Corporativismo
e socializzazione. Ecco i temi trattati in
quella che è stata la
prima conferenza organizzata¹
dal
Gruppo di Studio Avser insieme agli amici di Magnitudo Versilia –
che
hanno messo a disposizione la loro nuova e bellissima sede per
l'occasione. Conferenza
tenutasi
lo
scorso sabato
17 dicembre 2016 ed
in cui sono stati
invitati
a parlare due giovani ed
eccellenti
relatori, Francesco Carlesi e Gianluca Passera. Nell'introdurli ho
dichiarato che le radici culturali di
quella scuola di pensiero, prettamente italiana, da cui si
svilupperanno tanto il corporativismo quanto la socializzazione,
possono
essere
individuate
in modo più compiuto nel nostro Risorgimento, ma
che
esse
partono da lontano.
Dove
situare allora
quel “lontano”?
Al
quesito
rispose
a
suo tempo Carlesi, quando lo intervistammo
sul nostro sito, dichiarando
in merito:
«
Con
tutti i dovuti ed evidenti distinguo, “tracce” di corporativismo
si trovano sin dall’esperienza dell’antica Roma
»².
D'altronde
la parte più viva e attuale del Risorgimento è intrisa fino al
midollo di romanità.
Il
mio obbiettivo è allora
quello di far capire il perché queste “tracce” vadano
rintracciate proprio
lì.
Qui
ci vengono in soccorso alcuni degli ultimi lavori di Andrea
Carandini. Per
chi non ne avesse mai sentito parlare, trattasi di uno dei massimi
archeologi italiani,
grazie alle
cui
scoperte
si
è finalmente riusciti a capire
che
l'Urbe
nasce
effettivamente nell'VIIIº secolo a.c., proprio
come vuole la leggenda
e che
molti
dei racconti mitologici
legati
alla sua fondazione contengano importanti e significative tracce di
verità. Ulteriore
merito di Carandini è stato quello di aver saputo leggere non solo i
dati materiali delle sue ricerche, ma di averli comparati con altre
discipline – storia delle religioni, antropologia, scienze
politiche – al fine di dare una visione complessa e sfaccettata del
misterioso universo
in
cui Roma nasce e si accresce. Esistono
ampi dibattiti su molte delle tesi sostenute da Carandini e non sta a
me confutarle o meno in questa sede. Ciò che m'importa è trarre da
alcune sue dichiarazioni
la dimostrazione di come la “rivoluzione
mentale”³
di cui parla Gianluca Passera nel suo bellissimo libro La
nobile impresa,
da compiere rigettando in toto
l'approccio prettamente materialista dei modelli sociali, economici e
politici imperanti, debba ripartire proprio da una
visione spirituale ed organica dell'Uomo che,
nell'antica Roma, affonda
le sue più profonde radici.
Partirei
nel mio intento citando un passo tratto da Tito
Livio e riportato anche in Res
Publica. Come Bruto cacciò l'ultimo Re di Roma,
dove Carandini, con uno stile a metà tra il divulgativo e il
romanzato, ci racconta
alla sua maniera
l'epopea dell'instaurazione repubblicana nell'antica Roma.
