Dopo
una lunga gestazione, durata ben ottantotto giorni, fatta di mille
peripezie, passi in avanti e passi indietro, nervosismo diplomatico e
mercati volubili, è finalmente nato il nuovo governo italiano.
Adesso che la fiducia è stata votata sia al Senato che alla Camera,
Movimento 5 Stelle e Lega si apprestano a prender la guida della
nostra Nazione in uno dei momenti più difficili della sua
travagliata storia. Non c'è dubbio, l'Italia ha sicuramente
attraversato fasi ben più drammatiche dell'attuale (basti pensare
alle due guerre mondiali); eppure mai come adesso ci troviamo di
fronte ad un bivio storico. Un svolta che probabilmente determinerà
il nostro futuro per molti anni a venire. Qui è in gioco la nostra
Sovranità e con essa il fuoco segreto che l'anima: la nostra
Identità. Una partita che non si disputa più fra il sangue ed il
fango dei campi di battaglia, ma attraverso le delicate leve della
diplomazia e le sporche carte della finanza. E forse proprio
dall'accordo tra due forze politiche che portano in sé anche i
peggiori germi antinazionali – la Lega figlia dell'indipendentismo
padano e il M5S con la sua forte componente “girotondista” -
potrebbe avere inizio un processo di scardinamento delle logiche
socio-economiche oggi imperanti, secondo la nota massima del poeta
tedesco Friedrich Hölderlin per
cui: “dove c'è pericolo cresce anche ciò che salva”. Ma
queste sono mere supposizioni o, se vogliamo, suggestioni generate da
chi si trova nella condizione di un naufrago in mezzo alla tempesta,
a cui anche il più sparuto pezzo di legno galleggiante sulle acque
appare una nave sicura pronta a condurlo in porto. Possiamo vedere il
meglio ed il peggio in questa “strana” accoppiata tra Lega e M5S:
la speranza o il definitivo tracollo. Ma proprio per questo è
necessario lasciar perdere le suggestioni, i voli pindarici e le
opinioni, concentrandosi invece su quanto possiamo analizzare sulla
carta. Così il nostro Gruppo di Studio ha deciso di sottoporre a
confronto i due programmi politici, prestando particolare attenzione
sui capitoli riguardanti l'agricoltura, nostro campo d'indagine e di
studi.
Partiamo
dal famigerato “Contratto per il governo del cambiamento”,
in cui sono sintetizzati, punto per punto, le comuni intenzioni dei
due gruppi. All'agricoltura è dedicata poco più di una paginetta in
cui si fanno le seguenti dichiarazioni in materia:
-
maggior protagonismo in sede europea nella discussione dei trattati
-
valorizzazione dell'agricoltura non solo quale attività produttiva,
ma anche come tutela del paesaggio e degli assetti idrogeologici
-
difesa della sovranità alimentare e delle eccellenze made in Italy
-
snellimento della burocrazia
Molto
più articolato invece il capitolo sull'ambiente – a parer nostro
sintomo della predominante visione “ambientalista”, che oramai
permea le nostre coscienze, a discapito di quella agraria – dove
predominano dichiarazioni a metà strada tra l'utopia e il
surrealismo - “..decarbonizzare e defossilizzare produzione e
finanza (capiamo la produzione, ma la finanza?)..” oppure
“..privilegiare la gestione dei rifiuti a filiera corta, il
recupero di materia come il compost per ridurre i fertilizzanti
chimici e l'irrigazione (il compost è ricco d'acqua)”. Ma dove
al contempo si pone giustamente l'accento sulla necessità di fermare
il consumo del suolo e migliorare il nostro sistema d'invasi per le
acque, con particolare riferimento al bacino della Pianura Padana.
Dunque, come abbiamo dichiarato all'inizio, trattasi di un sunto
ridotto all'essenziale che ci ha costretti a verificare separatamente
i due programmi proposti da Lega e Cinque Stelle per le elezioni
politiche dello scorso marzo, al fine di comprendere meglio la genesi
di quanto scritto sul “Contratto”.
