L'aula del primo parlamento del Regno d'Italia a Palazzo Carignano a Torino.
Che
l’unità, la compattezza, la solidità e la forza di uno Stato
influiscano sulla nazione, sulla sua autostima, sulla sua maggiore o
minore capacità di farsi largo nel mondo, di reagire ai soprusi,
alle invadenze e alle soperchierie altrui, e siano determinanti per
favorire lo sviluppo non solo economico ma anche morale, civile e
culturale della nazione, penso non ci sarebbe bisogno di dimostrarlo
se, oggi, non fossero tornate in auge spinte centrifughe
secessioniste, indipendentiste, comunque disgregatrici, manovrate
dall’esterno e puntualmente eseguite all'interno, le quali, per
quanto possano attirare gli scontenti, gli arrabbiati e i delusi,
rappresentano una pericolosa strada senza uscita per l’Italia, che
la porterebbe a divenire un frammento disperso della Storia. E’
piuttosto la strada esattamente contraria che bisogna battere,
giacchè è precisamente la debolezza dello Stato e la sua latitanza
ai doveri fondamentali a creare tutti i problemi che ci angustiano.
Per
secoli l’Italia, principalmente per colpa del Papato che si era
inventato la “donazione di Costantino” come base territoriale del
suo dispotico potere, fu una nazione senza uno Stato unico, divisa e
dunque debole, esposta alle continue mire e invasioni straniere, che,
per quante sanguinose rivolte, guerre e insurrezioni si opponessero,
non furono scongiurate fino a quando non si concepì l’assoluta
urgenza di uno Stato unico, di un Esercito unico, di identiche leggi
e di un Governo centrale, come ben fu messo in luce da Mazzini, e,
prima di lui, dall'intellettuale piacentino Melchiorre Gioia (poi
arrestato dagli austriaci assieme a Pellico e Maroncelli), il quale
già nel 1796 scriveva: “tutto ci invita a unirci con la massima
possibile strettezza nel seno di una repubblica indivisibile.”
Proprio in quel periodo, favoriti dalla rivoluzione francese che
tentava di espandersi in Europa e che nel 1796, con la prima discesa
di Napoleone in Italia (allora era un semplice generale del
Direttorio), portò alla nascita di piccole repubbliche giacobine -la
più importante delle quali fu la repubblica partenopea-, poterono
balzare fuori allo scoperto tutte le idee ferocemente represse
sull'unità e indipendenza della penisola a lungo covate, che
l'importante occasione storica della rivoluzione francese permetteva
per la prima volta di esternare liberamente in pubblico. Nacque così
ufficialmente la grande corrente unitaria italiana, che in Milano e
Napoli ebbe i sui centri maggiori, rappresentata dai più svariati
esponenti nel campo letterario, scientifico e intellettuale, dal
Foscolo al Manzoni, dall'Alfieri al Monti, preceduta dall'unione
degli scienziati italiani già costituitisi in associazione ancor
prima della rivoluzione francese, per iniziativa dell'ingegnere della
Serenissima Antonio Maria Lorgna. Tra i tanti scampati alla spietata
repressione attuata nel Regno di Napoli, vi fu l'illustre studioso
Matteo Angelo Galdi, fondatore del “Giornale dei patrioti d'Italia”
che uscì con ben 143 numeri nel 1797 a Milano, e autore del libro
“Sulla necessità di stabilire una repubblica in Italia”.
Ma
fu soprattutto Francesco Lomonaco, l'intellettuale lucano nato a
Montalbano Jonico in provincia di Matera nel 1772, anche lui sfuggito
per miracolo alla cruenta repressione appoggiata dagli Inglesi di
Ferdinando I e di Maria Carolina, uno dei maggiori precursori del
Risorgimento Italiano, oltrechè genio precocissimo in svariate
discipline: il più famoso dei tre Francesco Lomonaco lucani, nativi
tutti e tre di Montalbano e appartenenti allo stesso casato, che,
con uno scarto di pochi anni, presero parte in vesti diverse al
Risorgimento nazionale. Uno dei tre morì in prigione a Potenza nel
1823 come carbonaro. Un altro fu sindaco di Montalbano Jonico con il
Regno d'Italia.
