dimostra il fatto che siamo ancora qui “vivi e
implacabili”, per usare un'espressione Dannunziana. Che questa
smania di umiliarci e schiacciarci sia dovuta al fatto di essere noi
teoricamente i discendenti dei Romani, è molto probabile, anzi è
provato da numerosi fatti che non starò a elencare, e attorno a cui
perfino Shakespeare scrisse una notevole tragedia, significativa
anche se poco conosciuta: il Tito Andronìco. La tragedia che parla
di Roma e dei suoi discendenti. La “tragedia della vendetta”,
come fu chiamata, per la terribile vendetta di sangue che il Padre
Romano, a sorpresa, segretamente ha congegnato contro i nemici
esterni e interni della nazione che lo credono uscito di scena e non
più in grado di nuocere, e ne vengono invece malamente travolti e
annientati alla fine dei tempi, dalle cui rovine rinasce l'Impero.
Pur
riconoscendo l'ammirazione e l'amicizia sincera manifestata nei
secoli da tanti stranieri che si sono dimostrati amanti e cultori
dell'Italia e della sua civiltà e hanno fatto del bene al nostro
Paese, purtroppo la realtà generale è questa: l'Italia ha sempre
costituito un bersaglio, una mira, una spina nel fianco e comunque un
pericolo per la geopolitica. E' questa la ragione sostanziale del
notevole ritardo con cui si compì il suo Risorgimento: nonché
dell'immensa fatica e del sangue che costò. Purtroppo oggi siamo
costretti a convivere nostro malgrado con una truppa di persone che
crede e vuol credere che il Risorgimento sia stato opera di pochi, e
questi pochi l'abbiano realizzato male, peggio, commettendo delitti e
massacri indicibili nel mezzogiorno d'Italia, refrattario e anzi
avverso all'Unità della nazione. Faccio solo due piccoli esempi. Uno
dei menestrelli attuali delle bellezze del Regno delle due Sicilie,
destinatario pure di un premio giornalistico, dichiarò in
un'intervista che il meridione diede alla causa italiana 44 volontari
(sic!!). Facendo un balzo di centinaia di chilometri, tra lo sparuto
gruppuscolo di triestini indipendentisti, nostalgici dell'Austria e
filoslavi che attualmente galleggia a pelo delle acque anti-italiane,
è ormai una regola dire che l'irredentismo Triestino riguardò solo
poche migliaia di persone, la restante parte della città (240.000
persone) essendone completamente estranea. Ciò è smentito da una
serie di fatti eclatanti (primo fra tutti le oceaniche accoglienze
all'esercito italiano nel 1918), fatti tra i quali basterebbe
annoverare questo: in occasione della tragica morte dell'imperatrice
Elisabetta (la celebre Sissi) nel 1898, la notizia fu accolta nella
città di Trieste nella pressoché totale indifferenza, suscitando le
ire delle autorità austriache. Viceversa, quando morì il Re
Vittorio Emanuele II vent'anni prima, nel 1878, la città si vestì a
lutto, i negozi chiusero, una gran folla partecipò alla Messa di
suffragio, seguendo poi il console d'Italia commendator Bruno fin
davanti alla sede del consolato ove inscenò una manifestazione
patriottica che finì col solito intervento della Polizia (uno dei
tanti) .
Dunque:
Risorgimento è una parola solenne e sacra finita in bocca a gente
dozzinale che si autodefinisce storica e di storico non ha nulla, a
meno di non voler degradare la Storia, che è una Scienza, a livello
di gossip, di passaparola, di letture superficiali e inconsistenti,
e, addirittura, di plateali bugie.
Poiché
la divisione dell'Italia non è andata a segno quando si pensava che
la Lega Nord ci sarebbe riuscita nei lontani anni ottanta, ecco che
le basse forze della discordia sono tornate all'attacco, stavolta
armate di nostalgie neoborboniche, asburgiche e papaline,
sbandierando assurdi primati, genocidi inesistenti, spoliazioni mai
avvenute, e non importa se mentono sapendo di mentire poiché il
loro scopo non è quello di cercare la presunta verità storica, ma
semplicemente di spargere inimicizia, sospetto, avversione e malumore
in una nazione che, pur riemersa materialmente dalla sconfitta del
'45, dal punto di vista spirituale è da allora priva di una vera
guida, lasciata a sé stessa e ai suoi instabili umori, che
sappiamo quali sono attualmente, alle prese con una crisi economica
che non ha mai fine e con disgrazie che si succedono una dopo
l'altra, magari richiamate dalle stupidaggini, dagli spropositi e
dalle follie cui assistiamo ogni giorno, muti e impotenti spettatori
di fronte agli argini infranti dell'intelligenza e del buon senso.