Confrontando
i due programmi ci è stato fin da subito chiaro da quale sacco
provenisse la maggior parte della farina nella composizione del
capitolo agricoltura: dal M5S. Infatti il programma della Lega in
materia è quanto mai scarso, fermo nel ribadire la necessità di una
nuova e più decisa posizione sulle politiche agricole in sede
comunitaria, ma che si guarda bene dall'ipotizzare alcun tipo di
soluzione tecnica ai problemi dell'agricoltura nazionale. Quello
della Lega è un approccio eminentemente politico-diplomatico alle
questioni agrarie del Bel Paese¹.
Sinceramente ci saremmo aspettati qualcosa in più, in virtù del
fatto che una buona parte del bacino elettorale di questo partito
affonda le sue radici nel Nord rurale, in regioni come il Veneto e la
Lombardia che sono tra le più avanzate e produttive a livello
agricolo. Possibile non esser riusciti a far di meglio? Considerando
anche che proprio ad un membro di questo partito – Gian Marco
Centinaio – è toccato il Ministero delle Politiche Agricole e
Forestali. Giudicheremo dall'operato, ci mancherebbe, ma siamo per lo
meno un po' perplessi riguardo all'insediamento in tale Ministero di
un laureato in scienze politiche²
con un curriculum professionale che con l'agricoltura ha poco o
niente a che fare. Non vorremmo ritrovarci di fronte all'ennesima
operazione di puro marketing, dietro al quale si spalanca il vuoto.
Ci auguriamo vivamente di esser smentiti dai fatti e alcune
recentissime dichiarazioni del neo ministro, lasciano forse
intravedere un piccolo spiraglio di luce³.
Il neo ministro Gian Marco Centinaio |
Veniamo
allora al programma dei 5 Stelle che, come abbiamo detto poc'anzi, ha
guidato la stesura delle parti riguardanti l'agricoltura nel
“Contratto di governo”, anche se poi non ha espresso il
ministro.
Va
detto fin da subito che il programma per l'agricoltura del M5S denota
un certo coraggio e una singolarità in tutto il panorama politico
italiano. Coraggio perché ha provato a spingere l'immaginazione
oltre le soluzioni politiche ai problemi dell'agricoltura,
prospettando un piano strutturale di interventi da operare nel
settore. Singolarità perché è l'unico programma ad aver dedicato
un certo numero di pagine all'agricoltura: ben quaranta nella
versione più ampia⁴, dodici in
quella sintetica buttata giù in concomitanza del periodo
elettorale⁵. Nessun altro
partito o movimento ha dedicato così tanto spazio alla questione
agraria. Siamo consci del minor valore percentuale dell'agricoltura
nel contesto economico italiano (2% del PIL) e del basso numero di
occupati nel settore (appena il 3,8%), ma se confrontiamo i dati
delle altre nazioni europee, ci accorgiamo della loro strettissima
somiglianza ai nostri. Inoltre questo 2% di PIL è la base da cui
trae linfa il secondo comparto industriale d'Italia,
l'agro-alimentare, il quale contribuisce ad un abbondante 12% della
produzione nazionale. Senza considerare che, dal nostro punto di
vista, il settore primario rientra a pieno diritto in uno di quei
settori strategici in cui uno Stato degno di definirsi tale dovrebbe
tornare ad investire in maniera forte e programmatica. Dunque l'aver
speso una cospicua fetta del proprio programma sull'agricoltura è
sicuramente un merito da ascrivere al Movimento di Grillo. Ma vediamo
adesso di prendere in considerazione i suoi vari punti per sviscerare
la sostanza di queste pagine.
Innanzitutto,
a
parer nostro,
si parte con un'asserzione errata o
quanto meno falsata.
Affermare che “l'agricoltura
è uno dei settori che maggiormente garantiscono un lavoro”
è
la favola bella che ieri c'illuse, che oggi c'illude, o Movimento!
Come ha potuto scrivere Ermanno Comegna: “Gli
imprenditori agricoli con età inferiore a 35 anni, determinati
dall'ultima analisi sulle strutture agrarie del 2013, sono il 5,9%
del totale nell'Ue (28 paesi membri) ed in Italia sono il 4,5%.
Rispetto al 2010, l'incidenza dei giovani è diminuita (erano il 7,5%
nella Ue ed il 5,1% in Italia). Pertanto, non si vede alcun risveglio
di interesse, anzi il fenomeno dell'invecchiamento della classe degli
agricoltori avanza, piuttosto che retrocedere, a dispetto dei tanti
sforzi fatti dalle politiche europee e nazionali”⁶.