Il
Francesco Lo Monaco intellettuale, filosofo e politico, morto suicida
nel 1810 perchè perseguitato dalle autorità francesi napoleoniche a
causa delle sue idee d'indipendenza dell'Italia da ogni straniero, è
considerato con ragione uno dei più illustri antesignani del nostro
Risorgimento, in quanto affermò che la nazione senza uno Stato
indipendente, anche se coesa su basi geografiche, etniche, storiche,
linguistiche e spirituali, corre gravi rischi di sopravvivenza ed è
perennemente in pericolo. Peggio: è destinata a inevitabili
divisioni localistiche, apportatrici di rivalità, diffidenze e
chiusure reciproche com'era appunto l'Italia del suo tempo, da lui
deprecata. E proprio a una nuova Italia rinnovata nell'unità, il
grande pensatore lucano rivolse costantemente i suoi pensieri, i suoi
auspici, le sue più ardenti speranze.
Nella
giungla della Storia, perciò, lo Stato è lo scudo necessario, è la
casa condivisa presso cui trovare tutela, sicurezza, leggi comuni e
omogeneità d’intenti. La prova eclatante di ciò l’abbiamo sotto
gli occhi oggi, dove, con l’esautorazione dello Stato che è
garante supremo della sovranità, dell’unità e dell’indipendenza
della nazione, e l’abbattersi delle sue alte prerogative, l’Italia
è diventata una barca allo sbando il cui timone viene mantenuto solo
per garantire certi introiti finanziari, ridotta a una pedina in mani
altrui, la cui mente dirigente non è più a Roma. Il che ha pesanti
ripercussioni in tutti i campi, non solo in quello politico ed
economico, ma in quello morale, culturale, psicologico, scientifico e
militare.
Se
i nostri antenati che hanno fatto il Risorgimento vedessero come,
grazie alle forze anti-Risorgimentali rientrate in pista trionfanti
dopo la sconfitta bellica del ‘45, l’Italia sia finita sull’orlo
di una situazione pre-unitaria, costretta a ubbidire a un padrone
straniero e chinare il capo al primo rimbrotto d’oltreconfine,
fremerebbero di rabbia e di livore e farebbero un secondo
Risorgimento. Né la globalizzazione può giustificare tutto questo,
dal momento che le nazioni che si mantengono protette da un vero
Stato, cercano di sfruttare il mercato globale solo per i vantaggi
che può comportare, e sono in grado di far sentire normalmente la
propria voce nei casi di vertenze reciproche, in cui invece lo Stato
italiano, come insegna la vicenda dei due marò non ancora conclusa
dopo quattro anni, ha dimostrato di non avere nessuna voce in
capitolo.
Proprio
l'attuale opera di sistematico infangamento del Risorgimento, portata
pervicacemente avanti da gruppi i più disparati ed eterogenei, ma
tutti compatti nella denigrazione di quel grandioso avvenimento, non
è chi non veda si associ pienamente a questa congiura contro
l'Italia unita che è anche congiura contro lo Stato, inteso come
forza superiore, come scudo incoercibile della nazione. Non a caso,
molte delle pretestuose polemiche e recriminazioni lanciate avverso
il Regno d'Italia nato dal Risorgimento si appuntano sulla
centralizzazione piemontese e il mancato decentramento amministrativo
che avrebbero condannato le regioni, in particolare quelle
meridionali, a un'unione forzata, nell'assorbimento di leggi estranee
ed inique, e nella rinuncia a benevole e benefiche consuetudini, usi
e normative precedenti che il Regno d'Italia avrebbe brutalmente
abolito. Considerato che la coscrizione obbligatoria (da cui per ovvi
motivi erano esclusi i siciliani in quanto l'avrebbero usata per
immediatamente ribellarsi ai Borboni) e la tassa sul macinato
preesistevano all'arrivo degli “invasori piemontesi”, i
protestanti anti-risorgimentali non hanno ancora redatto un elenco
serio e convincente né delle famigerate leggi “piemontesi” fatte
ingoiare a forza ai meridionali (e a tutti gli altri Italiani), né
delle tanto declamate leggi, usi e consuetudini pre-unitarie che
Torino avrebbe cassato con un colpo di spugna onde soggiogare tutta
l'Italia sotto il suo protervo tallone, consuetudini fra le quali vi
era quella, assai comune nel mezzogiorno, della monacazione forzata,
del baciamani, e della fustigazione del contadino disobbediente, poi
scomparse -guarda caso- con il Regno d'Italia e ancor prima con
Garibaldi.
Il
deputato Giuseppe Ferrari, che nel Parlamento del nuovo Regno sedeva
tra i banchi della Sinistra, dunque in un'ala piuttosto critica verso
il Governo, narrò in aula con raccapriccio di aver veduto per strada
a Napoli (ovviamente prima della riunificazione) un vetturino
frustato con veemenza in volto da un nobile, e che, pur col viso
tutto insanguinato, non osava assolutamente reagire. Riguardo al
Codice Penale piemontese, per esempio, esso non fu esteso alla
Toscana che si tenne il proprio, né fu esteso “tout-court”
neanche all'ex Regno delle Due Sicilie, anzi venne integrato da
alcune disposizioni di questo laddove esse erano più innovative
giacchè di derivazione napoleonica-murattiana, senza contare che il
Codice Penale piemontese del 1859 aveva già abolito i reati contro
la religione, ancora operanti invece nella legislazione meridionale.
