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martedì 8 ottobre 2013

ANTOLOGIA POUNDIANA - Da Rapallo a Castel Fontana II°


Riccardo Maria degli Uberti
[...]
Trasferitomi a Genova con la mia famiglia dopo aver terminato i miei studi e disimpegnato il servizio militare, conobbi anch'io Ezra Pound. Lo vidi la prima volta a Rapallo, in un circolo sportivo locale – golf e tennis – e mentre con i miei aspettavamo sulla terrazza con la signora Dorothy Pound, lo vedemmo arrivare di corsa brandendo una racchetta; era accaldato e il suo gran ciuffo di capelli arruffati era a stento trattenuto dall'elastico di una visiera di celluloide bianca. Andammo a colazione nel ristorante che era loro abituale, poi salimmo al loro appartamento dell'attico. Era pieno di sole e affacciato sul mare.
Ero imbevuto di cultura classica. L'Iliade e l'Odissea erano state le mie letture favorite ovviamente nelle versioni di Monti e Pindemonte fin dalla prima adolescenza. Mio Padre spesso me ne leg­geva brani alternando con la lettura di Carducci e del D'Annunzio. Le risonanze omeriche dei primi Cantos mi avevano colpito, ora vedevo in lui un eroe ellenico, il suo stesso fisico gagliardo mi pareva miracolosamente prefigurato nel grande bronzo dell'Artemisio, uno Zeus che scaglia il fulmine o un Posidone che squassa il tridente. Mio Padre e Pound discorrevano, io tacevo e ascoltavo par­lando solo se interpellato.
Ascoltavo tanto più attentamente, in silenzio, se Pound leggeva o reci­tava i suoi versi. Li scandiva con un suo partico­lare ritmo, la voce bassa e sorda. Non sempre distinguevo le parole, non sempre afferravo il senso del discorso, ma tutto mi giungeva come una musica che mi faceva finalmente capire la scan­sione della poesia classica, le lunghe e le brevi sulle quali tanto avevano insistito i miei indimen­ticabili maestri di cultura classica, De Berardinis e Luciano Villani. Ecco, avevo di fronte a me un antico aedo, forse il cieco Omero aveva cantato così i versi dell’Iliade.
Del resto, anche alla lettura i Cantos mi riuscivano talvolta oscuri; ma Pound aveva detto a mia Madre, «Non è necessario capire subito; leggete, rileggete ancora e capirete».
Ogni qualvolta veniva a trovarci a Ge­nova nella bella casa di corso Dogali, egli sedeva vicino al grande samovar russo, fra mia Madre e mia zia sempre silenziosa, bevendo una tazza di the dopo l'altra.

Dopo quei primi incontri, vidi sovente Pound, a Rapallo o a casa nostra a Genova, specie dopo il nostro trasferimento nella Genova alta, tutta terrazze affacciate sul Porto.
Se confrontavo la familiarità con Pound, la sua conversazione e gli insegnamenti che ne derivavano, con le esibizioni dialettiche delle conversazioni che ascoltavo, di rado prendendovi parte – nel salotto letterario in cui pontificava Alberto Lumbroso, un poligrafo che viveva letteralmente sull'immensa biblioteca ereditata da suo padre, docente di ben altra statura – mi rendevo conto che si trattava di due sfere completamente diverse.
Vi si potevano incon­trare, senza dubbio, personaggi interessanti e di alta cultura; ma gli orizzonti ne erano limitati, de­cisamente provinciali. Certo non vi sarebbe stato posto per un uomo come Pound, che vi sarebbe apparso come il classico toro nel magazzino di porcellane. Trovavo apertura assai maggiore nel mio ambiente di lavoro, che anche Pound ap­prezzava al suo giusto valore; mentre la sua opi­nione sulla intellighentia italiana era, come ho già detto, molto modesta. In una lettera del 5 no­vembre anno X ripeteva: «Nel presente fecondo vivono il Duce e i suoi technichi (sic), i letterati e i lettera­tini abitano fra 1890 e 1895 [...]. Gli uni­versitari, professori ecc. rimangono nel l860».