Su
questo il programma della Lega è
stato più chiaro,
mettendo
ben
in
evidenza le stime
europee
sulla
drastica diminuzione
di
occupati nel
settore primario.
Non
bisogna inoltre dimenticare che il
fenomeno di giovani che aprono partite IVA in ambito agricolo spesso
nasconde un semplice trucchetto per ottenere contributi e
finanziamenti a
favore dell'azienda paterna o familiare.
A
prescindere da questa asserzione di partenza, ci è sembrata invece
positiva e
condivisibile l'idea di potenziare l'offerta nazionale per il
fabbisogno alimentare; ma
resta qualche dubbio sui metodi che si vogliono metter in pratica per
effettuarla. Anche perché ci sembra che si tenda a fare un po'
di
confusione tra sovranità alimentare e difesa delle eccellenze
agroalimentari italiane. Di
certo la nostra sovranità alimentare passa attraverso una produzione
di derrate – cereali – degna di soddisfare i bisogni primari
della popolazione e non certo attraverso la promozione e la
difesa
del Culatello di Zibello o del Prosciutto di Cinta Senese, che con i
loro 90€/kg non definiremmo proprio alla portata di tutti.
Sacrosanta
la loro esistenza e la loro tutela, ma il fabbisogno alimentare di un
popolo ha come base il pane, non il companatico.
Ad
ogni modo, positive per
noi
sono anche le intenzioni di ridiscutere i trattati di libero scambio,
ponendosi
l'obbiettivo di fare
in modo che l'Unione Europea li riconsideri
come misti, sottoponendoli
quindi
alla ratifica di tutti gli stati membri e all'esame dei rispettivi
parlamenti nazionali secondo le loro procedure. Sarebbe un primo
passo verso un de-potenziamento delle competenze esclusive
dell'Unione
in materia di negoziazione e trattati commerciali. Esclusive
che
troppo spesso ci hanno danneggiato e continuano a farlo (vedi
l'importazione di Riso a dazio zero dal sud-est asiatico). Così
come giuste sono alcune osservazioni riguardanti la Politica Agricola
Comunitaria, sulla
quale
predominano
le regole del WTO (World Trade Organization). Queste
regole del commercio internazionale
ormai determinano
le
linee guida della PAC, che
di
fatto è
svuotata
dal peso
decisionale degli Stati membri, delegato alla Commissione Europea,
come già visto unica detentrice della possibilità di
contrattazione. Una vera e propria stortura a cui giustamente
si dovrà cercare
in
tutti i modi di
porre
rimedio.
La politica agricola comune è realmente al servizio degli Stati membri? |
Ottima
pure l'idea di redigere dei Piani Strategici Nazionali per vari
settori del comparto primario, quali: olivicolo, cerealicolo,
allevamenti, lattiero caseario, vitivinicolo, ittico, acquacoltura,
frutta in guscio,
aree forestali e selvicoltura, piano proteico. Senza
voler entrare nel merito dei vari piani, ci fa piace evidenziare come
questi piani vengano pensati per “consentire
la programmazione delle misure volte ad incentivare la produzione:
attraverso la razionalizzazione degli impianti esistenti, lo studio
di nuovi sistemi colturali e la tutela ambientale. Misure che
permettano l'adozione di strategie produttive e commerciali tutelanti
nel breve, medio e lungo periodo”.
E su questo, niente da eccepire. Sono da diversi anni che il nostro
comparto agricolo avrebbe bisogno di un seria programmazione, di
una strategia
considerante anche il medio e lungo termine, invece
di brancolare nel buio del
hic et nunc.
Da
segnalare tra le proposte positive, anche il
potenziamento delle attività di controllo, monitoraggio e studio
delle specie invasive che negli ultimi anni hanno visto fare
dell'Italia
il loro palcoscenico prediletto
(seppure
il M5S non abbia
brillato in zelo
ed attenzione quando
in Puglia si è presentata in tutta la sua gravità
l'emergenza Xylella).
Fin
qui tutto bene, verrebbe da dire. Ma veniamo ora alle note “dolenti”.