Entrambe, poi, contemplavano ancora il suicidio come reato:
un'aberrazione inconcepibile, finalmente abolita dal Regno d'Italia
con il nuovo Codice Penale Zanardelli, promulgato nel 1889, ma già,
di fatto, caduta in disuso nel Regno di Sardegna.
Fu
dunque davvero il Regno d'Italia la “piovra piemontese” che di
tutto si appropriò e tutto “piemontesizzò”, oppure esso fu la
provvida risultante dei contributi di tutti gli Italiani che fin
dall'inizio, addirittura prima ancora che il Regno d'Italia fosse
proclamato, già sedevano sui banchi del Parlamento di Torino? Non
era forse Torino la città che li aveva generosamente accolti,
quando, braccati, condannati, inseguiti, là avevano trovato un
tetto, un lavoro e i salotti e le case che si aprivano?
Eppure
oggi si parla di questa “piemontesizzazione” come fosse
un'infamia, senza pensare che fu grazie ad essa che il neonato Regno
approvò da subito spese ingentissime soprattutto per il mezzogiorno,
senza avere nemmeno la copertura finanziaria. Tra un accesso di
febbre e l'altra, negli ultimi giorni della sua vita, il conte di
Cavour si preoccupava delle cose urgenti da fare, in particolare del
prestito di 500 milioni che aveva richiesto, e di altre mille
incombenze alle quali, nella dura lotta contro il male che l'avrebbe
portato da lì a poco alla tomba, insisteva a interessarsi, gridando
a chi lo implorava di desistere: “Ho l'Italia sulle braccia!”.
I
detrattori odierni, che non presentano nulla di nuovo rispetto ai
detrattori che li hanno preceduti ma ripetono ossessivamente le loro
invettive, non hanno mai spiegato, fra gli innumerevoli indici
economici dell'indubbia crescita e progresso del Regno d'Italia che
si possono citare, come mai aumentarono i consumi, diminuì la
mortalità, decrebbe l'analfabetismo, aumentò la statura fisica
degli italiani, ci fu un'impennata demografica del 30%, crollò la
mortalità da vaiolo dopo l'introduzione della vaccinazione
obbligatoria nel 1888, vaccinazione che negli Stati pre-unitari era
fluttuata tra mille incerti (il Papa l'aveva esplicitamente
condannata come cosa del demonio assieme all'illuminazione a gas e al
telegrafo) e che solo lo Stato unitario impose a tutta la penisola
con la sua autorità. Dati che possono sembrare marginali e invece
sono significativi, comprovano un eccezionale sviluppo in pochi anni:
l'ammontare dei vaglia telegrafici, per esempio, quale mezzo rapido e
sicuro di trasferimento dei valori, aumentò vertiginosamente: da 44
milioni nel 1861, a 68 milioni nel '62, a 139 milioni nel '63, a 160
milioni nel '64. Anche la rete telegrafica, strumento indispensabile
della nuova epoca, fu estesa in pochi anni a tutto il territorio
nazionale. Così gli uffici dell'Anagrafe, base certa dello stato
civile e simbolo dell'era moderna, in breve volgere di anni furono
posti in tutti i Comuni. Quattro compagnie marittime nazionali
sussidiate dallo Stato, di cui una meridionale, già nel 1866
coprivano ben 24 linee marittime di collegamento fra i vari porti
continentali e insulari, arrivando fino in Grecia e in Egitto. E si
potrebbe andare avanti di questo passo per molto ancora.