Il
console Lucio Giunio Bruto,
padre
della Repubblica,
è
appena
morto
in
battaglia contro gli Etruschi e dopo
il
suo solenne funerale, sull'altro
console Publio Valerio cala un'ombra inquietante:
«
Ma
il console superstite (davvero instabile l'umore della gente!) passò
dal favore all'invidia; non solo, fu anche oggetto di sospetto e di
una accusa infamante. Girava voce che egli aspirasse fortemente al
regno, perché non aveva surrogato il collega Bruto e per di più si
stava costruendo la dimora proprio in cima alla Velia: in quel luogo
alto e fortificato sarebbe diventata una sorta di rocca
inespugnabile. Erano dicerie diffuse, credute e infamanti: il console
ne era crucciato e, convocata un'assemblea del popolo, salì sulla
tribuna dopo aver abbassato i fasci. Questa vista fu molto gradita ai
cittadini perché abbassare le insegne del comando davanti a loro
equivaleva a proclamare che la sovranità e l'autorità del popolo
erano maggiori di quelle del console. Il console riuscì ad essere
ascoltato: prese a lodare la sorte del collega che era morto dopo
aver liberato la patria, mentre deteneva la più alta carica dello
stato e per lo stato combattendo, all'apice di una gloria che ancora
non si era trasformata in invidia. Lui invece, superstite alla sua
stessa gloria, era sopravvissuto per diventare oggetto di accuse e di
invidia, per decadere dal ruolo di liberatore della patria al livello
degli Aquili e dei Vitelli. Disse: «
Ci sarà, dunque, mai una virtù tanto evidente da non poter esser
offuscata dal sospetto? Proprio me, il più determinato fra i nemici
della casa reale, doveva capitare l'accusa di aspirare al regno?
Anche se abitassi proprio sulla rocca capitolina, potrei credere di
essere causa di apprensione per i miei concittadini? Così fragile è
il mio credito presso di voi? Ed è tanto fragile la mia credibilità,
da rendere il luogo in cui abito più significativo della mia stessa
persona? La casa di Publio Valerio non sarà un ostacolo per la
vostra libertà, Quiriti. Non sarà minacciata dalla Velia la vostra
sicurezza. Non solo non costruirò più in basso la mia casa, ma la
collocherò proprio alle falde del colle, in maniera che voi abbiate
me, cittadino sospetto, sotto di voi. Sulla Velia si costruiscano la
casa coloro ai quali la libertà può essere affidata con meno rischi
che a Publio Valerio. »⁴
Questa
storia non è soltanto esemplificativa del valore e della potenza dei
simboli – e direi anche dei gesti – di un capo di fronte alla
propria comunità, ma anche di una concezione comunitaria fortemente
in antitesi rispetto alla nostra. Commenta infatti Carandini
l'episodio:
«
Questa
vicenda indica che la
libertà degli antichi riguardava la partecipazione dei cittadini al
governo della città e non il modo di godersi la vita privata, che è
invece caratteristica della libertà moderna.
Nella vita privata neppure il quasi re Valerio poteva vivere a modo
suo, dovendo attenersi ai costumi sacrali e civili della città. »⁵
Quella
appena evidenziata non è una differenza da poco, ma qualcosa di
sostanziale. Si potrebbe dire che abbiamo di fronte l'esempio di una
società in cui la libertà si fonda sui Doveri: in
primis la
Pietas
verso gli Déi e gli antenati, il collante più profondo ed alto
della comunità; poi sul rispetto dello Ius,
della legge umana che governa la cosa pubblica in conformità agli
usi e alle tradizioni del popolo.
E a tal proposito segue Carandini:
«
Bisognerebbe
che le scuole educassero al mestiere di cittadino, quindi alle virtù
civiche, che consistono principalmente nel pensare con la propria
testa. Per la rinascita della vita civile occorrerebbe ricollegarsi
alla tradizione della libertà repubblicana, quindi a principi
antichi, a partire dalla libera Repubblica dei Romani.
Si tratterebbe di immaginare un risorgimento del patriottismo
repubblicano.
I valori da ritrovare sono: integrità
morale, senso del dovere, coraggio, grandezza d'animo, fierezza,
dignità, competenza, merito, autonomia di giudizio, senso della
responsabilità, capacità d'indignarsi.