In
primis, ed
è dal
nostro punto di vista l'handicap
più grave,
il rifiuto aprioristico verso qualsiasi forma di sperimentazione nel
campo delle biotecnologie. Non solo continuare a vietare la
coltivazione degli OGM
e
la loro
ricerca in campo aperto, ma anche un NO secco alle nuove frontiere
delle biotecnologie agrarie quali “cisgenesi” e “genome
editing”. Se possiamo comprendere il rifiuto verso gli OGM
“convenzionali”, oramai saldamente nelle mani di alcuni
gruppi
multinazionali, poco comprendiamo il netto rifiuto verso le nuove
tecniche della cisgenesi e del genome editing. Oltre ad essere forme
più precise d'intervento genetico, le
quali
non
comportano né
l'inserimento di altro materiale genetico nella piante né uno
stravolgimento del loro genoma, sono tecniche attualmente molto
meno costose di quelle fin qui utilizzate.
Potrebbero divenire
un notevole volano
di sviluppo
per i nostri centri di ricerca e per le nostre ditte sementiere,
capaci
forse di colmare il ventennale distacco che ci separa da tutte quelle
nazioni che hanno puntato sulla ricerca in campo genetico. D'altronde
dovrebbe
importare a noi, visto che ci si dichiara per la Sovranità
alimentare, incentivare lo studio e la ricerca in materia di
biotecnologie agrarie, facendo
in modo che questi metodi, per
adesso ancora
liberi per la ricerca pubblica, non s'inabissino
nel classico
ginepraio burocratico. Ma
se andremo in Europa a urlare forte il nostro NO, ad erigere paletti,
a rendere difficoltoso
anche
soltanto l'inizio
un processo di
sperimentazione e
ricerca,
non faremo altro che servire un assist d'oro alle multinazionali che
apparentemente
si
dice
di voler
combattere. Cosa importa alla Monsanto di turno se in Italia si vieta
la coltivazione dei sui mais
geneticamente
modificati?
Ci sono sterminati e
sterminati
ettari di paesi in via di sviluppo pronti
a seminarli
e con
i quali fare migliori e più lauti affari. Che
poi la questione non dovrebbe nemmeno porsi come
uno
scontro frontale tra noi e le multinazionali. Basterebbe parlare
chiaro e porre alcune semplici regole da far rispettare. Se le si
accetta, bene, siete i benvenuti in casa nostra e possiamo procedere
di comune accordo; altrimenti fuori e
avanti un altro!
In
questa delicata fase, in cui il nuovo governo sta cercando di muovere
i primi passi verso un cambiamento, sarà sicuramente necessaria una
forma di stretta collaborazione tra pubblico e privato, come in
alcuni casi è anche già successo con effetti positivi⁷.
Starà poi a noi fare in modo che non si tratti solo di episodi
sporadici, ma di una volontà costante e ben indirizzata.
Se vogliamo cercare una nuova strada per l'agricoltura italiana, dovremo fare in modo che sappia coniugare il rispetto per la nostra storia con la ricerca e lo sviluppo, mantenendo aperte le porte alla cooperazione e allo scambio di conoscenze con chiunque voglia dare il proprio contributo. Altrimenti è inutile ipotizzare dei Piani Strategici Nazionali, per esempio quello cerealicolo, con l'obbiettivo di “assumere iniziative mirate ad assicurare, all'industria di trasformazione, determinati volumi di prodotto” - dando l'idea di avere una giusta cognizione della necessaria interdipendenza tra agricoltura ed industria – e poi propugnare la “diffusione dell'agricoltura biologica e biodinamica”. Qui siamo di fronte ad una contraddizione in termini, ad un vero e proprio paradosso. Vogliamo produrre di più, per garantire alla nostra industria molitoria grano di qualità ed in abbondanza e poi non solo ci vogliamo privare dell'apporto della genetica, ma ci auguriamo pure che agricoltura biologica e biodinamica si diffondano sempre più sul territorio. Passi per l'agricoltura biologica – che comunque significa una riduzione produttiva – ma sull'agricoltura biodinamica, con tutte le scusanti e le giustificazioni che possiamo trovare, non ci sentiremmo proprio di ascriverla tra le leve trainanti di un Piano Strategico Nazionale. Nessuno vuole asserire che i pilastri del modello agronomico occidentale – chimica, meccanica e genetica - non possano esser criticati, anche aspramente, ma bisogna avere almeno il buon senso di riconoscere che la loro sinergia ha fatto crescere le nostre produzioni agrarie come non mai nella storia dell'umanità, garantendo un'abbondanza alimentare mai raggiunta prima. Dunque è giusto criticare, è d'obbligo rivedere, riconsiderare, ma voler negare, voler recidere quasi di sana pianta la nostra scienza agronomica non ci sembra né un atteggiamento ponderato, né una prospettiva Sovranista per il futuro.