Analogamente
le leggi per la tutela del lavoro minorile, una piaga sociale
endemica diffusa ovunque (lo è tuttora), ma particolarmente
virulenta nell'ex “paradiso” borbonico ove gli inglesi godevano
di enclavi privilegiate, e dove donne e bambini di ogni età venivano
sfruttati senza scrupoli dall'alba al tramonto in opifici malsani e
insicuri (proprio quelli che l'anti-Risorgimento decanta) e nelle
famose zolfare siciliane (nelle quali venivano impiegati anche
bambini di 4 anni), trovarono una graduale applicazione e portarono a
una lenta progressiva remissione di quella disastrosa piaga con le
numerose leggi varate dal Regno d'Italia a partire dal 1869, leggi
che furono osteggiate in particolare proprio al Sud ov'era assai
difficile per le autorità statali convincere i genitori a mandare i
figli negli asili e a scuola, e che ciò nonostante indussero pian
piano un irreversibile cambiamento (poi ulteriormente progredito col
Fascismo), corredate da altre leggi quali l'istruzione elementare
obbligatoria e gratuita, l'assicurazione contro gli infortuni sul
lavoro, l'abolizione del maggiorasco (cioè della trasmissione al
primogenito dell'intero patrimonio, che cominciò a colpire il
latifondo), l'abolizione dei lavori forzati nel 1889 (si tenga
presente che negli Stati uniti i lavori forzati erano in piena
applicazione ancora negli anni trenta del XX° secolo), l'abolizione
della pena di morte nel 1889 (ma di fatto non era stata più
applicata fin dal 1877), la nascita nel 1885 della S.A.I., società
degli agricoltori italiani, ai quali si attribuiva per la prima volta
un ruolo soggettivo nel piano generale nazionale di modernizzazione
dell'agricoltura, molto arretrata in tutti gli stati pre-unitari,
dove era normale per un contadino andare scalzo: leggi alle quali, in
un paese pieno di così gravi problematiche, sarebbe maggiormente
giovata una dittatura illuminata come quella auspicata da Garibaldi o
una democrazia popolare come quella auspicata da Mazzini per
risolvere i problemi in modo più efficace, rapido e radicale, ma che
pure ottenne indubbi e sorprendenti progressi, altrimenti inattuabili
in un contesto europeo che esigeva l'omologazione dell'Italia ai suoi
parametri.
La
legge per il risanamento della città di Napoli, immersa in
disastrose condizioni igienico-sanitarie -la cosiddetta legge
“Napoli”del 1885- che prevedeva ampi lavori di bonifica,
ristrutturazione e abbellimento per un costo che partiva da un fondo
di 100 milioni di lire e per la prima volta fece ricorso
all'esproprio per pubblica utilità, non si rese più procrastinabile
di fronte all'ennesima epidemia di colera che tornò a colpire la
città nel 1884, in un contesto sovraffollato, cresciuto
disordinatamente, dove i malanni si erano sedimentati l'uno
sull'altro nei secoli, dove al tempo della riunificazione
stazionavano dai 25.000 ai 40.000 mendicanti -detti “lazzari”-
senza dimora, abituati ad arrangiarsi a vivere d'espedienti, e dove
la camorra, nata durante il malgoverno del vicereame spagnolo durato
oltre due secoli, si era comodamente insediata, più o meno tollerata
dai Borboni e dalla popolazione che non ci faceva quasi caso, come
fosse una manifestazione folckloristica della città. Il Regno
d'Italia, pur con molta fatica, riuscì a far entrare pian piano il
principio di legalità, il rispetto delle leggi e dell'autorità e i
primi concetti di educazione civica e di civile convivenza, come
dimostra il maxiprocesso di Viterbo (il cosiddetto processo Cuocolo)
contro la camorra, che fece epoca e rappresentò uno vero e proprio
spartiacque, con l'adozione di un'energica squadra di Carabinieri
creata apposta, e si concluse nel 1912 praticamente con la
decimazione di quella consorteria criminale che viveva di estorsioni,
la quale, dopo aver subito un altro definitivo colpo durante il
Ventennio, ritornò in auge dopo la seconda guerra mondiale, in
particolare dal 1970 in poi, e adesso, con la definitiva abdicazione
dello Stato divenuto europeista e immigrazionista, sembra sia entrata
addirittura nel PIL.