Le
calunnie sul Risorgimento costituiscono uno dei punti, e il più
cruciale, ove si addensano e si arruffano le aggressioni contro
l'identità nazionale. Mettendo in forse l'unità della nazione,
mettendo in dubbio la sua stessa legittimità, irridendo e gettando
fango sul processo che ha portato a quel traguardo, sminuendolo e
inquinandolo di bugie, dicendo che Garibaldi era un sanguinario e
Cialdini un macellaio, ecco che i satrapi furbi dell'antiRisorgimento
eccitano un certo popolino, ansioso di sentirsi assolvere dalle colpe
del presente scaricando sul passato le frustrazioni, le delusioni, le
rabbie e le insoddisfazioni la cui causa non ha niente a che vedere
con coloro che fecero il Risorgimento. Tra l'altro, se Cialdini fosse
stato un macellaio, non avrebbe certo impedito che il fanatico
generale borbonico Fergola che aveva resistito otto mesi nella
cittadella di Messina con i suoi, fosse linciato dalla folla dei
messinesi infuriati.
Volendo
stilare la squallida classifica dei venditori di fumo
antirisorgimentale, ve ne sono alcuni che hanno raggiunto
un'impensata notorietà, non certo per meriti storici, ma perché i
media ne hanno creato un caso, e si sa che il parco buoi è ciò che
consente di prosperare a tutto il meccanismo
propagandistico-pubblicitario che fa capo alla televisione e ai
principali quotidiani, dove, dietro la facciata ufficiale dell'Unità
d'Italia, celebrata più a parole che a fatti, alligna indisturbata
una ben più corposa congrega di detrattori, infangatori e mentitori.
Di più, in quest'epoca infelice, l'ignoranza è il valore
maggiormente condiviso, assieme alla volgarità, alla finzione, alla
superficialità e al sensazionalismo, e di conseguenza le pindariche
bordate dell'artiglieria antirisorgimentale vanno a segno con
sorprendente facilità.
Costituisce
dunque un fenomeno sociologico - altro non saprei come definirlo - il
fatto che un tal numero di gente creda alle balle del primo venuto,
eppure è così: nel terzo millennio, nell'era dei telescopi orbitali
a infrarossi che indagano le profondità dello spazio, una miriade di
gente in Italia ha creduto a bocca aperta (senza discutere, senza
svolgere indagini, senza documentarsi, senza leggere, senza chiedere
a qualcuno che magari ne sa di più, senza nemmeno porsi un
interrogativo e un dubbio personale), ha creduto semplicemente,
sull'onda dell'emotività e quindi dell'irrazionalità, a cose a cui
evidentemente voleva credere e aveva bisogno di credere per
autoassolversi, consolarsi e dar sfogo alle proprie personali
frustrazioni. Così abbiamo appreso da una sorta di
negromante-indovino, il quale è certamente dotato di poteri
paranormali e chiaroveggenti che gli consentono di scandagliare la
complessa trama del Risorgimento, e invece mancano a professori,
storici e ricercatori che vi hanno dedicato anni e anni di studio,
abbiamo appreso che i “piemontesi”, nazisti ante-litteram, tanto
per cominciare invasero il meridione contro la sua volontà, e,
volendo a tutti i costi unire l'Italia onde appropriarsi dei soldi e
dell'oro meridionale, massacrarono, deportarono, rapinarono,
stuprarono, facendo digerire a forza, a furia di schioppettate e
cannonate, la loro brutale conquista a un popolo tranquillo e
pacifico che non voleva saperne, e che dunque si ritrovò qual
vittima sacrificale di una tale mastodontica violenza, che cagionò
nientepopodimeno un milione di vittime (poco più poco meno, fate
voi....).