In
questa prospettiva l'accento
del discorso cade,
insolitamente, più
sulla componente “repubblica” che sulla componente “democrazia”
(la
maggioranza non può violare la libertà). La Repubblica pone
l'accento su un popolo che tiene alla sua sovranità quanto alla
fedeltà alla costituzione e alle leggi. Se l'ethos repubblicano si
fonda infatti sui due doveri, il dovere di essere fedeli alla
Repubblica, alla costituzione e alle sue leggi, e il dovere di
resistere all'esercizio di un potere arbitrario ed enorme, ecco che
la fondazione della libera “cosa pubblica” dei Romani balza
improvvisamente dall'abisso oscuro di un passato estraneo al
proscenio del nostro tempo, come era accaduto alla fine del
settecento e nell'Ottocento. Non è forse nella “cosa pubblica”,
come idea dell'ottimo regime che perdura nei millenni, il presupposto
storico e incancellabile delle conquiste garantiste del nostro tempo?
». 6
Pensiamoci
bene: nell'episodio di Valerio e nei commenti del
Carandini,
non ritroviamo forse le stesse tematiche affrontate dal
corporativismo e dalla socializzazione durante
il secolo scorso?
Non è forse lì, nelle virtù civiche e comunitarie, nell'importanza
dei simboli e
del culto,
nello stretto legame che collega ogni singola parte della società e
la rende cellula attiva di un organismo più grande, che possiamo
individuare la stessa tensione ideale?
Perché, come
sottolinea più volte Gianluca Passera nel suo libro,
non dobbiamo mai dimenticare che corporativismo e socializzazione
sono qualcosa di più che
semplici tentavi volti a scardinare l'impalcatura liberale o
comunista dell'economia e della società. Travalicano oltre, cercando
di formare un tipo d'Uomo
nuovo, nel
contesto caotico, rapido, in continuo divenire della modernità. E
quale miglior strumento se non il Lavoro – inteso latinamente
non
come Labor
(fatica, sforzo, pena, travaglio), ma come Opus
(opera,
costruzione, edificazione)
tanto nella
sua
accezione
manuale e fisica, quanto in
quella intellettuale
e speculativa – per tentare di spiritualizzare la vita attiva
dell'Uomo? Quale miglior terreno
dell'officina,
della
fabbrica, del
campo, della
stalla, degli
uffici, degli
studi,
per
far
riconoscere agli
uomini,
nei
più semplici gesti che portano alla produzione di un macchinario,
all'accrescersi di un frutto, alla creazione di un opera d'arte, il
sentimento di partecipazione a qualcosa di più ampio?
Ed
è qui, nella propria specificità che si connette alle altre e nel
comune sforzo, opera e crea, che alberga la scintilla divina d'ogni
Uomo. Ecco
allora come tanto il corporativismo, quanto la socializzazione, si
dimostrano figli di una concezione dell'Uomo e della Società le cui
origini sono indissolubilmente legate a quelle dell'antica Roma,
ad una spiritualità che si misura giornalmente nella fatica,
nell'azione, nella partecipazione attiva all'agone della vita.
Potremmo
forse azzardarci a sintetizzare dicendo che sono la riproposizione
di una visione Romana,
totalizzante e partecipativa, dell'Uomo nell'ambito comunitario
attraverso il lavoro. Qui
va ricercato il seme di una sincera rinascita, di un nuovo
Risorgimento che
abbia come obbiettivo
– citando
ancora Carandini – quello di
«
durare
nel mutamento, trasformarsi nella tradizione »⁷
proprio
come ogni sana
società
deve inevitabilmente fare.
Sandro Righini
NOTE
1
-
3
– Gianluca Passera, La nobile impresa. La socializzazione:
storia di un'ottima idea maledetta dalle ipocrisie degli eventi e
dell'economia, Il Cerchio, 2015, pag. 292
4
– Tito Livio, Ab Urbe Condita libro I°, Newton, pag. 159
5
– Andrea Carandini, Res Publica. Come Bruto cacciò l'ultimo Re
di Roma, Rizzoli, 2011, pag. 77
6
– Andrea Carandini, op. cit., pag. 147
7
– Andrea Carandini, Sindrome Occidentale. Conversazione fra un
archeologo e uno storico sull'orgine a Roma del diritto, della
politica e dello stato, Il Melangolo, 2007, pag. 83
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