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sabato 16 novembre 2013

MORE ROMANO




L’esempio è il primo grande maestro. Le parole quando non sono seguite dall’azione si disperdono facilmente nel magma dell’incoerenza. Nell’educazione dei figli, nei rapporti d’amicizia, così come nella gestione del bene comune è di primaria importanza la coerenza. Per tale motivo gli antichi soppesavano con scrupolo religioso ogni atto ed ogni parola. Perché non si consideravano degli atomi separati dal consesso comunitario, liberi di dar sfogo ai più vani capricci dell’ego, ma percepivano se stessi come funzione organica di un corpo ben più vasto. E affinché un organismo possa adempiere al meglio la sua attività è necessario che ogni organo svolga il suo compito con la massima efficienza, soprattutto nei momenti di grande difficoltà, quando si trova allo stremo delle forze. Come la nostra Italia che è precipitata ai minimi storici, prona ad una classe politica ladra, ipocrita e meschina, che fa del vaniloquio il suo vessillo distintivo. Un organismo oramai malato, in cui i centri di comando si ostinano a perseguire una logica di morte mentre di facciata c'illudono che vada tutto a gonfie vele. Uno scenario tra i più desolanti. Ma poiché il disperarsi non si addice alla nostra indole, sarà bene tessere le fila della memoria fino all’origine della nostra Civiltà, a quell’antica Roma che sempre sarà somma maestra di vita. E ciò non per vana nostalgia di un passato perduto, ma come monito augurale per un prossimo futuro in cui torni a scalpitare nei cuori quella nobile fiamma capace d’istruire l’animo alla virtù. Abbiamo scelto a tal proposito un brano emblematico di Tito Livio, in cui si dimostra cosa significhi la grandezza d'animo e quanto il buon esempio, dato da uomini autorevoli, possa contagiare a macchia d'olio il popolo.
In breve l’antefatto: durante la Seconda Guerra Punica, dopo che alterne vicende avevano portato Annibale fin sotto le mura di Roma, mentre Capua e Siracusa ritornavano in mano Romana, la Repubblica vive l’ennesima tensione interna. L’erario langue surclassato dalle spese militari, mentre avanza il bisogno impellente di arruolare nuovi rematori da destinare alle flotte che presidiano i litorali italici. I consoli, con una decisione impopolare, sentenziano che i privati cittadini, a seconda del loro censo, garantiscano per trenta giorni paga e vitto ai rematori. Scoppiano immediate le proteste dei cittadini. Provati da lunghi anni di guerra, con i propri patrimoni ridotti all’osso, arrivano vicini a far scoppiare una rivolta. Il senato decide allora di consultarsi con i Consoli per trovare una soluzione equa al problema. Dopo tre giorni di dissertazioni, sull’orlo di dar seguito alla prima proposta, il console Levino prende parola ed espone la sua autorevole proposta:

Era una situazione molto difficile: ogni proposta si incagliava e sembrava quasi che una sorta di torpore si fosse impossessato delle menti dei cittadini. Espresse allora la sua opinione il console Levino: come i magistrati erano superiori al senato per la dignità della loro carica, e come il senato era superiore al popolo, così dovevano servire da guida per affrontare ogni situazione, per quanto dura e difficile fosse. Disse: <<Se uno vuole imporre una misura di legge ad un suo inferiore, deve prima imporla a sé e ai suoi: è questo il modo per ottenere facilmente obbedienza da tutti. Ed è meno gravosa una spesa quando si vede che i capi se ne assumono il peso in misura superiore a quanto loro spetti. Pertanto se è nostra volontà che il popolo romano disponga di una flotta ben equipaggiata e che i privati forniscano i rematori senza possibilità di rifiutarsi, dobbiamo imporre a noi stessi per primi l'onere. Domani, noi senatori, andiamo a versare oro, argento, tutto il bronzo coniato nelle casse dell'erario; e dunque ciascuno conservi per sé, per la moglie e per ognuno dei figli un anello, e una bolla per il figlio; quelli che hanno moglie e figlie conservino un'oncia d'oro a testa. Coloro che hanno occupato una magistratura curule conservino, in argento, i finimenti del cavallo e una libbra a testa, tanto di che trarne una saliera e un piatto per il culto divino; gli altri senatori conservino soltanto una libbra d'argento e lasciamo poi a ciascun padre di famiglia cinquemila monete di bronzo. E allora consegnamo ai triumviri tesorieri subito tutto l'oro, tutto l'argento, tutto il bronzo coniato, senza nemmeno aspettare un senatoconsulto affinché la spontaneità dell'offerta e la gara per aiutare la repubblica incitino all'emulazione prima gli animi dei membri dell'ordine equestre, poi quelli del resto della plebe. Questa è l'unica strada che noi consoli abbiamo individuato dopo aver a lungo parlato tra noi: intraprendiamola con l'aiuto degli dèi! Se lo stato è indenne, facilmente tutela la sicurezza dei patrimoni privati, ma se uno tradisce gli interessi comuni, non riuscirà mai a difendere i propri!>>. Questa proposta raccolse il consenso con tale entusiasmo che tuti, di loro iniziativa, andavano a ringraziare i consoli. Il senato fu congedato e tutti presero a versare nell'erario, sedcondo le loro possibilità, oro, argento e bronzo in una tal gara che volevano che, nei registri, i loro nomi figurassero per primi o tra i primi, e i triumviri non stavano dietro alle offerte e i segretari alle registrazioni. Questo attegiamento unanime del senato fu emulato dai memebri dell'ordine equestre e poi, di seguito, dalla plebe: così senza un editto, senza costrizione da parte dei magistrati la repubblica rispose al bisogno di rinforzi per gli equipaggi e di paghe. Apprestata ogni cosa che serviva alla guerra, i consoli partirono per le zone di operazioni di loro competenza.

Tito Livio
Libro XXVI cap. 36

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