Ma
non si pensi che io, in quest'articolo, intenda confutare una per una
codeste balordaggini, perché l'ho fatto già in tanti altri miei
articoli e continuerò a farlo, di volta in volta affrontando con la
dovuta razionalità i punti ai quali i vari infangatori si
aggrappano, anche perché ho la presunzione di credere che chi mi
legge sia a un livello culturale e intellettuale ben diverso. No, io
voglio richiamare ancora una volta l'attenzione e la vigilanza su
questi oracoli dell'antiRisorgimento - in specie quelli aureolati
dalla fama, ridenti sotto i riflettori -, quelli che dicono che sanno
e hanno scoperto cose indicibili nascoste dai perfidi piemontesi,
invitando a osservare la loro fisiognomica e, soprattutto, il
preoccupante fenomeno di abbacinamento delle folle (una volta si
chiamava abuso della credulità popolare e costituiva un reato) di
cui sono causa volontaria e premeditata: un fenomeno che genera
sgomento e soprattutto induce al pessimismo circa l'avvenire della
nostra nazione. Un pessimismo giustificato, che spiega, tra
l'altro, come mai in Italia, invece di un partito
nazionalista-sovranista come in tutti gli altri paesi d'Europa, vi
sia solo una montagna di chiacchiere inconcludenti e di personaggi
che non sarebbero in grado di guidare una squadra di pallavolo,
figuriamoci una nazione.
In
questo quadro desolante, il paragone con coloro che fecero il
Risorgimento e combatterono la Grande Guerra mette purtroppo in luce
un esercito d'incapaci, d'incompetenti e d'indolenti, non
sufficientemente controbilanciati da coloro che invece sanno fare il
proprio lavoro e hanno voglia di fare, cioè gli italiani grazie ai
quali la nazione va avanti. Ma per fare andare avanti una nazione
non basta la materia, ci vuole anche lo spirito. Il giorno del
ricordo - fissato dalla legge n. 92 del 30 marzo 2004, al 10
febbraio di ogni anno - dovrebbe essere una delle occasioni in cui
viene fuori l'anima concorde di una nazione. Il giorno del
ricordo dovrebbe essere, appunto, il giorno dello spirito,
in cui ci si sofferma a pensare e si porge grato omaggio ai
connazionali che hanno dato la vita per questa nazione o comunque
hanno pagato a caro prezzo il proprio essere italiani. Il
giorno del ricordo dovrebbe essere insomma un giorno dedicato alla
Patria, assieme al 4 novembre, data della Vittoria nella Grande
Guerra contro l'impero asburgico, che da molti anni ormai non si
festeggia più e comunque è stata mascherata da una diversa
espressione che nasconde il vero significato di quella solenne
ricorrenza, e al 17 marzo, data della proclamazione del Regno
d'Italia, che si è festeggiato - chissà perché - una sola volta.
Cose da matti, verrebbe da dire, in una nazione normale. Ma l'Italia
non è un paese normale: è un paese malato, abitato in una certa
percentuale da gente che pesca nel torbido, che rema contro, che
irride alla propria stessa identità, una sorta di canzonatori
disfattisti, di maniaci della sconfitta, di sciacalli che si
compiacciono delle disfatte e ci girano costantemente attorno, di
individui obliqui che prediligono sempre qualche altro paese e
popolo, o, peggio, rimpiangono la trista epoca pre-unitaria, o,
peggio ancora, sono tarlati dal sordido proposito di dividere in
qualche modo la nazione, non importa se a Trieste o in Alto Adige o
in Sicilia o dovunque fosse. Questi seminatori di zizzania che
allignano e prosperano nei vari sottoboschi, spuntano come i funghi