Se vogliamo cercare una nuova strada per l'agricoltura italiana, dovremo fare in modo che sappia coniugare il rispetto per la nostra storia con la ricerca e lo sviluppo, mantenendo aperte le porte alla cooperazione e allo scambio di conoscenze con chiunque voglia dare il proprio contributo. Altrimenti è inutile ipotizzare dei Piani Strategici Nazionali, per esempio quello cerealicolo, con l'obbiettivo di “assumere iniziative mirate ad assicurare, all'industria di trasformazione, determinati volumi di prodotto” - dando l'idea di avere una giusta cognizione della necessaria interdipendenza tra agricoltura ed industria – e poi propugnare la “diffusione dell'agricoltura biologica e biodinamica”. Qui siamo di fronte ad una contraddizione in termini, ad un vero e proprio paradosso. Vogliamo produrre di più, per garantire alla nostra industria molitoria grano di qualità ed in abbondanza e poi non solo ci vogliamo privare dell'apporto della genetica, ma ci auguriamo pure che agricoltura biologica e biodinamica si diffondano sempre più sul territorio. Passi per l'agricoltura biologica – che comunque significa una riduzione produttiva – ma sull'agricoltura biodinamica, con tutte le scusanti e le giustificazioni che possiamo trovare, non ci sentiremmo proprio di ascriverla tra le leve trainanti di un Piano Strategico Nazionale. Nessuno vuole asserire che i pilastri del modello agronomico occidentale – chimica, meccanica e genetica - non possano esser criticati, anche aspramente, ma bisogna avere almeno il buon senso di riconoscere che la loro sinergia ha fatto crescere le nostre produzioni agrarie come non mai nella storia dell'umanità, garantendo un'abbondanza alimentare mai raggiunta prima. Dunque è giusto criticare, è d'obbligo rivedere, riconsiderare, ma voler negare, voler recidere quasi di sana pianta la nostra scienza agronomica non ci sembra né un atteggiamento ponderato, né una prospettiva Sovranista per il futuro.
Il famigerato corno letame, "attivatore dei processi vitali della terra" secondo le pratiche dell'agricoltura biodinamica |
Sempre
al riguardo, nel programma si delinea un intero capitolo sulla
stretta ai pesticidi, dove viene enunciato il sano principio di
“regolamentare
l'uso della chimica in agricoltura”.
Giusto.
Chi non sarebbe d'accordo? Il fatto è che l'utilizzo degli
agrofarmaci in agricoltura è di per sé già molto, molto
regolamentato in
Italia.
Fatta la legge trovato l'inganno, siamo d'accordo; ma l'attuale Piano
di Azione Nazionale (il famigerato PAN), che
di nazionale ha ben poco e di confuso molto, ha
già imposto
una dura stretta per gli agricoltori.
Per
un'azienda agricola è oggi assai difficile sfuggire alla
tracciabilità nell'acquisto dei prodotti, alla registrazione dei
trattamenti sul registro di campagna, alla revisione delle botti
irroratrici, ai vari
controlli degli enti preposti. Però,
paradosso dei paradossi,
è ancora possibile vendere – con la semplice presentazione di un
codice fiscale – molti degli stessi prodotti usati da un
professionista ad un comune privato, il quale viene inserito su un
registro di carico e scarico, ma non è assolutamente passibile di
qualsivoglia controllo, a meno che non vi sia una denuncia nei suoi
confronti. Oppure,
per fare un altro esempio, si
fa un gran parlare oggi
del danno che provocano nei confronti delle
api diversi
insetticidi utilizzati in agricoltura. Ebbene poco si parla di quanti
danni facciano alle nostre solerti impollinatrici anche i più comuni
insetticidi per uso
civile. Per esempio i prodotti per la lotta alle
zanzare, di libera vendita perché registrati come presidio
medico
chirurgico
e
irrorati
su siepi, giardini, aree verdi e residenziali,
sono
insetticidi scarsamente selettivi: ovvero uccidono tutto ciò con cui
arrivano a contatto.