Ma poco più tardi conobbe e apprezzò un giovane crociano, Niccolò Cuneo, che mio Padre aveva estratto, per presentarglielo, dal salotto lumbrosiano. Fu questo un primo esempio del suo intuito geniale in fatto di persone: più tardi doveva intuire in due giovanissimi, Giuseppe Maranini e Piero Buscaroli, intellettuali sui quali in avvenire si sarebbe potuto fare affidamento. Pound, che si era entusiasmato per il discorso del Duce agli operai di Milano (6 ottobre 1934-XII) incomincia la sua lettera del 9 con una fanfara trionfale: «Gloria, Gloria! DUCE, DUCE! dopo il discorso di sabato scorso a Milano l'economia della carestia è morta e sepolta!».
Da questo momento l'argomento «economia» compare sempre più spesso nella corrispondenza e negli scritti poundiani che mio Padre traduce. Pound pensa che le sue concezioni economiche, mutuate da Douglas e da Gesell, possano essere realizzate nell'Italia fascista. Non è questo il luogo – e chi scrive non ha necessaria compe­tenza – per giudicare le sue concezioni, che gli specialisti di­sprezzavano. Non si può non osser­vare, tuttavia, che oltre cinquant'anni fa Pound intuiva l'appros­simarsi della crisi economica che ha travolto il mondo, senza che gli economisti accademici riu­scissero a suggerirne la soluzione, mentre lui già da allora cercava di proporre un rimedio. Gli stessi economisti continuano ancora a dissertare, mentre con la sua economia empirica della fiducia e del coraggio, il Presidente Reagan ha ottenuto un successo nel combattere la crisi negli Stati Uniti.

Frattanto, gli eventi incalzavano. In una carto­lina datata 18 novembre 1935-XIII, a un invito di Pound a Rapallo, mio Padre risponde: «In questo momento, non sono più un libero cittadino ma, con molti galloni d'oro sulla testa, provvedo ad aiutare anch'io alla difesa della Patria».
Era stato il suo primo richiamo in servizio at­tivo: ne seguiranno altri, per prestar servizio in mare o in terra, che tuttavia non faranno interrompere la loro corrispon­denza. Fin dal primo episodio che condusse al conflitto italo-etiopico (Ual-Ual) mio Padre aveva detto: «Sono incominciate le guerre puniche».
Pound definì quella etiopica « una piccola guerra molto pulita» (lettera del 7 maggio) e mio Padre il 10, a proposito delle denigrazioni della stampa stra­niera circa la guerra di Spagna, gli scrisse: «Siamo sempre alle colonne dei giornali che si oppongono alle colonne dei legionari».
Dopo la «piccola guerra» di Pound, e i movimenti delle «colonne dei legionari» citate da mio Padre, il mondo arriva alla svolta decisiva con l’irruzione tedesco-sovietica in Polonia. Richiamato per un corso d'istruzione, seguii con i colleghi ufficiali d'artiglieria i notiziari e i bollettini radio delle due parti. Un collega « grande ebreo» triestino, un uomo coltissimo e importante dirigente di as­sicurazione, ascoltando ripeteva fino alla monotonia: «Un bel match, stiamo assistendo a un bel match». Del bel match diventammo poco più tardi partecipanti, e le mie personali vicende in tali occasione non hanno nulla a che vedere con queste memorie poundiane. Mio Padre fu chiamato a Roma, a dirigere l'Ufficio Collegamento Stampa dello Stato Maggiore della Marina, mentre Pound preparava i bagagli per rientrare in America. Congedato temporaneamente dopo le operazioni sul ‘fronte occidentale’, avrei dovuto pensare io a si­stemare nel mio studio di scultura (velleità giovanili), due casse di manoscritti ed alcuni disegni e sculture di Brzeska cui Pound teneva molto, ma a sospendere tutto arrivò una lettera da Roma, amara e concitata: «Caro Dick, non è il mio dovere andare in America perché non si può». Sugli aerei Clipper che riportavano in patria la colonia americana, non c'era posto per il poeta. Forse il suo posto occorreva per il cuoco dell'ambasciatore [...] o forse Roosevelt preferiva lasciare il suo oppo­sitore nelle mani del nemico [...].