ora qui ora là, e starci dietro è quasi impossibile, perché, pur
accomunati da un medesimo sciagurato velleitarismo distruttivo,
mescolato a pulsioni psicologiche fatte di rancore, invidia e
ignoranza, prendono direzioni e assumono colorazioni diverse. E
proprio il giorno del ricordo offre lo spunto per riflettere su
questa realtà con cui dobbiamo fare i conti e alla quale bisogna
tener testa, perché, nella debolezza e nel lassismo del governo che
pensa ad altro, da essa sorge un grave pericolo: quello di ribaltare
i fatti, di ammorzare il lume dei ricordi, non solo il ricordo degli
Istriani, Fiumani e Dalmati, ma tutto l'incalcolabile patrimonio di
ricordi che costituisce il bagaglio storico insostituibile
dell'Italia. Esso non è stato tramandato nella giusta maniera, non è
stato conservato con quella gelosia e quella cura che sarebbero state
necessarie, non è stato protetto e difeso abbastanza, non è stato
abbastanza studiato e spiegato, se oggi assistiamo a simili
aggressioni. O forse l'Italia del dopoguerra, con il suo complesso di
colpa antifascista, è la principale responsabile di questa grave
lacuna. Proprio riguardo al giorno del ricordo e alle contestazioni a
cui è fatto segno (il che lo accomuna al Risorgimento e alla Grande
Guerra, del pari bersagli fissi dei contestatori di professione), le
responsabilità di questa repubblica non sono piccole. Il
colpevole silenzio steso sulle drammatiche vicende dei connazionali
dell'Adriatico orientale di cui molti italiani ignoravano perfino
l'esistenza, è stato troppo lungo e troppo pesante perché
basti una commemorazione annuale a diradarlo. In altre parole il
giorno del ricordo, di per sé giustissimo, non basta a colmare la
grande lacuna, non basta a tener acceso il lume dei ricordi, non
basta a compensare moralmente tante sofferenze. Inoltre, la storia di
quelle regioni che a noi appaiono lontane e ormai perse
irrimediabilmente, non è chiara nemmeno oggi, anzi risulta
ulteriormente intricata e confusa da tesi contrapposte che si urtano
tra loro, e, non di rado, invece di chiarire, complicano ancor più
la questione, cosicché, accanto ai “negazionisti” e
“riduzionisti”, si è affermata una posizione mediana ufficiale,
sostenuta dal Governo, secondo cui, pur riconoscendo pieno valore
storico al dramma degli Istriani, Fiumani e Dalmati, si tende a
controbilanciare questo dramma con i gravi torti di cui l'Italia si
sarebbe resa responsabile verso gli slavi: i quali gravi torti
commessi dagli italiani, in particolare dai fascisti durante
l'occupazione della Jugoslavia, uniti a quelli commessi dal Regno
d'Italia quando, dopo la Vittoria del 1918, occupò territori abitati
anche da gente slava, autorizzerebbero a dedurne una specie di
“patta”, cioè una situazione di parità in cui i torti commessi
da una parte e dall'altra, messi sul piatto della bilancia, infine si
equivarrebbero. Da qui le iniziative conciliatrici dell'ex
Presidente Napolitano, le celebrazioni di una ritrovata amicizia con
sloveni e croati, la deposizione di corone da ambo le parti,
l'istituzione di una commissione bilaterale di storici che, con animo
sereno, ristabilisca la verità delle due parti in conflitto, la
concessione delle doppie scritte nelle pressoché inesistenti
provincie di Trieste e Gorizia che possano fare il paio con quelle di
Slovenia e Croazia, al fine d'inaugurare finalmente una nuova era di
collaborazione e di pace nel quadro di questa meravigliosa Europa.