Ed
il cittadino privato
non bada tanto a trattare se ci sono
fioriture
o meno in giro - cosa che l'agricoltore invece è tenuto a fare -
perché quando la zanzara punge,
non ci sono biodiversità o impollinazioni che reggano.
Quello che vogliamo dire è che si rischia, come troppo spesso
accade, di colpevolizzare le aziende agricole, già di per sé
tartassate da miriadi di adempimenti, anche assurdi, per
poi
permettere
simili
cose. Prima
di scaricare colpe ed anatemi sul nostro sistema agricolo, sarebbe
meglio fare delle valutazioni più mirate.
Dichiarare
poi
“sanzioni
per la mancata osservanza del PAN”
significa o non conoscere l'esistenza di un cospicuo regime
sanzionatorio, già
presente nel piano,
o voler inasprire ulteriormente la consistenza di queste sanzioni.
Siamo sicuri di volere questo? Non
si rischia così di esasperare ancor di più gli animi? Sarebbe
invece necessario fare in modo che si acceleri questa netta
separazione tra i prodotti professionali e quelli per uso amatoriale,
dando un taglio netto all'enorme confusione generata. Poi riscrivere
finalmente,
in
carattere chiaro e davvero
nazionale,
il
PAN – sottoposto
oggi alle mille interpretazioni delle varie ASL locali -
e di lì partire con una campagna di incentivazione, offrendo anche
servizi di consulenza tecnica e di aiuto creditizio, affinché le
aziende possano
intraprendere nel miglior modo possibile gli adempimenti richiesti.
Dichiarare
poi di voler interrompere le autorizzazioni eccezionali dei prodotti
fitosanitari, sembra più una dichiarazione di principio che altro.
In base a quale criterio e
per quali
contesti
colturali
si fanno simili asserzioni? Non
sarebbe buona cosa,
prima di minacciare l'uso della mano dura, soppesare e
valutare meglio certe
dichiarazioni? Esistono
contesti colturali in cui al momento non è possibile fare a meno di
determinati prodotti se si vuole mantenere un'adeguata produzione. In
questi casi sarà necessaria una certa gradualità. Se riteniamo
giusto sostituire metodi e prodotti obsoleti, alla
lunga
dannosi per salute e ambiente, bisognerà però
anche
dare il giusto tempo per lo studio di nuove
soluzioni e fare in modo che le aziende agricole possano metterle in
pratica, arrivando via via alla sostituzione di un metodo con un
altro senza che si perda di
troppo la capacità
produttiva.
Dulcis
in fundo, ciliegina
sulla torta che in parte vi avevamo già anticipato, arriva
quando ci si augura che “siano
sostenute tutte le forme produttive agricole fondate sull'uso
responsabile delle risorse naturali (agricoltura biologica,
biodinamica, agro-ecologia)”
o
quando nel programma più ampio, a pag. 28, si dichiara quanto segue:
“il
modello contadino a cui intendiamo riferirci è l'azienda di ridotte
dimensioni economiche ed estensive che produce con alta intensità di
lavoro e bassa capitalizzazione, con vendita diretta e
prevalentemente nel territorio limitrofo, che pratica la
diversificazione colturale, tecniche agronomiche conservative a basso
o nullo impatto ambientale come la permacultura, la riproduzione e la
conservazione delle sementi e delle razze autoctone”. E
qui forse crolla un po' tutta l'impalcatura, privando
di senso i punti positivi che avevamo individuato nel programma.
Ovvero
questo
“modello contadino”
a cui si
dichiara
d'ispirarsi
è qualcosa che non esiste!
Oppure
è talmente microscopico e talmente distante dalla realtà
dell'agricoltura italiana che è
quanto mai assurdo erigerlo a modello ideale. Questi sono i classici
feticci post sessantottini, residui dell'ambientalismo più radicale,
che oggi vanno tanto di moda nei
salotti buoni delle borghesia agiata e progressista; quella che si
esalta di fronte alla decrescita felice e alla riscoperta dei cibi
genuini
e tipici,
prodotti
secondo
i
cicli biologici di
Madre Natura.