Ma
un ulteriore grave ostacolo veniva a intralciare, fra i tanti, il
novello Regno d'Italia: l'isolamento internazionale. Una volta
placati gli entusiasmi popolari dell'opinione pubblica straniera che
aveva spontaneamente sostenuto il Risorgimento italiano con generose
collette e donazioni in danaro e in natura, l'Italia si trovava
circondata dalla gelosia della Francia, dalla guardinga vigilanza
dell'Inghilterra appollaiata sull'arcipelago di Malta che era sempre
appartenuto all'Italia e dove i disordini e le proteste dei maltesi
che si sentivano italiani venivano soffocati con la forza e la lingua
inglese imposta per legge, dall'ansia di vendetta dell'Austria, dal
sussiego della Russia, dall'ambiguità tedesca, nonchè dal più duro
ostracismo del Papa e della Chiesa che faceva di tutto per ostacolare
le riforme della pubblica istruzione e qualsiasi altro passo in
direzione della laicizzazione e modernizzazione dello società,
intromettendosi continuamente nelle opere e intenzioni del
legislatore e del Governo, usando del ricatto della religione, e
premendo perfino sulla figlia di Vittorio Emanuele II, la principessa
Maria Clotilde, notoriamente religiosissima. Non si contano le infami
lettere anonime che S.M. Il Re ricevette nel corso del Risorgimento e
dopo, in cui gli si minacciava l'inferno e la dannazione eterna (a
lui e a tutti i ministri), il crollo della dinastia, l'ira divina, e
ogni sorta di disgrazia. Poco dopo la morte di Cavour, il giorno 28
giugno 1861, il giornale “Civiltà cattolica” usciva con questo
infelice commento: “Se vi è morte che porti seco chiarissimamente
l'impronta di un verdetto celeste, questa è la morte del Conte di
Cavour.”. Ma, paradossalmente, proprio a smentire tale asserzione,
il celebre e rigoroso fondatore della rivista gesuita “Civiltà
cattolica”, il napoletano Carlo Maria Curci, sempre pervicacemente
schierato con la sua rivista contro il Risorgimento per la difesa del
Trono e dell'Altare, nel giro di pochi anni si convertì radicalmente
alle idee nuove, all'Unità d'Italia che tanto aveva osteggiato e
all'abolizione del potere temporale dei papi che tanto aveva difeso,
abbandonando la rivista, uscendo dall'Ordine e scrivendo in sostegno
delle nuove idee libri come “Il Vaticano regio, tarlo superstite
della Chiesa cattolica”, propugnando una conciliazione tra
modernismo e fede per un rinnovamento del cristianesimo e della
società. Perciò fu sospeso a divinis, vessato, emarginato,
costretto in parte a ritrattare prima di morire, il che era ciò che
solitamente accadeva ai religiosi onesti che vivevano il travaglio
dell'amor di Patria.
L'abolizione
del “foro ecclesiastico” (attuata dal Regno di Sardegna già
prima dell'unificazione), che intendeva sancire il ruolo preminente
dello Stato nel campo dell'amministrazione della giustizia da
ritenersi uguale per tutti i cittadini, rappresentò uno dei più
agguerriti motivi di scontro con la Chiesa, la quale pretendeva per i
religiosi il mantenimento di una giurisdizione speciale separata (il
“foro ecclesiastico”, appunto) non in materia di disciplina
interna o religiosa, bensì in materia civile e penale, il che per lo
Stato risorgimentale era inammissibile, essendo coloro che vestivano
l'abito religioso da considerarsi cittadini come gli altri. Ebbene
questi principi moderni, che dai detrattori del Risorgimento fin
d'allora vennero superficialmente ascritti a un'immaginaria
Massoneria internazionale atea e malefica che agiva dietro le quinte
per abbattere il cristianesimo, costituivano invece la spontanea,
improcrastinabile manifestazione di un popolo oppresso che si
scrollava di dosso secoli e secoli di soffocante invadenza religiosa,
imposizioni, ubbìe, analfabetismo e miseria. Era precisamente lo
Stato che per la prima volta dopo tanti secoli faceva sentire la sua
presenza a spaventare la Chiesa, perchè le sottraeva gli spazi
vitali sui quali da sempre aveva padroneggiato. E questo Stato, a
parte un'esigua fronda di federalisti che non ebbe mai peso, fu
concepito dal Risorgimento, pur con diverse sfumature,
all'incontrario di come lo si concepisce oggi, dove, a fronte di un
potere centrale debole, lassista e lontano dai problemi reali del
paese, pullula una pletora di enti locali costosi, rissosi e spesso
finanziariamente in rosso, focolai di clientele e favoritismi,
microcosmi di partiti e corruttele, che spesso non riescono a
risolvere i problemi più elementari dei propri luoghi di
riferimento. La mancata ricostruzione della città dell'Aquila, che
ancora langue nel suo abbandono a sette anni dal terremoto che fece
poco più di 300 vittime (un piccolo terremoto a confronto di quelli
che ci presentano le cronache storiche italiane), quando la città di
Ragusa in Dalmazia fu ricostruita in breve tempo nel XVI° secolo, ne
è la dimostrazione più lampante. Il terremoto di Messina e Reggio
Calabria che il Regno d'Italia si trovò a fronteggiare nel 1908 con
ben diversi mezzi degli attuali, fu un cataclisma di proporzioni
bibliche che fece 120.000 vittime. Non è dunque contro il
Risorgimento e il Regno d'Italia che vanno dirette le lamentele di
chi non ha trovato di meglio da fare che intentare processi a
Garibaldi, a Cavour e a Nino Bixio, quanto contro i propri
amministratori locali e contro uno Stato che con il Risorgimento ha
poco a che vedere, in quanto è nato da una grave sconfitta militare
che ha condizionato il futuro dell'Italia, da una resa incondizionata
peggiore della sconfitta, da una frattura fra italiani non ancora
sanata nel corpo della nazione, nonché da una presa del potere
repentina da parte delle due forze da
sempre nemiche del Risorgimento, le quali hanno innescato nel corpo
della nazione un persistente anti-patriottismo di cui stiamo pagando
tuttora le nefaste conseguenze.