Può
darsi. Può darsi che sia giusto e che sia vero. Oppure no. Potrebbe
trattarsi semplicemente di una soluzione di comodo, comoda
soprattutto per la Slovenia e la Croazia odierne, le quali hanno
ricevuto i maggiori vantaggi, anche in termini d'immagine, da questa
facile parificazione delle colpe e pacificazione più apparente che
reale. Le doppie scritte nelle esili provincie di Trieste e
Gorizia costituiscono infatti un indubbio colpo messo a segno da una
minoranza slovena d'importazione, agguerrita, tracotante e fagocitata
dalle formazioni di sinistra che gli italiani allegramente continuano
a mandare nelle amministrazioni locali, dando così la stura alle
esaltate forme di esterofilìa che le contraddistinguono, di cui
quella a favore degli slavi è una delle più eccitate ed eccitabili,
smaniosi come sono, questi comunisti falliti, di prendere le parti
dello straniero di turno, in tal caso dei poveri slavi perseguitati e
vessati dal Fascismo e, perfino, dal Regno d'Italia uscito vincitore
dalla Guerra nel 1918 e quindi nel suo pieno diritto di dar seguito a
quella Vittoria annettendo i territori ex austriaci, i quali poi
altro non erano che i territori appartenuti stabilmente alla
Serenissima fin dal XV° secolo, ragion per cui potremmo dire che
l'Italia si riprese semplicemente il maltolto, e anzi non lo riprese
neanche tutto. E anche i territori che non appartenevano alla
Serenissima come Trieste, Gorizia e Fiume, e perfino Ragusa di
Dalmazia, avevano comunque conservato l'italianità, il che è la
riprova che essa era forte e radicata indipendentemente dalla
Serenissima e dal suo pur potente influsso: era presente a
prescindere da Venezia, e dunque preesistente. Non solo, ma
permeata di forti elementi di Romanità, i quali risultavano del
tutto estranei e anzi invisi agli slavi immessi in terre che non
erano loro e a cui non potevano sentirsi tradizionalmente legati dal
legame con Roma che invece riguardava tutti i legittimi abitanti
dell'Adriatico Orientale, passati poi sotto Bisanzio, la seconda
Roma. Fra le innumerevoli aggressioni subite dagli italiani per mano
slava, infatti, non di rado si annoverano vandalismi nei confronti
dei reperti Romani, veri e propri segnacoli identitari dei legittimi
abitanti di quelle terre, come accadde quando il prete sloveno don
Urban Golmajer distrusse tutte le lapidi Romane degli scavi antichi
di Rozzo (un paesino nel centro dell'Istria), destando
l'indignazione di Theodor Mommsen, lo storico tedesco autore della
famosa Storia di Roma in cinque volumi.
Fu
pertanto durante il periodo della dominazione austriaca, iniziato nel
1797, a parte la breve parentesi francese, che gli slavi
di cui si parla, cioè quelli reclamanti a gran voce il possesso
delle terre italiane, furono immessi nei confini delle terre
irredente, e il fatto che originariamente fossero giunti in
quelle contrade a seguito delle ultime invasioni barbariche del VII°
e VIII° secolo, non significa assolutamente nulla, perché
altrimenti l'Italia non sarebbe più Italia e non esisterebbero più
italiani, bensì solo Goti, Eruli, Unni, Longobardi, etc. Gli
slavi giunsero sì in antica data in quelle contrade, ma non
riuscirono a conquistarle affatto, tanto più che non possedevano
neanche la decima parte della forza militare dei Goti e dei Franchi
né la loro levatura e le loro ambizioni di diventare Romani o,
meglio, di sostituirsi ai Romani. In ogni modo, si tratta di vicende
sepolte nella notte dei tempi che non possono fare da piedistallo per
alcuna rivendicazione in tempi moderni, anche perché
non sono collegate tra loro con continuità. In altre parole, gli
slavi reclamanti il possesso dell'Istria e della Dalmazia nel XIX°
secolo non hanno niente a che vedere con gli slavi che giunsero
dodici secoli prima, sennò tutto l'Adriatico orientale, a
partire addirittura dalla Carniola, sarebbe stato da un bel pezzo
compattamente slavo e il problema delle “terre irredente italiane”
non si sarebbe mai posto, così come non si pose per le terre che,
dal V° secolo in poi, furono effettivamente conquistate dai barbari
che vi fondarono un loro stabile e duraturo Regno (come i Franchi
nella Gallia, per esempio). Ci fu un regno di Croazia nel Basso Medio
Evo che arrivò a lambire Zara, ma esso era così irrisorio, effimero
e territorialmente esiguo che le cronache storiche relative alle
lunghe e importanti guerre combattute da Venezia nei secoli, non lo
citano neanche come comprimario, figuriamoci come protagonista,
cosicché non è possibile attribuirgli a posteriori l'importanza che
non aveva, praticamente pari a zero. Molte delle sue importanti
guerre, Venezia le combatté invece contro l'Austria, che facilmente
sottomise il Regno di Croazia già sottomesso all'Ungheria, ma
giammai riuscì a sottomettere Venezia, con cui dovette scendere a
patti e compromessi, non di rado umilianti, fissando confini e
rispettive zone d'influenza che i Veneziani puntigliosamente
fissavano con lunghe ed estenuanti trattative. Al contrario, gli
slavi come Stato non costituivano nessun problema per la Serenissima
(tantomeno un problema militare) semplicemente perché non c'erano,
ed essa poté dedicarsi alla propria espansione in terraferma e sul
mare senza che nessun “esercito slavo inesistente” venisse a
contrastarla (l'inarrestabile espansione di Venezia fu fermata solo
da una potente coalizione europea capeggiata dal Papa ai primi del
'500), espansione che contemplava il possesso di tutto il confine
nord-orientale dall'Isonzo fino a Cattaro, sottomettendovi le
popolazioni, quali che fossero, slave o non slave.