Verso la fine del '41 fui destinato anch'io a Roma presso il XVII Corpo d'Armata. Lasciavo un reggimento che sembrava destinato a coltivare gli orticelli di guerra, per un comando di una grande unità che si diceva dovesse sbarcare in Siria. In effetti, mentre il mio Gruppo partì improvvisamente per la Russia, il XVII Corpo rimaneva a Roma e dintorni con compiti di difesa del territorio. Mi addolorava il non essere in Ucraina col mio buon colonnello Centóre, ne provavo un senso di vergogna. Ma l'entusiasmo d’un tempo era finito.
Trovandomi a Roma, al centro delle «segrete cose», vedevo da vicino sobbollire la melma del tradimento. Nel viaggio di trasferimento mi ero fermato a Genova e nel mio vecchio ufficio del­l'Ansaldo due alti dirigenti mi dissero: «Abbiamo i magazzini pieni, ma l'Esercito non ritira».
A Roma abitavamo un bel primo piano in via Chelini. Al mezzanino abitava un prete, tal Mon­signor Montini. Non potevamo immaginare che fosse destinato ad abitare nel più prestigioso pa­lazzo della Cristianità. Mia Madre doveva spesso redarguire i nipotini di lui che giocavano in giar­dino cantando «bandiera rossa»; io incontravo talvolta quel prete scendendo le scale ma, nell'or-goglio dell'uniforme e nella prestanza della mia statura, lo guardavo appena, salutandolo distrattamente con la mano tesa alla visiera.
Nel gennaio del '42 venne a Roma anche Pound, che aveva pregato mia Madre di trovargli un alloggio. «Come lo volete?» aveva chiesto mia Madre. «Che abbia una porta, da poter chiudere», rispose Pound; evidentemente cercava solo la Privacy tanto cara agli anglosassoni. Nel suo volume Colpo di Stato, Yvon de Bé­gnac ha così ricordato Pound e mio Padre, in quell'epoca: «Lo studio dell'Ammiraglio degli Uberti era nei quartieri alti di Roma. I libri [...]salivano fino al soffitto. L'Ammiraglio degli Uberti era un uomo stanco, credeva in quello che faceva, aveva scritto con maestria di cose marinare. Ma la flotta italiana da lui tanto amata era quasi tutta a fondo. Ora, nel meriggio domenicale, riceveva amici. Accanto a lui si trovava il poeta americano Ezra Pound».
Erano incominciate da poco (ottobre '41) le sue radiotrasmissioni bisettimanali, che negli Stati Uniti gli valsero l'accusa di alto tradimento; in Italia erano guardate da qualcuno con sospetto: si temeva che, con un codice da tempo concordato, trasmettesse notizie al nemico. C'era poi quel suo nome biblico, Ezra: era forse ebreo?
Il racconto di Yvon de Begnac si riferisce alla primavera del l943; nell'ambiente da lui descritto lasciai, ai primi di giugno, mio Padre che non dovevo più rivedere, e il Poeta. Ero stato trasferito in Francia, tra Frejus e St. Raphaël: fu là che ebbi la notizia del colpo di Stato del 25 luglio. Pound ritornò a Rapallo e la sua corrispondenza con mio Padre riprende con una sua lettera in italiano da­tata 6 agosto. In essa cita un articolo di mio Pa­dre che credo si riferisse al bombardamento di Roma. «Caro Ub 2, mi ha confortato il tuo articolo 'Ci vuol altro', vedo anche che la poesia della guerra comincia...». Chiude la lettera con «Dio ti benedica, e Corinna e Dick». Il 27 agosto mio Padre mi scriveva: «Dobbiamo essere preparati a tutto e brutte figure non ne faremo in nessun caso [...] non è il momento dei se e dei ma».