Ebbene
Cavour, che molte cose avrebbe da insegnare ai nostri governanti (si
alzava alle quattro di mattina per lavorare), concepiva lo Stato come
un corpo con un'unica testa decisionale, che si faceva carico di
tutti i problemi della nazione, dal centro alla periferia, e che
della nazione aveva una visione non già localistica e municipale,
frammentaria e frammentata, ma una visione d'insieme, veramente
nazionale, che fu precisamente quella che fece uscire l'Italia dal
suo provincialismo e dalla sua emarginazione, garantendole un posto
di rispetto nel consesso delle altre nazioni, un ruolo internazionale
e l'ascesa economica e militare.
Ma
in un Paese rimasto forzatamente diviso per tanti secoli, separato da
recinti, dove per spostarsi da uno Stato all'altro o anche
all'interno di uno stesso Stato bisognava recarsi dalla Polizia a
spiegare dove, come, quando e perchè ci si spostava, questa
concezione moderna non poteva non incontrare diffidenze e resistenze,
in particolare al Sud, perchè principalmente proprio lì l'idea
dello Stato era del tutto assente e sconosciuta in vaste plaghe del
territorio soprattutto rurale, e perchè soprattutto lì l'ignoranza
diffusa nelle popolazioni, specie all'interno, rendeva
incomprensibile e anzi sospetta questa idea, considerata invadente e
opprimente in quanto tale. Al contrario, il monarca assoluto
verniciato da un po' d'illuminismo, con il suo paternalismo e le sue
graziose concessioni, era l'idea semplice del potere che la gente
ignorante del tempo meglio concepiva: un sovrano incoronato da Dio,
alleato dell'Altare, cioè del Papa vicario di Cristo, intoccabili e
sacri entrambi. Il Risorgimento fece piazza pulita di tutto ciò, e
in tal senso può considerarsi una “rivoluzione”, perchè
introdusse il concetto moderno dello Stato di diritto: un concetto
invero troppo evoluto per poter essere capito e accettato
all'unanimità da masse incolte che istintivamente rifiutavano
qualsiasi cambiamento, giudicato come un'intromissione diabolica.
Spaventati dalla triade di scomunicati di Torino (Cavour, Vittorio
Emanuele e Garibaldi), in particolare da “Garubaldo” (dipinto dai
borbonici come un pericolosissimo bandito) e i suoi “diavoli” in
camicia rossa che venivano a insidiare ataviche superstizioni e
malintesi equilibri, i cosiddetti “cafoni”, fortunatamente in
numero ampiamente minoritario rispetto al resto della popolazione
meridionale, concentrati soprattutto in Molise e all'interno
dell'Abruzzo -zone vantate come fedeli ai Borbone-, ebbero fugaci
momenti di appariscenza nella controreazione legittimista che si
scatenò in alcune zone del Sud disordinatamente, a sprazzi e senza
alcuna strategia né coordinazione, nonostante il daffare dei
comitati borbonici clandestini, i quali confidavano di rimettere
Francesco II sul trono, più che grazie al popolo che gli aveva
voltato le spalle, grazie a un intervento armato dell'Europa, che mai
si verificò. Al ritiro degli ambasciatori dalla Corte di Torino e ad
altre proteste internazionali più o meno vivaci (la Spagna ruppe
addirittura le relazioni diplomatiche col Piemonte), non fece infatti
seguito nessuna pratica risoluzione delle potenze europee né per
fermare Garibaldi né per fermare Vittorio Emanuele quando varcò i
confini dello Stato Pontificio. Chiaramente si temeva che,
contrastando la politica del conte di Cavour, grandemente stimato
all'estero, si aprissero le porte alla rivoluzione di Garibaldi e di
Mazzini che brillavano di unanimi simpatie popolari in Italia e
fuori, e dunque si spianasse la strada al suffragio universale
maschile e femminile da essi voluto, con tutti i ribaltamenti che
avrebbe comportato.