A
questo proposito, alcuni storici, per non parlare della gente comune
che identifica Venezia con le commedie di Goldoni e le maschere del
Carnevale, sembrano dimenticare che la leggendaria città lagunare
non fu soltanto una grande potenza commerciale, ma anche una potenza
militare di primaria grandezza che nel combattere le guerre non
andava per il sottile e picchiava sodo quando si trattava di
acquisire territori e sottomettere popolazioni che poi regolarmente
integrava, alla maniera Romana. Non a caso gli slavi nati e
cresciuti sotto Venezia divennero fedelissimi sudditi del Doge,
divennero gli slavi-veneti che parlavano il veneto da mar, volevano
morire per la Serenissima e sognavano il suo ritorno quando questa
decadde sotto la spinta delle nuove idee portate dai francesi.
Dunque, non potevano certo esser loro a reclamare, solo pochi anni
dopo, l'unione dell'Istria e della Dalmazia a Zagabria, scacciandone
gli italiani, ossia i Veneti stessi. Di conseguenza costituisce un
mito della storiografia jugoslava la continuità della presenza slava
in quei territori passati a Bisanzio dopo la caduta di Roma,
territori nei quali subentrò la potenza di Venezia che li contese
all'Austria, al Regno d'Ungheria, ai pirati slavi (i narentani prima,
e gli uscocchi poi) che furono annientati, ai Saraceni e ai Turchi
che furono respinti, non certo al Regno di Croazia, il quale non vi
ebbe che una parte irrilevante. Al contrario, l'illustre funzione di
guardiana, protettrice e benefattrice, fu l'aureola che circondò
Venezia in tutte quelle terre adriatiche che richiesero spesso il suo
aiuto e vissero felicemente per secoli sotto la sua egida. Nei testi
scolastici jugoslavi, invece, Venezia viene presentata come
l'occupante illegittimo delle terre adriatiche abitate
continuativamente dagli slavi fin dal VII° secolo! Un occupante che
portò in quelle terre gli italiani che non c'erano, inserendoli
arbitrariamente tra gli slavi a far loro da padroni. Ebbene tutto ciò
è completamente falso, ma il bello è che in molti ci credono, anche
al di fuori della Jugoslavia e delle sue leggende, e allora
dovrebbero spiegare dov'erano questi slavi che abitavano quelle terre
fin dal VII° secolo, prima che ci arrivassero i Veneziani invasori,
i quali rappresentavano il continuum con Bisanzio e non certo un
punto di rottura con la Storia precedente, e comunque non
trovarono nessun regno degli slavi, bensì invece trovarono gli
abitanti autoctoni (mescolati alle etnìe più varie) i quali non si
reputavano affatto slavi e tantomeno croati, e designavano se
stessi semplicemente con riferimento alle rispettive città di
appartenenza (Zara, Spalato, Sebenico, etc.), esattamente come
avveniva nell'Italia Comunale. Perfino i Ragusei, che si mantennero
indipendenti da Venezia (anche se sempre in contatto con essa), non
si reputavano slavi, pur conoscendo la lingua dei vicini serbi. Le
zone dalmate dell'interno, ben poco popolate, erano abitate
dai morlacchi e dai cici, che non si reputavano affatto slavi, ma
addirittura discendenti degli antichi Illiri. Non dico che non vi
fosse neanche uno slavo, ma certo non in misura sufficiente da poter
dire che quelle terre erano slave. Anche nel ripopolamento delle
contrade svuotate dalla peste o da altre calamità, Venezia fece
affluire etnìe miste (anche dall'Italia), e non solo slave, e non
certo a casaccio: si trattava in genere di famiglie selezionate tra
gente la più varia, che aveva voglia di lavorare, integrarsi,
obbedire alla legge e seguire la santa religione, cattolica o
ortodossa. Ciò avvenne per esempio a Parenzo, una cittadina costiera
dell'Istria occidentale, ripopolata fra il '500 e il '600. Ma non
risulta che Parenzo si sia mai proclamata slava. Anzi: addirittura
adesso c'è il 12% di italiani.