Se la notizia del colpo di Stato non mi aveva troppo sorpreso, quella della capitolazione dell'8 settembre non mi trovò impreparato spiritualmente. In tale occasione, né mio Padre, né io stesso facemmo «brutte figure» ; senza sapere l'uno del­l'altro prendemmo la stessa decisione; e la prese contemporaneamente mio cugino Fabio che dalle pendici dell'Himalaya, dove era prigioniero (e dove morì cinque anni dopo) dichiarò la sua ade­sione alla Repubblica Sociale Italiana, quando seppe che si era costituita.
De Bégnac continuava: «Pound andò a conversare col suo amico Ubaldo degli Uberti [...] l'Ammiraglio lo ascoltava [...] il suo sorriso era stanco come il volto, adesso. Si volgeva, forse, al pallido mattino in cui, due anni più tardi, fucili di non si seppe mai qual parte, per sempre l’avrebbero separato dagli amati libri, dai cari ricordi». I fucili appartene­vano ad un drappello di militari russi dell'armata di Vlassov incorporata nella Wehrmacht che ope­rava in quella zona; essi presidia­vano un posto di blocco sulla strada tra Montec­chio Maggiore e Vicenza e aprirono il fuoco sulla macchina di mio Padre, credendo che si trattasse di partigiani. Colpito da raffiche di mitra, mio Padre fu trasportato in gravi condizioni all'Ospedale di Vicenza, dove si spense due giorni dopo.
Dalle lettere di mio Padre, che mi erano giunte quando già mi trovavo a Berlino, nella ca­rica di Federale del P.F.R. per la Germania Nord, avevo saputo che l'8 settembre Pound, calzato un paio di miei scarponi da sci avuti da mia Ma­dre, si era avviato verso l'Alto Adige per rag­giungervi la figlia Mary, ancor bambina. Appena la R.S.I. ebbe conseguito un certo assestamento, aveva ripreso la sua attività scrivendo su diversi periodici, tra­ducendo Confucio e continuando i Cantos.
Quando mio Padre era giunto a Vicenza, dove si era trasferito il Ministero della Marina della R. S. I., mi aveva scritto che sulla facciata di una chiesa, San Lorenzo, aveva visto un'arca con lo stemma fiorentino della famiglia. Aveva accertato che si trattava della tomba di Lapo degli Uberti, morto «esule ghibellino a Vicenza seicento anni prima». E mi scriveva: «Chissà che anch'io non debba morire esule ghibellino a Vicenza, per qualche vento di siepe».
L'ultima lettera di Pound a mio Padre, datata 4 aprile XXIII. Una lettera di ordinaria amministrazione che parla di refusi di stampa, di errori e omissioni editoriali. Ma parla anche dei versi di Pound per F. T. Marinetti, pubblicati da mio Pa­dre su «Marina Repubblicana» (15 gennaio 1945). Questi versi fanno parte del Canto LXXII, uno dei Cantos italiani ancora praticamente inediti; l'altro, il LXXIII, lo pubblicò per intero sul numero successivo. Dopo questa lettera mi risulta sol­tanto una cartolina scritta da Pound a mio Padre, che trovai appena giunto nella casa di Vicenza. È andata dispersa nei successivi spostamenti, ma ne ho un preciso ricordo visivo: a penna, datata 14 aprile (era il compleanno di mio Padre, nato nell’anno 1881) diceva «Caro Ub 2, non si costruisce sulla merda. Ez.».
Così Pound sintetizzava l'ultima delusione che gli aveva data l'Italia tanto amata e sulla quale aveva fondato tante speranze, perché guidasse la cultura e la società dell'Occidente verso un mondo migliore.
Quando, attraverso peripezie che qui non occorre rievocare, rientrai a Roma, Pound aveva già incominciato la sua dura odissea che dalla orrenda gabbia di Coltano doveva portarlo al Manicomio criminale di St. Elisabeth, dal quale doveva uscire solo quattordici anni più tardi.

Continua...

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