Seguire
gli “scoppi” della ribellione legittimista nel mezzogiorno -che
nessuno nega, ma che va grandemente ridimensionata sia
quantitativamente che qualitativamente- è tutt'altro che facile, dal
momento che essa ebbe un andamento a macchia di leopardo, il più
delle volte temporaneo e dunque facilmente domabile. Il punto
numericamente culminante della partecipazione dei “cafoni” (da
non confondersi coi briganti) a questa ribellione, si ebbe quando, in
numero di circa tremila, combatterono a fianco di un distaccamento
dell'esercito inviato da Francesco II in Molise, al comando del
capitano Achille De Liguoro (che poi combatterà nel 1866 a fianco
degli austriaci contro l'Italia) per tentare di sbarrare il passo,
senza riuscirci, al Re Vittorio Emanuele II che scendeva dalle Marche
per andare a raggiungere Garibaldi a Napoli. Era l'ottobre del 1860.
In quell'occasione, il Re Vittorio Emanuele in persona potè
constatare de visu i danni incalcolabili apportati a uomini e cose:
intere masserie distrutte e bruciate, cadaveri mutilati, narrazioni
di atrocità contro i cosiddetti “liberali” o “galantuomini”,
chiunque fossero, colpevoli di aver esposto il Tricolore, e dunque
uccisi a pietrate, a colpi d'ascia, a coltellate, aggrediti in casa
dopo aver sfondato forsennatamente le porte. In quella trista
occasione, di fronte alla gente che gli si faceva incontro a invocare
vendetta, egli disse: “Se non fossi in Italia, mi comporterei come
un re barbaro.”
Ma,
pur aggredito da più parti anche all'interno di sé stesso, e
nonostante tutte le difficoltà che dovette affrontare, il Regno
d’Italia risolse sempre i problemi con le sue sole forze e per
questo può fregiarsi a buon diritto del titolo di Stato sovrano,
padrone delle proprie alleanze, delle proprie decisioni e delle
proprie leggi. Quando la Francia, nel 1881, dando sfogo al livore per
la nostra riunificazione che mai aveva realmente appoggiato, ci
sottrasse a suon di cannonate il protettorato che ci eravamo
conquistati sulla Tunisia, colonizzata da tanti abili agricoltori
italiani –per lo più siciliani- che l’avevano trasformata in un
giardino creando una fiorente comunità di italo-tunisini, il
Presidente del Consiglio Benedetto Cairoli si dimise finendo
malamente la sua carriera politica poichè tutta la nazione fu
percorsa da un soprassalto di sdegnato orgoglio, pretendendo una
risposta militare immediata. Questa ci fu trent’anni dopo con
l’occupazione della Libia e la guerra italo-turca, quando, sfidando
l'europa, l'Italia entrò di forza nel Mediterraneo.
Oggi,
nella pressochè totale indifferenza dei più, non si contano le
altrui invasioni di campo, le continue intromissioni, le invadenze di
spazi territoriali, aerei e marittimi, gli scandalosi cedimenti che a
enumerarli non basterebbe un volume. In tutto questo, una nazione
moralmente allo sbando che è tornata succube del Papato e di
consorterie localistiche pre-unitarie che spargono la zizzania
anti-risorgimentale, non ha mostrato di saper opporre altro che
confuse ricette politiche, ingenue congetture di micro o macroregioni
che verrebbero spazzate via come sono state spazzate via Cipro dai
Turchi e la Corsica dai francesi. Se il Regno d’Italia prima o poi
reagiva facendosi sentire, questa repubblica, tranne rarissime
eccezioni, nemmeno ci si è mai provata. Anzi: proprio in occasione
del centenario appena scorso della dichiarazione di guerra all’impero
asburgico, si potrebbe fare con la fantasia uno scambio fra i due
Stati, mettendo questo al posto del Regno d’Italia, e considerare
le differenze.
La
pressochè totale assenza di un’autorità superiore che rappresenti
lo Stato, la sua lontananza dai cittadini, il suo esprimere concetti
quasi sempre anti-nazionali, sono l’esempio offerto giornalmente ai
nostri giovani, i quali non c’è da meravigliarsi si rivolgano ad
altro.