A
riprova che quelle terre furono italiane, esse vissero l'età
Comunale e il Rinascimento, con intensissimi rapporti e scambi con la
madrepatria. Vissero e condivisero poi il Risorgimento fin dai suoi
albori, cioè dalla Carboneria e società segrete minori affini a
questa. Dov'erano dunque i fantomatici slavi e croati che
avrebbero abitato senza interruzione quei luoghi fin dai remoti tempi
delle invasioni barbariche? Semplicemente non c'erano. D'altra
parte la stessa architettura lo attesta senza ombra di dubbio: essa è
un'architettura chiaramente italiana. E infatti col termine
“croati”, usato pochissimo in tutto l'Adriatico orientale,
s'intendevano i croati dell'interno, sottomessi all'Ungheria e poi
all'Austria, i quali avevano una lingua, molto simile al serbo, che
non veniva usata nella vita pubblica. Il primo discorso in croato
davanti al Parlamento risale al 1843. Dunque non si capisce che ruolo
i croati potessero avere in Istria, Fiume e Dalmazia. Il loro ruolo
venne costruito artificiosamente nel XIX° secolo, sorgendo dal
panslavismo e dalle proprie stesse mire fagocitate dall'Austria, a
cui tornò di estremo giovamento suscitare la croatizzazione (e in
misura minore la slovenizzazione) per togliere di mezzo gli
ingombranti italiani da tutta la fascia territoriale che dall'Isonzo
scendeva fino a Cattaro, estremo lembo meridionale della Dalmazia.
Dalla
caduta della Serenissima (1797) alla proclamazione del Regno d'Italia
(1861) trascorsero alcuni decenni che furono sufficienti all'Austria
per causare all'odiata nazione italiana rinascente, che
costituiva una minaccia al suo dominio, quei danni irreparabili
che vanno sotto il nome di sostituzione etnica, cui qualcuno ha
aggiunto il termine terrorismo di Stato, con riferimento alle
aggressioni continue, violente e non violente (si può dire
giornaliere), comprensive anche di brogli elettorali, falsificazioni
di censimenti e cambio forzato dei nomi e dei cognomi, cui gli
italiani del confine orientale furono sottoposti per spingerli ad
andarsene o slavizzarsi. All'ombra della sua potenza politica e
militare, l'Austria poté agire del tutto indisturbata, e toglierla
definitivamente di mezzo è stata un'impresa titanica e l'atto più
salutare e meritorio di tutto il Risorgimento italiano.
Come
sappiamo, prima che l'Italia in lotta per la sua riunificazione
potesse tornare a riaffacciarsi in quelle desiate contrade Romane,
Bizantine e Veneziane, ci vollero guerre e insurrezioni (le 101
battaglie che hanno fatto l'Unità d'Italia di cui parla lo
storico Andrea Frediani nel suo libro omonimo), fino al finale e più
terribile confronto con l'impero asburgico: la guerra '15-'18. Fu
grazie a quella Vittoria che il Regno d'Italia entrò nell'Adriatico
orientale per riprendersi ciò che era suo e vendicare Venezia, punto
di riferimento nevralgico di tutto il Risorgimento. Dopo decenni di
persecuzioni, processi, cannoneggiamenti di città, arresti,
interrogatori, torture, rapine, saccheggi, confische di beni,
deportazioni, fughe ed espatri volontari e coatti di decine e decine
di migliaia di italiani nei “felici” territori occupati dagli
austriaci coadiuvati dai loro vassalli croati, sloveni e anche serbi,
la Vittoria gloriosa del 4 novembre 1918 spalancò finalmente ai
connazionali di Trieste, di Gorizia, dell'Istria, di Fiume e di
Dalmazia le porte dell'agognata riunione alla madrepatria. Ma non era
ancora finita. Altro sangue, altre sofferenze, altri soprusi e altre
infamie si preparavano. Gli alleati stessi con cui l'Italia aveva
combattuto la Grande Guerra, entrandovi in un momento in cui le sorti
dell'Intesa erano tutt'altro che favorevoli, si misero contro di noi
e presero le parti degli jugoslavi al fine di escluderci
