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venerdì 30 dicembre 2016

Il Corporativismo e l'antica Roma - Sandro Righini



Corporativismo e socializzazione. Ecco i temi trattati in quella che è stata la prima conferenza organizzata¹ dal Gruppo di Studio Avser insieme agli amici di Magnitudo Versilia – che hanno messo a disposizione la loro nuova e bellissima sede per l'occasione. Conferenza tenutasi lo scorso sabato 17 dicembre 2016 ed in cui sono stati invitati a parlare due giovani ed eccellenti relatori, Francesco Carlesi e Gianluca Passera. Nell'introdurli ho dichiarato che le radici culturali di quella scuola di pensiero, prettamente italiana, da cui si svilupperanno tanto il corporativismo quanto la socializzazione, possono essere individuate in modo più compiuto nel nostro Risorgimento, ma che esse partono da lontano. Dove situare allora quel “lontano”? Al quesito rispose a suo tempo Carlesi, quando lo intervistammo sul nostro sito, dichiarando in merito: « Con tutti i dovuti ed evidenti distinguo, “tracce” di corporativismo si trovano sin dall’esperienza dell’antica Roma »². D'altronde la parte più viva e attuale del Risorgimento è intrisa fino al midollo di romanità. Il mio obbiettivo è allora quello di far capire il perché queste “tracce” vadano rintracciate proprio . Qui ci vengono in soccorso alcuni degli ultimi lavori di Andrea Carandini. Per chi non ne avesse mai sentito parlare, trattasi di uno dei massimi archeologi italiani, grazie alle cui scoperte si è finalmente riusciti a capire che l'Urbe nasce effettivamente nell'VIIIº secolo a.c., proprio come vuole la leggenda e che molti dei racconti mitologici legati alla sua fondazione contengano importanti e significative tracce di verità. Ulteriore merito di Carandini è stato quello di aver saputo leggere non solo i dati materiali delle sue ricerche, ma di averli comparati con altre discipline – storia delle religioni, antropologia, scienze politiche – al fine di dare una visione complessa e sfaccettata del misterioso universo in cui Roma nasce e si accresce. Esistono ampi dibattiti su molte delle tesi sostenute da Carandini e non sta a me confutarle o meno in questa sede. Ciò che m'importa è trarre da alcune sue dichiarazioni la dimostrazione di come la “rivoluzione mentale”³ di cui parla Gianluca Passera nel suo bellissimo libro La nobile impresa, da compiere rigettando in toto l'approccio prettamente materialista dei modelli sociali, economici e politici imperanti, debba ripartire proprio da una visione spirituale ed organica dell'Uomo che, nell'antica Roma, affonda le sue più profonde radici.
Partirei nel mio intento citando un passo tratto da Tito Livio e riportato anche in Res Publica. Come Bruto cacciò l'ultimo Re di Roma, dove Carandini, con uno stile a metà tra il divulgativo e il romanzato, ci racconta alla sua maniera l'epopea dell'instaurazione repubblicana nell'antica Roma. Il console Lucio Giunio Bruto, padre della Repubblica, è appena morto in battaglia contro gli Etruschi e dopo il suo solenne funerale, sull'altro console Publio Valerio cala un'ombra inquietante:

« Ma il console superstite (davvero instabile l'umore della gente!) passò dal favore all'invidia; non solo, fu anche oggetto di sospetto e di una accusa infamante. Girava voce che egli aspirasse fortemente al regno, perché non aveva surrogato il collega Bruto e per di più si stava costruendo la dimora proprio in cima alla Velia: in quel luogo alto e fortificato sarebbe diventata una sorta di rocca inespugnabile. Erano dicerie diffuse, credute e infamanti: il console ne era crucciato e, convocata un'assemblea del popolo, salì sulla tribuna dopo aver abbassato i fasci. Questa vista fu molto gradita ai cittadini perché abbassare le insegne del comando davanti a loro equivaleva a proclamare che la sovranità e l'autorità del popolo erano maggiori di quelle del console. Il console riuscì ad essere ascoltato: prese a lodare la sorte del collega che era morto dopo aver liberato la patria, mentre deteneva la più alta carica dello stato e per lo stato combattendo, all'apice di una gloria che ancora non si era trasformata in invidia. Lui invece, superstite alla sua stessa gloria, era sopravvissuto per diventare oggetto di accuse e di invidia, per decadere dal ruolo di liberatore della patria al livello degli Aquili e dei Vitelli. Disse: « Ci sarà, dunque, mai una virtù tanto evidente da non poter esser offuscata dal sospetto? Proprio me, il più determinato fra i nemici della casa reale, doveva capitare l'accusa di aspirare al regno? Anche se abitassi proprio sulla rocca capitolina, potrei credere di essere causa di apprensione per i miei concittadini? Così fragile è il mio credito presso di voi? Ed è tanto fragile la mia credibilità, da rendere il luogo in cui abito più significativo della mia stessa persona? La casa di Publio Valerio non sarà un ostacolo per la vostra libertà, Quiriti. Non sarà minacciata dalla Velia la vostra sicurezza. Non solo non costruirò più in basso la mia casa, ma la collocherò proprio alle falde del colle, in maniera che voi abbiate me, cittadino sospetto, sotto di voi. Sulla Velia si costruiscano la casa coloro ai quali la libertà può essere affidata con meno rischi che a Publio Valerio. »

Questa storia non è soltanto esemplificativa del valore e della potenza dei simboli – e direi anche dei gesti – di un capo di fronte alla propria comunità, ma anche di una concezione comunitaria fortemente in antitesi rispetto alla nostra. Commenta infatti Carandini l'episodio:

« Questa vicenda indica che la libertà degli antichi riguardava la partecipazione dei cittadini al governo della città e non il modo di godersi la vita privata, che è invece caratteristica della libertà moderna. Nella vita privata neppure il quasi re Valerio poteva vivere a modo suo, dovendo attenersi ai costumi sacrali e civili della città. »

Quella appena evidenziata non è una differenza da poco, ma qualcosa di sostanziale. Si potrebbe dire che abbiamo di fronte l'esempio di una società in cui la libertà si fonda sui Doveri: in primis la Pietas verso gli Déi e gli antenati, il collante più profondo ed alto della comunità; poi sul rispetto dello Ius, della legge umana che governa la cosa pubblica in conformità agli usi e alle tradizioni del popolo. E a tal proposito segue Carandini:

« Bisognerebbe che le scuole educassero al mestiere di cittadino, quindi alle virtù civiche, che consistono principalmente nel pensare con la propria testa. Per la rinascita della vita civile occorrerebbe ricollegarsi alla tradizione della libertà repubblicana, quindi a principi antichi, a partire dalla libera Repubblica dei Romani. Si tratterebbe di immaginare un risorgimento del patriottismo repubblicano. I valori da ritrovare sono: integrità morale, senso del dovere, coraggio, grandezza d'animo, fierezza, dignità, competenza, merito, autonomia di giudizio, senso della responsabilità, capacità d'indignarsi.
In questa prospettiva l'accento del discorso cade, insolitamente, più sulla componente “repubblica” che sulla componente “democrazia” (la maggioranza non può violare la libertà). La Repubblica pone l'accento su un popolo che tiene alla sua sovranità quanto alla fedeltà alla costituzione e alle leggi. Se l'ethos repubblicano si fonda infatti sui due doveri, il dovere di essere fedeli alla Repubblica, alla costituzione e alle sue leggi, e il dovere di resistere all'esercizio di un potere arbitrario ed enorme, ecco che la fondazione della libera “cosa pubblica” dei Romani balza improvvisamente dall'abisso oscuro di un passato estraneo al proscenio del nostro tempo, come era accaduto alla fine del settecento e nell'Ottocento. Non è forse nella “cosa pubblica”, come idea dell'ottimo regime che perdura nei millenni, il presupposto storico e incancellabile delle conquiste garantiste del nostro tempo? ». 6

Pensiamoci bene: nell'episodio di Valerio e nei commenti del Carandini, non ritroviamo forse le stesse tematiche affrontate dal corporativismo e dalla socializzazione durante il secolo scorso? Non è forse lì, nelle virtù civiche e comunitarie, nell'importanza dei simboli e del culto, nello stretto legame che collega ogni singola parte della società e la rende cellula attiva di un organismo più grande, che possiamo individuare la stessa tensione ideale? Perché, come sottolinea più volte Gianluca Passera nel suo libro, non dobbiamo mai dimenticare che corporativismo e socializzazione sono qualcosa di più che semplici tentavi volti a scardinare l'impalcatura liberale o comunista dell'economia e della società. Travalicano oltre, cercando di formare un tipo d'Uomo nuovo, nel contesto caotico, rapido, in continuo divenire della modernità. E quale miglior strumento se non il Lavoro – inteso latinamente non come Labor (fatica, sforzo, pena, travaglio), ma come Opus (opera, costruzione, edificazione) tanto nella sua accezione manuale e fisica, quanto in quella intellettuale e speculativa – per tentare di spiritualizzare la vita attiva dell'Uomo? Quale miglior terreno dell'officina, della fabbrica, del campo, della stalla, degli uffici, degli studi, per far riconoscere agli uomini, nei più semplici gesti che portano alla produzione di un macchinario, all'accrescersi di un frutto, alla creazione di un opera d'arte, il sentimento di partecipazione a qualcosa di più ampio? Ed è qui, nella propria specificità che si connette alle altre e nel comune sforzo, opera e crea, che alberga la scintilla divina d'ogni Uomo. Ecco allora come tanto il corporativismo, quanto la socializzazione, si dimostrano figli di una concezione dell'Uomo e della Società le cui origini sono indissolubilmente legate a quelle dell'antica Roma, ad una spiritualità che si misura giornalmente nella fatica, nell'azione, nella partecipazione attiva all'agone della vita. Potremmo forse azzardarci a sintetizzare dicendo che sono la riproposizione di una visione Romana, totalizzante e partecipativa, dell'Uomo nell'ambito comunitario attraverso il lavoro. Qui va ricercato il seme di una sincera rinascita, di un nuovo Risorgimento che abbia come obbiettivocitando ancora Carandini – quello di « durare nel mutamento, trasformarsi nella tradizione » proprio come ogni sana società deve inevitabilmente fare.

Sandro Righini

NOTE


1 - 

3 – Gianluca Passera, La nobile impresa. La socializzazione: storia di un'ottima idea maledetta dalle ipocrisie degli eventi e dell'economia, Il Cerchio, 2015, pag. 292
4 – Tito Livio, Ab Urbe Condita libro I°, Newton, pag. 159
5 – Andrea Carandini, Res Publica. Come Bruto cacciò l'ultimo Re di Roma, Rizzoli, 2011, pag. 77
6 – Andrea Carandini, op. cit., pag. 147
7 – Andrea Carandini, Sindrome Occidentale. Conversazione fra un archeologo e uno storico sull'orgine a Roma del diritto, della politica e dello stato, Il Melangolo, 2007, pag. 83

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