Se
Francesco Crispi, uno degli artefici meridionali del Risorgimento
italiano che fu anche tra i Mille di Garibaldi, poteva scrivere
all’indomani della riunificazione: “un’Italia rannicchiata
nelle sue frontiere che abbandoni al naviglio straniero i mari che la
circondano, che non parli nel consesso dei governi civili pel timore
che questi diffidino di lei, che chiuda gli occhi per paura della
luce, non può essere l’Italia alla quale hanno aspirato Mazzini,
Garibaldi e Vittorio Emanuele.”, i governanti della repubblica
antifascista, eredi diretti di coloro che dopo la sconfitta di Adua
si riversarono nelle strade gridando “Viva Menelik!”, reputano
giusto l’esatto contrario, e cioè che l’Italia se ne debba stare
rattrappita in un angolo senza più nulla pretendere dal destino,
schiacciata dall'europa. Ben prima che nascesse l’Europa, questo
atteggiamento di rinuncia e di rimessa antinazionale è stato sempre
la caratteristica dei due principali partiti anti-Risorgimentali, la
DC e il PCI, datando fin dalle loro origini, quando comiciarono a far
capolino tra le maglie del Regno d’Italia cercando di eroderlo
dalle fondamenta. La sconfitta di Adua contro gli etiopi nel 1896, a
tutt’oggi rimarcata come un’onta gigantesca mentre rappresenta
tutt’altro che un caso eccezionale, dal momento che sconfitte
simili sono normalmente annoverate da ogni nazione, viene citata in
lungo elenco assieme alle altre sconfitte (Novara, Lissa, Custoza,
Caporetto, Dogali…) tutte esageratamente evidenziate, dimenticando
di enumerare le vittorie (Goito, Monzambano, San Martino, Bezzecca,
Palestro, il Volturno, il Piave, Vittorio Veneto, e tutta la guerra
italo-turca) che sono più numerose delle sconfitte e alcune delle
quali portarono a conseguenze ben più stabili e durature per
l’Italia.
Immersi
nel pantano antinazionale, siamo dunque agli antipodi di ciò che
proclamò Giosuè Carducci nel suo discorso “Per il Tricolore”,
pronunciato a Reggio Emilia nel 1897 in occasione del centenario
della sua nascita: “l’Italia è risorta nel mondo per sé e per
il mondo: ella, per vivere, deve avere idee e forze sue, deve
esplicare un ufficio suo civile ed umano, un’espansione morale e
politica. Tornate, o giovani, alla conoscenza dei Padri, e riponetevi
in core quello che fu il sentimento, il voto, il proposito di quei
grandi vecchi che hanno fatto la Patria: l’Italia avanti a tutto!
L’Italia sopra tutto!”
Invece
di aver fatto nostri questi incitamenti, buona parte della nazione ha
ceduto alle arti mistificatorie anti-risorgimentali che hanno trovato
terreno fertile in una repubblica che annualmente celebra come
vittoria una delle più disastrose sconfitte dell’Italia e ha
svenduto l'Italia all'europa, approvando nel 2010 all'unanimità, con
un solo astenuto, la polizia sovranazionale -l'”eurogendorf”-,
che gradualmente sostituirà la nostra Polizia di Stato e i nostri
Carabinieri, e non sarà soggetta a nessun governo nazionale né
dovrà render conto a nessun Parlamento o giudice dello Stato.
Nel
frattempo, prima che sia completata l'opera di distruzione
dell'identità nazionale e la vanificazione dello Stato, nel
meridione qualcuno celebra come modelli ed eroi i briganti che tanto
vanno di moda: Ninco Nanco e le sue belle imprese (giocare a palla
con le teste dei bambini uccisi, per esempio), Cipriano Della Gala
(che al processo non ebbe nemmeno il coraggio di confessare i suoi
orrendi crimini e rovesciò tutte le colpe sui suoi uomini), Carmine
Crocco (che in carcere si pentì di quello che aveva fatto), Cosimo
Giordano (il cui lungo elenco di ignobili delitti gli ha appena
fruttato la dedicazione di una strada nel suo paese natale, Cerreto
Sannita in provincia di Benevento), e i vari mercenari stranieri che
incamerarono solo batoste dal Regio esercito, incaricati dal “Supremo
Consiglio di Roma” di restaurare i Borboni, ma che, pensando di
trovare le popolazioni del mezzogiorno pronte a sollevarsi in massa
contro i Savoia, sperimentarono che queste esistevano solo
nell’immaginazione degli emissari di Franceso II che li avevano
spinti all’impresa.
I
disastri dell’oggi non sono certo conseguenza dell’Unità
d’Italia, ma della dabbenaggine, della pochezza, dell’ottusità e
dell’incapacità di chi non è degno di sciogliere i calzari agli
uomini che fecero l’Unità d’Italia, i quali sfidarono imperi
secolari, polizie agguerrite, eserciti mercenari, spionaggi astuti,
la strapotenza della Chiesa e dell’arcigna Europa, e dunque non
possono essere assolutamente giudicati da chi non è in grado nemmeno
di opporsi col pensiero allo sfacelo attuale della nazione.
Maria
Cipriano
|
Nessun commento:
Posta un commento
Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.