dall'Adriatico orientale e dai Balcani. Mille altre violenze,
angherie, vessazioni si compirono, fino alla tragedia finale delle
foibe e dell'esodo. E ancora continuano, perché ci sono voluti ben
60 anni di lotte (!) per aprire, nel 2012, un piccolo asilo italiano
a Zara, e una truppaglia di esagitati tuttora nega, ridimensiona e
irride alle foibe e all'esodo degli Istriani, Fiumani e Dalmati,
chiamando in causa il solito Fascismo e addirittura il Regno
d'Italia, accusati di aver compiuto una “bonifica etnica” a danno
degli slavi abitanti nei territori annessi all'Italia dopo il 1918,
con l'impedire loro l'uso della lingua e cambiar loro forzatamente i
cognomi. A queste facili accuse continuamente proferite dagli
slavofili di casa nostra e dai loro amici d'oltre confine, potremmo
rispondere semplicemente col detto “chi la fa l'aspetti”, ma
ancor meglio entrando nel merito di quei provvedimenti, il che
nuocerebbe proprio agli accusatori, le cui urla contro l'imperialismo
italiano-fascista non hanno scatenato quell'ambaradan che si
proponevano. Infatti, la legge n. 114 del 28 marzo 1991 per la
restituzione dei cognomi italianizzati dal fascismo ha destato
tiepide reazioni da parte dei pretesi danneggiati, e dunque si è
risolta in una bolla di sapone. Nè poteva essere altrimenti, dal
momento che spesso si trattò di un'italianizzazione volontaria più
che forzata, e in molti casi non si realizzò affatto, com'è stato
più volte spiegato anche dal defunto professor Tomaz, esule
istriano, animatore di tanti dibattiti e conferenze storiche
sull'Istria e la Dalmazia. Il quale conservò tranquillamente il suo
cognome “straniero”.
E
concludiamo appellandoci perlomeno alla logica: cosa c'entra comunque
il Fascismo con tutto ciò che abbiamo narrato fin qui? Dov'era il
Fascismo su cui si riversano le colpe e le responsabilità delle
violenze slave che per decenni impunemente si consumarono contro di
noi decenni prima che il Fascismo nascesse? Esso è assunto
disonestamente come alibi perché oggi torna comodo parificare,
conciliare e pacificare le due parti in conflitto con “animo equo e
sereno”, secondo i ben noti intendimenti dei nostri governanti
attuali. Ma la verità, come abbiamo spiegato, è un'altra.
Non
lasciamoci dunque fuorviare e intimidire da questi spaventapasseri
che agitano il Fascismo come colpevole quando migliaia di croati e
sloveni fuggirono anch'essi assieme agli esodati italiani e
altrettanti cercarono di farlo ma non riuscirono perché
furono sterminati prima dai titini. E pronunciamo i limpidi nomi
italiani di Istria, Fiume e Dalmazia più spesso che possiamo.
Impariamo i nomi italiani delle centinaia di paesi e città di quei
luoghi così cari che devono vivere e rivivere per sempre nei nostri
cuori, e ripetiamoli come in una preghiera, graziandoli di una
fantastica resurrezione. Ciò ci consola e ci fa sognare, è di buon
auspicio, e par quasi che faccia risorgere i cari fratelli dalle cupe
voragini in cui è stata inghiottita la loro vita sacrificata alla
Patria. Non lasciamo che i buchi neri della Storia la rapiscano, non
lasciamo che nelle foibe sia inghiottito anche lo spirito oltre al
corpo dei nostri sfortunati connazionali.
Il
Risorgimento non finì con la presa di Roma, ma continuò ancora per
molto tempo nelle terre irredente, nel cuore fedele e appassionato di
quelle genti che per anni sperarono in uno sbarco di Garibaldi. Egli
era sbarcato in Sicilia: perchè non poteva sbarcare anche in Istria
e Dalmazia? Dai cupi antri delle foibe, perciò, e da mille altri
luoghi di sofferenza ingiusta e inumana, esce il grido dei nostri
morti che ci dicono che il Risorgimento continua ancora.
Maria
Cipriano
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