Quanto
di più distante da quello
che per noi dovrebbe essere un approccio Sovranista al tema
dell'agricoltura. Questi
sono metodi di coltivazione che possono andar bene in piccole realtà,
negli orti domestici o in produzioni di nicchia. Noi dobbiamo invece
pensare non solo a come
soddisfare il fabbisogno alimentare di oltre 60 milioni di
italiani,
ma anche alle
richieste di un mercato estero sul quale la produzione agricola
italiana è ancora sinonimo di garanzia e qualità. Sovranità
non significa
autarchia nel senso più retrivo del termine, ma libertà nella
scelta delle proprie politiche, interne
ed esterne, nel
quadro delle relazioni internazionali. E
per rivendicare questa libertà in campo agricolo dobbiamo utilizzare
tutti gli strumenti a
nostra disposizione. Strumenti diplomatici: l'apertura di nuovi
rapporti politico-commerciali con partner strategici, la difesa delle
nostre produzioni, l'incentivazione alla formazione e alla ricerca. E
strumenti agronomici:
chimica,
meccanica, genetica ed oggi anche l'elettronica digitale, coordinate
da una volontà politica ben programmata e dal nostro Genio,
potrebbero ridisegnare un panorama
diverso per l'agricoltura italiana.
Tirando
le somme, cosa
possiamo dire? Di certo che si tratta di un programma con
spunti interessanti, ma
molto confuso, dove vengono a mescolarsi istanze antitetiche tra loro
– sovranità alimentare e biodinamico; piani strategici nazionali e
no assoluto alla ricerca in campo genetico – e che lascia
la
sensazione si tratti di una sorta di copia ed incolla non
ben riuscito. È
vero che ogni iniziativa, in qualsiasi comparto economico nazionale,
dovrà prima passare attraverso alcuni necessari cambiamenti a
livello generale, senza i quali forse sarà vano ipotizzare
l'attuazione di
qualsivoglia programma.
Per
esempio, la sacrosanta lotta al caporalato non potrà mai attuarsi se
prima non si troverà
una soluzione congrua
al problema migratorio e
alle varie mafie che sopra vi lucrano.
Così come sarà vano prospettare investimenti strutturali per
l'agricoltura
se resteremo ingabbiati nei vincoli di bilancio e non potremo operare
in deficit.
Ma
è altrettanto vero che dobbiamo preparaci a dare delle risposte,
quanto
più concrete,
a tutte le domande che
si porranno
di fronte a noi; anche soltanto
per
ampliare la gamma di possibilità con le
quali
armare l'arco
teso verso il nostro
futuro.
In
conclusione non possiamo che augurare
a questo nuovo governo di riuscire nel
difficile
compito che
lo attende,
aggiustando il tiro sul
programma agricolo laddove
per adesso abbiamo individuato carenze ed
incertezze e
lasciando perdere alcuni assurdi propositi, dettati più da
un'impostazione ideologica che da una valutazione scientifica.
La
partita è aperta.
Gruppo
di Studio AVSER
NOTE
1
– Pag.
25-28: PROGRAMMA DI GOVERNO LEGA, SALVINI PREMIER
7
- “Dal 2007 ad
oggi è stato fatto un grande
sforzo d'investimento,
con un aumento della capacità produttiva degli zuccherifici di oltre
il 40%. Anche Coprob ha lavorato per raggiungere l'obiettivo.
Questo percorso ha stimolato tutti, tecnici e bieticoltori, ad
adottare le nuove tecnologie per accrescere nel più breve tempo
possibile la produttività di zucchero per ettaro.
Ecco
tre aspetti su cui Coprob ha lavorato: i Ctb-Club
territoriali della bietola,
con il compito di stimolare lo sviluppo della produttività delle
bietole con l’ausilio di consulenti specializzati, l'accordo
con Timac Agro Italia per
l’incremento delle performance produttive e qualitative della
barbabietola da zucchero e della sua trasformazione industriale, e la
partnership con
Enel, per la
conversione dell'impianto di Finale Emilia (Mo) ed il percorso
finalizzato alla produzione di biogas a Ostellato (Fe).” - "Che fine ha fatto la Barbabietola italiana?"